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sintesi della relazione di Andrea Grillo
Verbania Pallanza, 13 aprile 2013

Sono tornato volentieri a Verbania. Il contatto con voi non è mai venuto meno, soprattutto a motivo della Rassegna Stampa aggiornata quotidianamente sul sito dei "Finesettimana" (www.finesettimana.org), di cui apprezzo anche la tempestività con cui vengono messi a disposizione articoli di quotidiani italiani e anche stranieri. Lodo inoltre la capacità di produzione di testi scritti di interventi che vengono sbobinati con una qualità e puntualità inusuale nel nostro paese. Anche le relazioni del vostro percorso di quest'anno sull'annuncio del vangelo a 50 anni dal Concilio, ho visto che sono già disponibili in libretti.

un nuovo passaggio dello Spirito

Mi inserisco in questo percorso esprimendovi la mia convinzione che l'anniversario conciliare, che coincide con l'anno delle fede, corrisponde a un nuovo passaggio dello Spirito. Il 12 ottobre 2012 (quindi ben prima delle dimissioni di Benedetto XVI e dell'elezione del nuovo papa) mi trovavo a Roma e per la prima volta ho celebrato a Roma un'eucaristia (lavoro a Roma, ma normalmente non rimango per il fine settimana). Sembrandomi giusto onorare il Concilio, a 50 anni dal suo inizio, mi sono recato in piazza San Pietro per la celebrazione. Per il clima di quella celebrazione, per i discorsi che ho sentito, per tutte le iniziative ecclesiali italiane ed estere che sono state organizzate in memoria del Concilio, mi sono reso conto che era cambiato qualcosa in profondità, in particolare era mutato l'atteggiamento nei confronti di un'ermeneutica conciliare "continuista" particolarmente in auge durante il pontificato di Benedetto XVI.
Già sotto il pontificato di Giovanni Paolo II e poi di Benedetto XVI, tra sussurri e mormorazioni, erano state dette cose incredibilmente false sul Concilio, si erano costruite montagne di difficoltà e di problemi... Ma con il 50° anniversario del suo inizio, il vento della nuova pentecoste del Concilio tornava a spirare con forza. La necessità di doversi confrontare con i testi ha fatto sì che le menzogne, i luoghi comuni, le letture unilaterali non reggessero più

la dottrina eucaristica del Vaticano II

Proprio per questo motivo ho pensato di fare con voi un percorso partendo da un testo di Ermanno Roberto Tura, un padovano, che lavora in ambito sacramentale liturgico, oltre che ecumenico. Tura è stato un allievo di Luigi Sartori ed è un prosecutore, originale, del suo cammino.
Questo testo ci introduce nel nostro tema per una via apparentemente "minore", ma in realtà della massima importanza:

"Partecipanti realmente al Corpo di Cristo" (LG 7: "De Corpore Christi realiter participantes")
Nel dibattito teologico è stato sostenuto che «La dottrina eucaristica del Vaticano II riprende in generale quella del Tridentino». L'affermazione suscita qualche perplessità, se si leggono con attenzione i trenta frammenti eucaristici del Vaticano II accostandoli alle tre sessioni tridentine. Nei "frammenti" si nota una mens culturale che, raccordando Eucaristia e Chiesa, ricama la proposta tridentina personalizzandola e dinamicizzandola. Si avverte l'eco dell'epoca biblico-patristica, in un attento recupero specie della teologia afroromana di Agostino.
Avviciniamo un istante i due concili. Presupposta la fede tridentina nella Presenza reale, i padri del Vaticano II pongono l'accento sull'incontro reale tra il Risorto e i fedeli, accorpando l'accento tridentino sugli elementi eucaristici (Pane e Vino) e l'accento evangelico-patristico sui fedeli partecipanti con fede. L'avverbio realiter cade sul partecipare più che sul "continèri".
''Analogamente la comunione eucaristica attraversa tutta la celebrazione, iniziando dalla mensa della Parola per proseguire nella mensa del Pane e maturare nella carità di ministeri e carismi che innervano la celebrazione e la missione (cf. LG 26).
Anche il sacrificio eucaristico va interpretato puntualmente come dono di Sé coinvolgente altri nella sequela dell'Agnello pasquale: le due sponde (l'hapax di Cristo nel suo Corpo donato e l'hodie della Chiesa accogliente il suo Signore nella fede) si compenetrano per la missione salvifica verso l'intera umanità'' (cf da SC 47 a AG 15).
Se valorizzati a sufficienza i trenta frammenti eucaristici con discrezione offrono sporgenze ecumeniche per capirci tra cristiani di diverse confessioni, valorizzando terminologie antiche e nuove.

la sana tradizione è il legittimo progresso

Gli scritti di Tura ci aiutano a riflettere sul grande passaggio paradigmatico che ha riguardato l'eucaristia nel periodo successivo al concilio. È uno dei punti su cui negli ultimi anni ho molto insistito e su cui non è accettabile l'impostazione continuista.
È quanto afferma apertamente Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, in una relazione svolta ad un convegno tenutosi a Bergamo su "La teologia del Concilio" (il volume che contiene i testi è stato pubblicato nel 2012 dalle edizioni San Paolo). Nella sua relazione su "Il Concilio Vaticano II, "bussola" per la chiesa", il vescovo di Novara dice apertamente che il Vaticano II dal punto di vista dell'eucaristia segna una svolta sul piano della lingua, della tradizione, della celebrazione, una svolta che dobbiamo riconoscere come una novità. L'elemento di discontinuità non è scandaloso, ma costituisce proprio la possibilità di rinnovare la tradizione.
Tante volte in questi anni si è dovuto sentir parlare di alternativa tra tradizione e progresso. Questa è una cosa scandalosa, perché tutto il concilio non è altro che una delicatissima mediazione tra sana tradizione e legittimo progresso. Questo non significa scegliere un po' dell'uno e un po' dell'altro, ma, al contrario, vuol dire che l'unica sana tradizione è il legittimo progresso.
Una tradizione che non è sana, non è tradizione. Porta fuori strada. La tradizione non si autogarantisce, ma si mette in gioco. Sana è una tradizione che apre a un progresso che per questo diventa legittimo. Una tradizione non sana, la si riconosce dal fatto che ingloba elementi di controtestimonianza, per usare un termine di Giovanni Paolo II. Ci possono essere invece elementi positivi che non si trovano nella tradizione più recente, ma solo nella tradizione più antica, o addirittura in altre tradizioni. Questo è quello che il concilio ha fatto.
Il concilio si rende conto che in tema di liturgia eucaristica, in tema di ecclesiologia, ci sono elementi della tradizione che non si possono più accettare e occorre trovarne di nuovi, o nella tradizione più antica, o in altre tradizioni cristiane o addirittura fuori dalle tradizioni cristiane.
Il cambiamento è fatto non per discontinuità, ma per assicurare una continuità sana.

il peccato grave dell'autoreferenzialità

L'attuale papa, prima dell'inizio del conclave, nelle congregazioni generali, ha fatto un intervento i cui appunti sono stati pubblicati dal cardinale di Cuba con autorizzazione del papa. La prima affermazione che vi leggiamo è che nella Chiesa l'autoreferenzialità è un peccato grave, e che occorre uscire dall'autoreferenzialità. Il livello più delicato della autoreferenzialità riguarda il modo in cui si concepisce la tradizione.
Se la tradizione è ripetizione del medesimo, forte è la tentazione per la Chiesa di essere puramente autoreferenziale. Già a partire da quegli appunti notiamo che papa Francesco continua a ripetere che bisogna uscire da sé.
Forse ancora pochi lo hanno notato che il tema dominante di Benedetto XVI, da buon agostiniano, è stato il "ritorna in te stesso". Papa Francesco invita al contrario ad uscire da sé. Noto questo non per sottolineare la contraddizione ma la diversità del movimento. Una buona tradizione deve saper entrare in se stessa e uscire da sé. Le due cose sono da fare insieme. Però nel pontificato di Benedetto XVI l'accento era messo sul rientrare in se stessi, sul riacquisire i propri valori, sul difendere l'identità. In questo pontificato invece c'è l'invito ad uscire da sé.
In uno scritto di Bergoglio recentemente pubblicato si dice: "piuttosto che il primato dei valori, il primato dei volti". "Più che valori da difendere, volti da incontrare". "Farsi insegnare dagli altri cosa è il vangelo". A livello di linguaggio, le cose appaiono capovolte.
Prendiamo il gesto della lavanda dei piedi. La settimana scorsa, uno studente a Roma mi chiedeva come fosse possibile che il papa lavasse i piedi ai carcerati, dato che, secondo il rituale, il papa o il vescovo dovrebbe lavare i piedi ai suoi stretti collaboratori. Gli ho risposto che innanzitutto non dobbiamo sostituire le rubriche del messale al vangelo, altrimenti ci chiudiamo dentro la tradizione. Inoltre, se, pur leggendo nel vangelo un brano in cui si parla della suocera di Pietro, possiamo continuare a parlare di celibato, tanto più siamo liberi nell'interpretare una rubrica del rituale.
Un papa è libero di applicare una rubrica secondo buon senso. Decisivo non è solo l'atto di carità di lavare i piedi ai carcerati, quanto il mostrare che i carcerati sono abilitati ad annunciare il vangelo. Lavare i piedi, non è soltanto la carità del maestro verso i suoi, ma è un atto di abilitazione dei suoi. Qualcuno ha letto questo gesto in termini di iniziazione: non è soltanto un atto di bontà del papa verso gli ultimi degli ultimi, ma è il suo riconoscimento che lì c'è una risorsa per la Chiesa. Questa è la cosa sorprendente.

Sacrosanctum Concilium come chiave di lettura

Questa libertà noi la possiamo leggere proprio nella svolta conciliare che riguarda la liturgia. Importante non è solo il fatto che la Sacrosanctum Concilium sia il primo documento, ma che il concilio sia letto a partire dalla Sacrosanctum Concilium.
Di recente è uscito in Francia un articolo dove si dice che i due "autori" che hanno fatto questa lettura sono stati prima Dossetti e più tardi Ratzinger. Sono gli unici due, in questi 50 anni, che hanno osato dire che la qualità decisiva del Concilio la si trova in Sacrosanctum Concilium. Ma le loro due posizioni si possono dire agli antipodi. Infatti Ratzinger sostiene l'importanza di Sacrosanctum Concilium per scavalcare il problema ecclesiologico, in quanto la costituzione sulla liturgia affermerebbe la necessità di tornare al primato di Dio. Dossetti, all'opposto, dice che è importante Sacrosanctum Concilium perché è la costituzione più radicalmente ecclesiologica (molto più di Lumen Gentium), perché ricostituisce l'organo ecclesiale a partire da un atto in cui Dio e l'uomo sono costitutivamente coinvolti in un'azione. Si tratta di un dibattito oggi ancora molto aperto circa l'atto rituale come atto di Dio e dell'uomo, in cui Dio e l'uomo sono costitutivamente in collaborazione. Le derive o solo antropologiche o solo teologiche spezzano in due la liturgia, e bisogna fare attenzione perché non è facile identificare nel panorama attuale la lettura più aperta. A volte sottolineare soltanto il valore dell'iniziativa di Dio può essere una lettura molto aperta, altre volte invece chiusa, e lo stesso vale per quanto riguarda il ruolo dell'uomo. Se tutto dipende da Dio, facilmente si può diventare sciatti, se tutto dipende dall'uomo, si può essere creativi, oppure irrigiditi... La differenza sta in un modo equilibrato di pensare l'atto liturgico.

il carattere pastorale e un approccio diverso alla tradizione

Quello che però a me sta a cuore farvi capire è proprio quel cambiamento di paradigma introdotto dal concilio sul piano liturgico, e che ho capito meglio grazie a Pino Ruggieri. La cosa più interessante che, a mio parere, ha scritto sul tema liturgico è un articolo piuttosto corposo apparso in un libro del 2003 sulla teologia di Giovanni XXIII. Importante è il discorso inaugurale "Gaudet mater ecclesia" di Giovanni XXIII che ci consente poi di comprendere meglio i documenti conciliari (per capire il concilio non è sufficiente leggere i testi, i quali sono invece espressione di un contesto che va tenuto presente).
Giovanni XXIII afferma il carattere pastorale del concilio. L'aggettivo "pastorale" non vuol dire, come alcuni fraintendono, qualcosa di poco valore, di secondaria importanza, ma indica un modo diverso di rapportarsi alla tradizione. È quanto sostengono, seppure in modo diverso, Giovanni XXIII e Paolo VI, e cioè che la tradizione, per essere onorata, ha bisogno di un dato di discontinuità. Per poter continuare la tradizione ecclesiale, bisogna cambiare.
È quanto mettono in rilievo in modo particolare due teologi nordamericani, il canadese Gilles Routhier e lo statunitense John W. O'Malley, che rilevano come l'elemento veramente nuovo del concilio è il linguaggio che usa e lo stile con cui affronta le questioni. A differenza di tutti i concili precedenti non si formulano definizioni dogmatiche né si condannano proposizioni erronee. I primi venti concili sono contrassegnati da un approccio dogmatico-disciplinare. La parola più frequente nei testi del concilio di Trento è "anatema", "scomunica", "fuori dalla comunione della chiesa". Nei documenti del Vaticano II quel termine non appare mai.
L'uso di un certo linguaggio ci fa capire che a livello di magistero è stato inaugurato un modo diverso di comunicare.
Il cambiamento di linguaggio è importante in tutti i settori, ma in modo sorprendente è importante per l'esperienza rituale, per la liturgia, e in particolare per la celebrazione eucaristica. Anche per la liturgia la novità è anzitutto di linguaggio e di stile.

un concilio ricco di racconti nutrienti

In gioco, come dicevo, è l'approccio con la tradizione, come ha rilevato Pino Ruggieri a proposito del discorso inaugurale del concilio tenuto da Giovanni XXIII, in cui viene pronunciata la famosa frase: "Altra è la sostanza dell'antica dottrina del depositum fidei, altra è la formulazione del suo rivestimento", a cui segue: "Per questo, il concilio Vaticano II che inauguriamo sarà un concilio pastorale".
La frase ("Altra è la sostanza dell'antica dottrina del depositum fidei, altra è la formulazione del suo rivestimento") si presta a facili fraintendimenti. Per chi è "allenato" alla tradizione teologica antica e medioevale, i termini "sostanza" e "rivestimento" sembrano ricordare il rapporto sostanza-accidente, la relazione tra l'invisibilità di ciò che permane, di ciò che sta sotto, di ciò che è sostanza, e la visibilità dell'accidente, della specie, che però non dice la verità.
Ruggieri ha svolto una ricerca su che cosa voleva dire Giovanni XXIII con il termine sostanza, passando in rassegna, da rigoroso filologo, tutti i discorsi di papa Giovanni, tutti i discorsi e le lettere pastorali del patriarca di Venezia Angelo Roncalli, tutti i discorsi, gli interventi e le lettere di quando Roncalli era nunzio a Parigi e tutti gli scritti e le lettere del prete Angelo Roncalli. Alla fine ottiene un risultato molto interessante, perché si accorge che Angelo Roncalli non usa mai il termine "sostanza" nel suo significato metafisico, di realtà invisibile che "sta sotto". Il termine "sostanza" nell'uso di Roncalli evoca delle immagini assolutamente sorprendenti, come ad esempio il calice, il messale, il breviario, la bibbia, oppure una fontana zampillante, un giardino fiorito...
Allora capiamo che per Roncalli "sostanza" non è l'elemento metafisico che sta sotto e che dice cosa è la realtà, ma è ciò che della realtà ci nutre, ciò che è "sostanzioso". È l'accezione storica di sostanza, non quella metafisica.
Capiamo di conseguenza che, definendo "pastorale" il concilio, Giovanni XXIII si preoccupa che il concilio sia ricco di racconti nutrienti e sostanziosi, non pieno di definizioni essenziali. Quest'ottica diversa ci fa comprendere che, per continuare, la tradizione deve ri-alimentarsi a ciò che fonda le proposizioni dogmatiche e i canoni di condanna. Non si vive né di dogmi né di canoni di condanna, ma si vive di ascolto della parola (Dei Verbum), di celebrazione del culto (Sacrosanctum Concium), di vita ecclesiale (Lumen Gentium), di rapporto con il mondo (Gaudium et Spes). Il discorso di Giovanni XXIII è dell'11 ottobre del 1962, mentre i documenti conciliari saranno emanati tra il '63 e il '65. Nonostante tutti i compromessi e gli equilibrismi necessari per giungere alla loro stesura definitiva, se li leggiamo alla luce del principio della "pastoralità", vediamo che ne sono la fedele interpretazione. La Chiesa nelle quattro costituzioni riflette su di sé, come dirà Paolo VI, per meglio esprimere se stessa a partire da ciò che la nutre. Non si tratta di rifiutare i dogmi, ma di lasciarli al loro posto.
L'impostazione pastorale, che mira a esplicitare ciò di cui e per cui la Chiesa vive, costituisce una novità per il magistero della Chiesa, perché per la prima volta, un intero Concilio ecumenico non pronuncia né verità dogmatiche, né condanne canoniche. Si esce da una logica dogmatico-disciplinare non per smentirla, ma per fondarla, riabbeverandosi alla fonti vere.

dalla delega alla liturgia come linguaggio di tutti

Il cambiamento di orientamento vale per tutte le dimensioni della vita ecclesiale, ma in primis vale per la liturgia e in particolar modo per l'eucaristia.
In questo discorso generale, che fa da sfondo a tutta la riflessione, si inserisce il percorso di riforma a servizio di un popolo di sacerdoti e profeti, come dice il titolo del nostro incontro.
L'atto centrale con cui il concilio introduce discontinuità nella liturgia è la costituzione Sacrosanctum Concilium, in particolare nel punto in cui afferma che è finito il regime precedente, cioè quel paradigma celebrativo basato sulla delega clericale nel campo della liturgia.
Questo sistema, durato per otto-novecento anni, veniva ancora confermato nella Mediator Dei (1947) nonostante tutte le aperture di Pio XII. Papa Pacelli, pur mostrando una crescente sensibilità per la riforma liturgica, ha mantenuto una rigida impostazione sulla partecipazione ai riti liturgici, vista in termini puramente interiori: si partecipa all'eucaristia maturando nell'animo sentimenti simili a quelli di Cristo. I riti riguardano solo il prete, ed eventualmente quei ministri che intervengono col prete quando la messa è solenne. Di norma, mentre il prete "dice messa", le altre persone presenti fanno altro. Fino agli anni 50, solo il prete e il vescovo, e solo se celebranti, fanno esperienza della messa. Si pensi che al concilio i vescovi, durante le messe a cui presenziavano insieme, dicevano il breviario. All'inizio della giornata, ogni vescovo diceva la sua messa individualmente. Durante la successiva messa di apertura, a cui i vescovi assistevano, ciascuno faceva le proprie devozioni.

la strana promessa di Francesco di Sales

San Francesco di Sales, quando viene ordinato vescovo, fa la promessa di dire sempre almeno tre rosari durante le messe solenni! Celebra solo chi dice la messa. Soltanto nel momento della consacrazione coloro che assistono sono tenuti a sintonizzarsi, mentre per il resto del tempo c'è un "regime parallelo". Mentre il prete recita da solo ciò che è previsto dal rito, i fedeli dicono il rosario, fanno la novena alla divina misericordia, leggono un libro sacro... È quanto è avvenuto per secoli, dalla fine del Medioevo fino agli anni 50.
Anche la sequenza rituale vale solo per il prete, non per la gente. Ad esempio le persone presenti non ricevono il pane eucaristico al momento della comunione, ma alla fine della messa. È un atto privato di devozione, e non un rito di comunione.
Il concilio si avvale dell'esperienza del movimento liturgico che qua e là aveva già cominciato a cambiare le cose. Infatti già prima del concilio erano stati introdotti dei cambiamenti, ma in modo ufficioso, a volte tollerato e a volte no.
La logica elementare secondo cui i riti e le preghiere della liturgia sono linguaggi di tutti viene finalmente accettata dal concilio. E questo cambia completamente "il gioco".
Purtroppo l'abitudine del laico alla delega nei confronti del prete che dice messa e del prete a tenersi la delega e a dire messa "nonostante" il laico, ha lasciato forti "strascichi", creando un'alleanza "al peggio". Il laico oggi non recita più il rosario ma continua a delegare interiormente e il prete è spesso contento di ricevere questa tacita delega. Grazie al cielo da 50 anni tanti preti e tanti laici non fanno più così!

il rito come atto nutriente per tutti

Ancora nell'ultimo decennio un cardinale ha detto che in fondo non era un male che la gente dicesse il rosario durante la messa! Se durante la messa accettiamo che una logica diversa interferisca, vuol dire che non abbiamo capito la prospettiva conciliare dell'atto nutriente.
Non è in gioco una nuova serie di norme, ma la capacità di rileggere il rito come un atto nutriente e sostanzioso per tutti. Tutti entrano nei riti di ingresso, nella liturgia della parola, nella liturgia della preghiera universale, nella professione di fede, nella presentazione dei doni, nella preghiera eucaristica in comunione con il prete. È l'assemblea che concelebra. Tutti devono essere iniziati ai vari momenti del rito. Non ci si ritrova tutti insieme alla domenica per precetto o perché ognuno faccia la propria individuale devozione.
È vero che nel passato le chiese erano piene, ma erano piene di donne e di uomini tra loro divisi. Oggi sono meno piene di un tempo, ma non per colpa del concilio, bensì a causa di una crisi, originatasi ben prima del concilio, che ha minato alle basi la strutturale sintonia tra il mondo borghese che stava crescendo e le forme individualistiche di spiritualità.
L'individualismo spirituale, nel Medio Evo o nella prima modernità, non era un problema. Lo è diventato dopo la Rivoluzione Francese, nel momento in cui prende avvio, e non è un caso, il movimento liturgico, che si rende conto della inadeguatezza delle strutture liturgiche che esprimono e producono individualismo. Il concilio, da questo punto di vista, è davvero una profezia in ambito liturgico perché chiede al cristiano di vivere la propria fede in una logica strutturalmente comunitaria.

tre approcci su forma, materia e ministro

Prendiamo brevemente in esame la sottostante tabella

Dimensioni classiche del sacramento - Forma - Materia - Ministro
Approccio dogmatico-disciplinare - Formula - Materia stricto sensu - Unico ministro
Approccio esperienzial-espressivistico -Forma verbale - Materia storica - Pluralità ministeriale
Approccio simbolico - Forma rituale - Materia simbolica - Polarità tra presidenza ministri assemblea

Nella prima riga leggiamo: forma, materia, ministro. Sono le categorie classiche elaborate dai Padri, e poi formalizzate dalla Scolastica. A partire dal 1400 e in modo ufficiale dopo il concilio di Firenze, ogni sacramento viene identificato in base alla forma, alla materia e al ministro. Nell'individuazione di questi tre aspetti si ritiene di dire l'essenziale di ogni sacramento.

approccio dogmatico-disciplinare

Nell'approccio dogmatico-discipliare (oggettivo) la forma dell'eucaristia è la formula precisa della consacrazione ("Questo è il mio corpo..., questo è il calice del mio sangue"), la materia sono il pane e il vino, mentre il ministro è il prete o il vescovo. Da questa visione essenzialistica scaturiranno due linee di riflessione che prevarranno fino al concilio, quella sulla presenza reale e quella sulla messa come sacrificio.
Oggi siamo più consapevoli che non ci si può più chiedere ciò che è essenziale in un sacramento, nell'eucaristia. Sono richieste e domande per lo meno formulate male. I riti non possono essere essenziali. La logica dei riti non è l'essenza, ma è la sovrabbondanza. I riti non chiedono di limitarsi al minimo, ma di aprirsi al massimo.
Ogni rito, ogni sacramento comprende: gesto di accoglienza, ascolto della parola, celebrazione del sacramento, rendimento di grazie.
Un rito, ridotto all'essenza, è un atto di dovere, ma non è più un rito. Il rito è la fine di ogni dovere. Come dice san Tommaso, l'eucaristia è finis omnium officiorum. È il fine, ma è anche la fine di un dovere. Se non si entra in una logica di gratuità, non si celebra mai. Questo dice il concilio.

approccio esperienziale

E il concilio ci fa cambiare approccio. Dall'approccio dogmatico-disciplinare (oggettivo) si passa a quello esperienziale-espressivo (soggettivo).
Prima l'attenzione era concentrata sul fatto che la forma dell'eucaristia era la precisa formula della consacrazione, che la materia era costituita esattamente da pane di frumento e di vino d'uva e che il ministro era il presbitero o il vescovo. Nell'approccio esperienziale-espressivo (soggettivo) la forma del sacramento sono tutte le parole che si dicono e che si ascoltano (ingresso, presentazione dei doni, ecc). La materia sono pane e vino non in astratto ma nel loro spessore storico (ci sono culture che non conoscono il vino...)
Il ministro dell'eucaristia non è più solo il presbitero o il vescovo, ma sono tutti coloro che prendono la parola. Anche l'assemblea compie un atto ministeriale nel dire: "rendiamo grazie a Dio". La consapevolezza che in ogni atto rituale c'è una ministerialità complessa è ancora molto scarsa, purtroppo.

approccio simbolico

Oltre l'approccio dogmatico-disciplinare e quello esperienziale c'è poi, come ultima tappa, l'approccio simbolico (intersoggettivo), che allarga ulteriormente l'orizzonte.
Sempre facendo riferimento all'eucaristia, la forma non è solo la formula della consacrazione (come nell'approccio dogmatico-disciplinare), non è solo tutto ciò che viene detto e ascoltato durante la celebrazione (approccio esperienziale), ma sono tutti i linguaggi, anche quelli non verbali. La forma comprende allora la processione di ingresso, il modo di ascoltare, il modo di cantare, il modo di sentire i profumi, il modo di muoversi nello spazio, il modo di scandire il tempo. Stringersi la mano, abbracciarsi, guardarsi, ascoltare... sono forme non verbali di comunicazione potentissime.
Una delle sfide, dopo il concilio, è quella di rendere la liturgia un'esperienza comunitaria. Da come una persona entra in chiesa e si siede per prender parte ad una celebrazione liturgica si vede se la vive come un'esperienza comunitaria, o come un'esperienza privata fatta in luogo pubblico.
La materia poi oltre che essere materia in senso stretto (pane e vino), e materia col suo spessore storico, è anche materia "simbolica". La materia, come dicono anche molti autori dell'antichità, contiene già in sé un suo significato. Pane e vino, come prodotti della natura e della cultura, sono già ricchi di significato ulteriore: tanti semi e un solo pane, tanti acini e un solo vino, pane e vino frutto del grano e della vite, frutto del lavoro dell'uomo. A livello naturale e culturale nel pane e nel vino c'è già un'anticipazione di significato.
Il ministro dell'eucaristia non è più solo il prete o il vescovo, come nell'approccio dogmatico-disciplinare, e non sono semplicemente tanti ministeri uno accanto all'altro (approccio esperienziale). C'è infatti una dinamica, una circolarità tra chi presiede, i vari ministeri e la ministerialità di tutta l'assemblea. Questo è il punto d'arrivo della riforma conciliare, proprio dell'approccio simbolico. È un punto d'arrivo ancora in via di acquisizione.
Si comprende a questo punto perché Dossetti ritenesse Sacrosanctum Concilium come il documento più importante del concilio, per il modo nuovo in cui rilegge l'esperienza celebrativa. L'elemento nuovo è che i riti e le preghiere sono di tutti, sono il linguaggio verbale e non verbale di tutti.
La novità rispetto alla prassi degli ultimi ottocento anni è talmente grande da renderne difficile per la prima e la seconda generazione successive al concilio una piena comprensione e attuazione. Non si può pretendere l'impossibile.

inaccettabile il riemergere del regime precedente

Quello che è inaccettabile è che riemerga come possibile il regime precedente, impedendo così il passaggio dal vecchio al nuovo regime voluto dal concilio. Come dice Paolo VI il concilio vuole che il passaggio sia un passaggio convinto, il passaggio ad una nuova pedagogia spirituale, ad una nuova scuola di preghiera.
La nuova forma del rito sostituisce quella precedente.
Non è accettabile ad esempio ritornare alla precedente visione del triduo pasquale, di ciò che costituisce il cuore dell'anno liturgico e dell'atto di fede. Il messale del 1969 recupera la visione della chiesa antica secondo la quale la Pasqua inizia il giovedì sera, a differenza del rito precedente secondo il quale il triduo faceva parte della quaresima, separando in tal modo la morte dalla risurrezione di Gesù. Il mistero pasquale dalla tradizione precedente veniva scisso in due parti.
Il recupero dell'unità del triduo dal giovedì sera alla domenica sera comporta la suddivisione dei giorni secondo il modo antico:
dal tramonto del giovedì al tramonto del venerdì (cena, passione e morte in croce), dal venerdì sera al sabato sera (la pasqua del sepolcro pieno, del mistero del dolore), dal sabato sera alla domenica sera (veglia pasquale, nuovo inizio dell'eucaristia: la chiesa riceve il dono della resurrezione). Quest'ultimo giorno esplode in tutto il tempo pasquale per una settimana di settimane, fino a Pentecoste. Il triduo ci dice che la festa pasquale è così importante che si struttura su tre giorni, di cui l'ultimo esplode, diventando una settimana di settimane
Si comprende anche da questo esempio come la riforma liturgica non è un semplice adattamento di forme, ma è un tornare a ciò che è nutriente.

la riscoperta della dimensione intersoggettiva

Il concilio riscopre la dimensione intersoggettiva della chiesa, della parola, del culto, del rapporto con il mondo, una dimensione che sta prima di quella oggettiva o soggettiva. Veniamo da una tradizione che ha posto l'accento sulla dimensione oggettiva della messa "valida", che è valida indipendentemente da quel che faccio, oppure su quella soggettiva, dove è importante quello che io sento interiormente, indipendentemente da quello che fa il prete celebrante.
Il concilio rimette in gioco la intersoggettività del rito: non basta celebrarlo validamente o con le giuste disposizioni interiori, è necessario aprirsi a tutti i linguaggi tra chi presiede, chi proclama la parola, chi sta seduto o si muove. È necessario stare nel tempo e nello spazio e ci si sta con il tatto. L'esperienza del tatto è insieme la cosa più semplice e più complicata (il tatto è il fondamento di tutti i sensi affermava Tommaso d'Aquino). Il primo significato dell'eucaristia è mettere il fedele in con-tatto con Cristo nella chiesa. È un contatto reale, non solo pensato.
Il concilio si muove in questa direzione, non si interessa della dimensione oggettiva, dogmatica della liturgia, della sua validità. La dà per scontata, ma non si interessa di quel livello. Come ha detto Giovanni XXIII nel suo discorso inaugurale se fosse stato necessario discutere di dottrina in modo classico, non ci sarebbe stato bisogno di un concilio. Il concilio è stato convocato per cambiare discorso, per cambiare prospettiva, per introdurre nella chiesa un'altra esperienza di se stessa, parlando in modo diverso.

sette condizioni della liturgia eucaristica

Mi soffermo sulle sette cose che la costituzione sulla liturgia, la Sacrosanctum Concilium (nn. 51-57), afferma sull'eucaristia e le afferma in modo esemplificativo e tassativo. Come sostiene Pino Ruggieri, una delle differenze fondamentali tra il concilio di Trento e il Vaticano II, sta nel fatto che mentre Trento dice a Pio V di fare la riforma liturgica, il Vaticano II dice a Paolo VI di fare la riforma liturgica in un modo preciso, dettando le condizioni.
Le sette condizioni sull'eucaristia sono:1) maggiore ricchezza biblica; 2) valorizzazione dell'omelia; 3) preghiera universale, sempre, e non solo il venerdì santo; 4) l'uso della lingua nazionale; 5) comunione sotto le due specie; 6) unità tra mensa della parola e mensa dell'eucarestia; 7) concelebrazione.
Dal punto di vista delle cose essenziali, secondo una prospettiva oggettivo-dottrinale, la messa è pur sempre messa anche con minore ricchezza biblica, anche senza omelia, anche senza unità accentuata tra le due mense (parola-pane). Ma con questo punto di vista ci si immunizza dalla realtà e la teologia diventa facilmente un alibi. Papa Francesco in modo sorprendente ha scritto in un testo recentemente pubblicato che a volte si fa teologia per scappare dalla realtà.
Pier Damiani, un grande eremita teologo a cavallo del primo e secondo millennio, in una sua lettera intitolata con il tema che vi è svolto (Dominus vobiscum), affronta il problema della messa celebrata da soli. Come facciamo a dire "il Signore sia con voi" se i voi non ci sono? Allora elabora la teoria secondo la quale, ogni volta che il prete dice messa, tutta la chiesa è radunata attorno a lui. Si tratta di una grande teoria per un eremita, ma si tratta di un alibi per un parroco, che troverebbe la scusa per dire la messa da solo.
L'eremita riflette sulla possibilità di non perdere la comunione, pur vivendo in una situazione di isolamento. Se questo modello di spiegazione divenisse la logica pastorale della parrocchia, sarebbe un disastro, che non possiamo imputare a Pier Damiani, ma a chi usa male le teorie. Le teorie si possono usare in tanti modi e ottime teorie possono diventare deserti di esperienza.
Un altro esempio si può fare relativamente all'esperienza rituale di preghiera coi salmi, oggi proposta. Ci si può chiedere come mai le persone stentino a capire che i salmi costituiscano un ricco nutrimento per la fede e la preghiera.
Nel passato la formazione dei preti era diversa. In un testo di spiritualità, fatto di domande e risposte, alla domanda "È possibile pregare durante l'ufficio (durante la recita dei salmi)? La risposta era: "Sì, perché tra un salmo e l'altro c'è la pausa". La recita dei salmi, un dovere per il monaco e per il chierico, veniva ritenuta altra cosa dalla preghiera. Per secoli non si è riusciti a pensare il salmo come preghiera!
L'iniziazione ai salmi come preghiera ha bisogno di tempo, di anni di lavoro su di sé, e questo vale sia per il monaco in monastero, che per il laico in casa, sulla strada o nel luogo di lavoro.
Occorre fare entrare il tatto nella vita e, in questo, i salmi sono più avanti di noi. Nella preghiera dei salmi, tutto prega, dalla polvere della strada fino alle stelle (Beauchamp). Occorre una disponibilità all'iniziazione, ad entrare in una conoscenza anzitutto col tatto. Essere iniziati vuol dire che il tatto non può mancare, che non si può passare semplicemente attraverso il concetto.

maggior ricchezza biblica e ascolto

I sette punti della Sacrosanctum Concilium parlano del tatto, sono una struttura iniziatica. La maggiore ricchezza biblica non cambia nulla sul piano della validità della messa, ma le dà il discorso narrativo di fondo: è l'esperienza del rapporto con Cristo, che ti parla e con cui tu parli. Alla lettura biblica segue il salmo responsoriale: non è solo ascolto della parola di Dio ma è anche la risposta della chiesa alla parola di Dio. Il salmo responsoriale lo possiamo vivere solo se siamo iniziati al linguaggio dei salmi.
I riti (come tutte le cose iniziatiche) non si spiegano con un testo, con un discorso, ma si accede alla loro comprensione standoci dentro.
Abbiamo la pretesa che ogni singolo gesto di un rito abbia il suo cartellino che ne indichi il significato: ci si alza perché così, ci si siede perché così, si canta perché così! Ma le cose non stanno in questo modo. È tutta la sequenza che va vissuta, e solo così assume un senso. Le logiche iniziatiche non sono semplicemente concettuali. Questa è la ricchezza della liturgia che appunto non si riduce all'essenziale. Se riduco all'essenziale non celebro mai. Avrò sempre la coscienza, avrò sempre l'intenzione, ma non celebro. Celebrare vuol dire far passare quello che celebro attraverso il corpo.
Maggiore ricchezza biblica vuol dire allora strutturare la presenza della comunione nell'ascolto, fare comunione in Cristo e nella chiesa ascoltando la Parola di Dio. La comunione con il pane e con il vino è già comunione nell'ascolto. L'importante è però l'ascoltare, e ascoltare non è leggere.
Ci siamo abituati, dopo il concilio, ad avere ciascuno il foglietto su cui leggere i brani della scrittura, ma la comunione avviene nella comunità che ascolta la parola proclamata.
La nostra generazione ha usato gli occhi, i nostri figli e nipoti impareranno a usare le orecchie. Ci vogliono almeno due generazioni per accogliere davvero un cambiamento.
L'argomento delle generazioni andrebbe tematizzato maggiormente. Se dico che 50 anni (concilio) sono due generazioni, e che 200 anni (Napoleone) sono otto generazioni, rimango nell'astratto. Otto generazioni vuol dire che ciascuno di noi ha dietro di sé 512 perone (4 nonni, 8 bisnonni, 16 bisavoli, ecc), ha un piccolo paesino da cui viene e a cui risponde. Ognuno di noi è un fascio di lasciti, di abitudini, di linguaggi, che riceve naturalmente e che elabora culturalmente. Anche e soprattutto a livello rituale dobbiamo essere maggiormente consapevoli di questa complessità in cui ogni generazione riceve e dà alle altre. Noi siamo costituiti da questa complessità storica, di cui ci rendiamo poco conto da quando si pensa che ogni generazione sia semplicemente nuova.
Questa consapevolezza è stata fortemente attenuata con il decreto con cui Napoleone ha allontanato i cimiteri dalle città, facilitando così una presa di distanza dai morti, dalle generazioni che ci hanno preceduto. Il cambiamento introdotto da Napoleone non ha riguardato solo l'igiene ma anche il rapporto tra generazioni, favorendo una lettura semplificata della tradizione.
Il concilio, dentro questi lasciti tradizionali, capisce che abbiamo perso la sensibilità della tradizione. Allora la ricostituisce attraverso delle indicazioni che vincolano Paolo VI nel fare la riforma dell'eucaristia.

omelia come rapporto tra parola e comunità

Un'altra delle condizioni del Concilio è l'omelia. Molto è cambiato rispetto a 50 anni fa, ma ancora si fa fatica a recepire l'idea che ogni celebrazione ha bisogno di una parola omiletica, non come semplice commentino alla parola Dio, ma per il bisogno di mettere in contatto due esperienze dello Spirito, quella della Parola proclamata e quella della comunità. Il compito di fare l'omelia non spetta tanto al biblista competente delle Scritture, quanto a chi conosce sia il vangelo sia lo spirito che parla nella comunità. L'omelia serve a illuminare la comunità con la Parola, e la Parola con la comunità. Solo chi è competente in Scrittura e competente in umanità può fare questo collegamento, magari anche con un solo breve pensiero che metta in rapporto la parola che si ascolta e la comunità che ha ascoltato.
La logica della liturgia della Parola è: "de te fabula narratur". Se celebri la parola di Dio, la parola di Dio parla di te, parla di questa comunità, e la comunità parla della parola. L'arte di presiedere sta nello scoprire quei fili rossi che legano la parola di quel giorno con le vicende della comunità che si presiede.

comunione all'unico pane e all'unico calice condiviso

Vorrei soffermarmi da ultimo sulla comunione sotto le due specie o anche sotto una sola specie. Questo linguaggio, usato dal concilio, è il linguaggio della dottrina sull'esperienza, non è l'esperienza. È il linguaggio oggettivo che rinvia ad una realtà più profonda. La comunione sotto le due specie è la comunione all'unico pane condiviso, all'unico calice condiviso. Ciò che c'è in gioco non è semplicemente la specie del pane e del vino, ma che tutti mangiano del pane spezzato, che tutti bevono dal calice benedetto. Il concilio, usando un termine specifico, fa intuire la ricchezza del gesto e del segno. E il segno ha bisogno del gesto che lo fa, non solo della testa che lo pensa. Certamente gli uomini, facendo le cose, le pensano anche. Ma c'è anche un modo di pensarle e di farle bene.
La liturgia ha bisogno di questa riequilibratura tra il cristiano moderno che tende a fare tutto solo pensandolo, e il cristiano oltremoderno, postmoderno, che capisce che alcune cose si comprendono solo facendole e facendole bene.
Ghislain Lafont, in un piccolo e prezioso libretto "Eucaristia. Il pasto e la parola. Grandezza e forza dei simboli" (LDC), dice che quando mangiamo del pane e beviamo dal calice, l'atto del pasto mostra del mangiare (e del bere) il significato più profondo. L'atto del pasto è un atto anzitutto antropologico, animalesco, è un atto di digestione. E la digestione avviene se non ci si pensa. Se incomincio a pensare alla digestione, alla possibilità di non digerire, è probabile che non digerisca, perché lo stomaco risente del fatto che ci si preoccupi di lui. Per digerire, lo stomaco ha bisogno di distrazione. Bisogna stare a livello degli animali.
Le logiche dell'eucaristia hanno bisogno di questa stratificazione: l'uomo è un animale razionale, che ha sì la parola, ma per rimanere uomo non deve smentire la propria dimensione animale. Occorre star dentro l'animalità per superarla.
Di tutta l'esperienza ecclesiale la liturgia è la più sensibile a uomini capaci di essere, come diceva Merleau-Ponty, animali, bambini, primitivi e pazzi. L'uomo non è solo adulto, ma adulto che sa anche restare animale, bambino, primitivo e pazzo. La logica dell'eucaristia attraversa tutte queste dimensioni. Mangiare dell'unico pane, bere dell'unico calice, tradotto in liturgia, è il formarsi naturalmente di una processione al pane e di una processione al calice (senza obblighi alla comunione sotto le due specie, ma con l'opportunità di poterlo fare).
Nella nostra tradizione si sono assestati pregiudizi e abitudini che consideriamo assolutamente normali e che però minacciano il gesto così come lo compiamo. Si pensi in proposito alla comunione sotto una sola specie.

particola, frammento o picco intero?

Usiamo una parola latina (lingua che secondo alcuni dovrebbe garantire l'universalità nella chiesa, mentre nei fatti garantisce solo una bassa comprensione) per indicare l'elemento che riceviamo: particola. La parola "particola", che proviene dal latino, ha cambiato di significato in italiano. Infatti, nel suo significato originario, particola non vuol dire ciò che ricevo al momento della comunione, ma vuol dire frammento, e frammento informe. La particola invece è perfettamente tonda.
Il rito, poi, prevede soprattutto che la particola sia un prodotto della frazione del pane. Invece chi presiede spezza il pane, ma le particole sono già pronte. Come per magia, abbiamo le particole prima della frazione. E siccome le abbiamo prima, siamo padroni di farle come vogliamo, di solito perfettamente tonde come l'intero, come l'ostia più grande, ma di formato più piccolo. È l'intero in miniatura.
In questo modo però noi non accettiamo la logica della particola, quella di ricevere un frammento informe, dato che la forma la trovo in Cristo e nella chiesa in una relazione di fede.
Purtroppo abbiamo ridotto l'atto di fede ad un atto mentale, e così riceviamo un piccolo intero, ognuno il proprio Gesù.
Nella nostra preparazione alla comunione da bambini siamo stati educati a sentirci in rapporto con Gesù, trascurando il fatto di riceverlo in forma di particola. La particola dice che solo nella comunità che partecipa dell'unico pane posso fare esperienza del corpo di Cristo. Nell'eucaristia c'è un gioco simbolico sottile. Il corpo dovrebbe fare l'esperienza di ricevere il frammento informe, per ritrovare, nella fede e nella relazione, quel corpo di Cristo che si diventa. La frazione del pane, che spezza il corpo, lo fa ritrovare intero come chiesa: è il passaggio dalla logica sacramentale a quella ecclesiale del corpo di Cristo.
Non so quali sviluppi ci saranno a livello liturgico con la nomina del nuovo papa, ma sono certo che a questo papa non manca il tatto. Fa un gran bene alla chiesa la presenza di un papa che proviene da un'altra cultura che ha altre sensibilità e priorità. È normale, ad esempio, che un prete o un vescovo sudamericano saluti la gente fuori dalla chiesa al termine della celebrazione.

Dignitatis Humanae

Tra i documenti del concilio quello che più ha suscitato maggiori attese e maggiori resistenze è stato certamente Dignitatis Humanae, la dichiarazione sulla libertà di coscienza e sulla libertà religiosa. Il tradizionale magistero di condanna della libertà di coscienza viene superato. Il documento, ho scoperto, è frutto del dialogo tra vescovi europei e nordamericani avvenuto al concilio.
I teologi e pastori nordamericani non accettavano già nell'Ottocento di leggere la storia della modernità nell'ottica europea. Mentre in Europa il riconoscimento della libertà di coscienza è stato vissuto come un attentato al principio di autorità e quindi contro l'Impero, la Chiesa, i valori, in Nord America il cattolicesimo è nato nella libertà. Il concilio ha reso possibile un dialogo reale, un reale ascolto tra logiche americane e logiche europee. Uno dei frutti è Dignitatis Humanae, che mette insieme la tradizione europea con quella americana. Per la prima volta si afferma che la libertà di coscienza può essere addirittura luogo di grazia.
Questo è interessante, perché ci dà la misura di come l'evento conciliare e in particolare il suo aspetto liturgico-eucaristico sono anzitutto una profonda riconciliazione con ciò che è più semplice, ma che, non raramente, è anche più profondo.

ricchezza e profondità del linguaggio della liturgia

La liturgia è certamente anche una grande struttura di rubriche, un grande insieme di testi, ma innanzitutto è un'esperienza elementare di dono, con suoi linguaggi, con suoi modi di comunicare. Quello che per gli europei oggi è così difficile, non è difficile per gli africani, per i sudamericani che vivono quel livello di comunicazione in modo più diretto, spontaneo, immediato.
In un bilancio provvisorio a 50 anni dal concilio ritengo che l'evangelizzazione, l'impegno ecclesiale e la possibilità di interpretare al meglio le istanze delle donne e degli uomini di oggi passano attraverso una domanda di senso che non ha bisogno soltanto di risposte in termini concettuali progettuali, ma anche di risposte in termini mitico-rituali. Occorre tenere insieme i due livelli. Benché non sufficiente, il linguaggio simbolico-rituale (la liturgia), è, come dice Sacrosanctum Concilium, fonte e culmine, è all'inizio e alla fine, è il linguaggio più profondo, ricco, capace di comunione. Paradossalmente gli europei sono tentati di pensare che sia il più povero, come dire il più formale. È invece il più potente, purché intercettato non solo a livello concettuale, ma con tutto il corpo. Allora, un rito di ingresso, un ascolto della Parola, una presentazione dei doni, un atto omiletico, una preghiera eucaristica, un rito di comunione diventano modalità ecclesiali attraverso le quali la Chiesa riceve quel che è.

riassunto

L'anniversario che stiamo celebrando dei 50 anni del concilio Vaticano II sembra coincidere con un nuovo passaggio dello Spirito, dopo alcuni decenni durante i quali ha prevalso una lettura dell'evento conciliare volta a sminuirne le novità e i cambiamenti. Come sostiene il nostro vescovo sul piano della liturgia e in particolare dell'eucaristia il concilio segna una svolta: "La prima eredità del concilio è quella di una Chiesa che passa da una comunità del «sentir messa» a una Chiesa che «celebra», ad una Chiesa che ritrova la centralità della domenica e che prega nella sua lingua madre...".
Il vangelo è stato rimesso al centro e vien prima di qualsiasi regola o di qualsiasi rubrica liturgica, come ha messo in evidenza anche il gesto della lavanda dei piedi compiuto da papa Francesco in un carcere minorile (secondo le rubriche un vescovo potrebbe lavare i piedi solo ai suoi stretti collaboratori). E lavare i piedi ai carcerati non è solo un atto di servizio, ma è abilitare gli ultimi ad annunciare il vangelo, è riconoscere in loro una risorsa per la chiesa.
Proprio il carattere pastorale costituisce l'elemento di maggiore novità del concilio. Mentre in tutti i concili precedenti si definivano proposizioni dogmatiche e si emettevano condanne, al Vaticano II il linguaggio è sempre positivo. Neppure una volta ricorre il termine "anatema", l'essere messi fuori dalla comunione ecclesiale. Come ha dichiarato Giovanni XXIII nel discorso di apertura del concilio: "Altra è la sostanza dell'antica dottrina del depositum fidei, altra è la formulazione del suo rivestimento", aggiungendo poi: "Per questo, il concilio Vaticano II che inauguriamo sarà un concilio pastorale". E per il papa il termine "sostanza" sta ad indicare ciò che è nutriente, ciò che è sostanzioso, e quindi "concilio pastorale" sta a significare un concilio ricco non di dogmi e di condanne, ma di riflessioni e di racconti nutrienti.
Con la costituzione conciliare sulla liturgia (Sacrosanctum concilium) termina il regime clericale in campo liturgico, che ha regnato per quasi un millennio. Dalla delega al clero per la celebrazione della liturgia si passa all'affermazione del popolo di Dio come un popolo di sacerdoti e profeti. Dalla fine del Medioevo fino al Vaticano II i riti della messa riguardano solo il prete o il vescovo, unici celebranti. Il resto dei fedeli, durante la liturgia, ad eccezione del momento della consacrazione, fa altro: recita il rosario, fa novene, legge libri devoti, ecc.
Solo con il concilio si riconosce che i riti e le preghiere della liturgia sono un linguaggio di tutti, e questo riconoscimento cambia le cose in profondità.
Il rito dell'eucaristia è atto nutriente per tutti: tutti entrano nei riti di ingresso, nella liturgia della parola, nella liturgia della preghiera universale, nella professione di fede, nella presentazione dei doni, nella preghiera eucaristica in comunione con il prete. È l'assemblea che concelebra.
Il concilio sollecita ad uscire dall'individualismo per vivere la fede in una logica comunitaria.
È cambiato il modo di intendere forma, materia e ministro dei sacramenti e dell'eucaristia. Si è passati da una visione tutta oggettiva (la forma sono le parole della consacrazione; la materia sono il pane e il vino; il ministro è il prete) ad una visione più esperienziale (la forma sono tutte le parole pronunciate durante la liturgia; la materia sono il pane e il vino nel loro spessore storico; i ministri sono tutti coloro che prendono la parola, ministeriale è anche l'assemblea che dice "rendiamo grazie a Dio"). La dimensione oggettiva e quella soggettiva vanno poi integrate in quella simbolica (la forma non sono solo tutte le parole, ma anche tutti i linguaggi utilizzati, anche quelli non verbali, dalla stretta di mano al modo di ascoltare e cantare; la materia ha già una sua dimensione simbolica, quel pane e quel vino contengono già naturalmente e culturalmente significati ulteriori: tanti semi un solo pane, tanti acini e un solo vino, pane e vino frutto del grano e della vite e del lavoro dell'uomo...; e anche per i ministri c'è una circolarità tra chi presiede e tutta l'assemblea.
La novità del rinnovamento liturgico conciliare risiede nel fatto che i riti e le preghiere sono di tutti, sono il linguaggio di tutti. Ci vorranno generazioni per una piena accoglienza di questa nutriente novità.
Il concilio riscopre la dimensione intersoggettiva (simbolico-rituale) della chiesa, della parola, del culto. Viene rimessa la centro l'intersoggettività del rito: non basta celebrarlo validamente o con le giuste disposizioni interiori, è necessario aprirsi a tutti i linguaggi tra chi presiede, chi proclama la parola, chi sta seduto o si muove, ecc. È necessario stare nel tempo e nello spazio e ci si sta con il tatto. Il Vaticano II non solo dice a Paolo VI di fare la riforma liturgica, ma di farla in un modo preciso, indicando sette condizioni:1) maggiore ricchezza biblica; 2) valorizzare l'omelia; 3) preghiera universale, sempre e non solo il venerdì santo; 4) l'uso della lingua nazionale; 5) comunione sotto le due specie; 6) unità tra mensa della parola e mensa dell'eucarestia; 7) concelebrazione (SC nn. 51-57).
Aprirsi alla liturgia vuol dire aprirsi ad una conoscenza non solo con i concetti, ma innanzitutto con il tatto.
La maggiore ricchezza biblica favorisce l'esperienza del rapporto col Cristo che ci parla e a cui parliamo (lettura + salmo responsoriale). Non è solo ascolto della parola di Dio, ma anche risposta della chiesa alla Parola di Dio. Si accede alla comprensione del rito solo vivendolo, standoci dentro.
Ascoltare (non leggere) la parola proclamata è già comunione in Cristo nella chiesa.
L'omelia, che dovrebbe essere presente in ogni celebrazione, non è il commentino alla parola di Dio, ma deve mettere in relazione due esperienze dello Spirito, quella della parola di Dio e quella della comunità.
Per indicare quello che riceviamo usiamo una parola latina, particola, di cui in italiano abbiamo cambiato il significato. Particola vuol dire infatti originariamente frammento informe e il rito prevede che il pane sia spezzato. Invece i frammenti, le particole, sono già esistenti prima della frazione, e hanno la forma di piccoli interi, non di parti. Purtroppo in questo modo non rispettiamo la logica della particola, che ci dice che solo nella comunità che partecipa dell'unico pane posso fare esperienza del corpo di Cristo.
Il linguaggio della liturgia, se riscoperto e vissuto in tutte le sue dimensioni, è il linguaggio più profondo, ricco e capace di comunione.

Dibattito

Mi fate notare che alcuni preti (spesso i più giovani) non hanno sensibilità per la riforma liturgica conciliare. Sono diversi i fattori che determinano questa situazione, che possono essere fatti risalire alla loro formazione e selezione.
Innanzitutto nelle diocesi si segue "il vento che tira in alto": per anni nei programmi dei seminari, nei convegni, ecc. si studiavano argomenti come la lotta al relativismo, l'opposizione all'ateismo, ecc. Ora, cambiato il papa, si è di colpo passati a temi come: "annunciare il vangelo alle periferie"!
Un altro grosso problema è la mancanza di selezione dei seminaristi, che sono spesso persone fragili, che vengono comunque accettati, data la scarsità di vocazioni presbiterali. Inoltre, se i giovani seminaristi vedono che "in alto" si dà importanza a determinati modi di vestire e di celebrare, saranno anch'essi portati in quella direzione...
La promulgazione del motu proprio che sdoganava il rito precedente, ha permesso a chiunque di pretendere anche una formazione in tal senso nei seminari e di denunciare i superiori che non seguivano le direttive...

Mi proponete e mi chiedete modi perché chi partecipa all'eucaristia si senta davvero concelebrante. Ribadisco che la riforma liturgica è affidata alla generazioni future, e che purtroppo, se un parroco poco sensibile al concilio non aiuta i parrocchiani ad entrare nella nuova logica, inevitabilmente viene la nostalgia del vecchio rito.
Occorre vivere la messa come un atto comunitario, scandendo i vari momenti in modo che ne venga vissuto il significato profondo. Ad esempio, i riti di ingresso, normalmente non sono valorizzati. Invece, sono momenti importanti: quello del saluto, quello penitenziale, quello di glorificazione, quello di preghiera e di affidamento all'ascolto della Parola... Occorre anche creare strutture di accoglienza (ad esempio il parroco, o altri al suo posto, può all'entrata della chiesa salutare e accogliere le persone prima della messa).
La valorizzazione dell'omelia può essere fatta in tanti modi: si può intervenire direttamente, anticipando, o seguendo, o integrando l'intervento del pastore, o lavorando insieme al pastore nella riflessione sulla parola.
La riforma liturgica è un passaggio necessario, ma non sufficiente: deve tradursi in animazione della parola, condivisione al pane e al calice dell'esistenza altrui... La cosa importante non è tanto il seguire le rubriche alla lettera ed evitare gli abusi. Non sono le rubriche a dire il senso che ha il rito, che deve invece scaturire dalla comunità e dal contesto in cui la comunità vive e celebra. Le rubriche sono un po' come il codice della strada: un conto sono le regole, un conto è il senso, lo scopo per cui si usa l'automobile. Quando papa Francesco lava i piedi ai carcerati non trasgredisce la regola, ma va oltre, la modifica per eccesso di senso. Non fa la carità ai carcerati, ma li abilita ad essere annunciatori del vangelo!
Papa Giovanni XXIII diceva che il concilio serviva a riscoprire che la Chiesa non è un museo da conservare ma un giardino da coltivare. Il museo è fatto di cose morte, mentre il giardino è molto più fragile, è fatto di cose vive, è a rischio. Noi, per non correre rischi, ci mettiamo con le cose morte!
Si parla dell'eucaristia come dell'anello della sposa: due gemme (parola e eucaristia) e tre giri d'oro (processione d'ingresso, d'offertorio, di comunione). Siamo ancora lontani da quell'obiettivo: il linguaggio del movimento lo abbiamo appena soltanto immaginato. Ad esempio per quanto riguarda il rito di comunione, spesso sembra che non siamo ancora usciti dalla devozione privata. Anche se non andiamo più come singoli alla balaustra a prendere l'ostia in bocca, l'atto comunitario si limita spesso al fatto che ci mettiamo più o meno in coda, quasi fossimo alla posta... Invece il rito di comunione è un atto comunitario!
Ad esempio, il mio parroco chiede ai bambini che iniziano il catechismo, e ai loro genitori (che spesso sono più analfabeti dei bambini!) di essere presenti alla messa per tutta la sua durata. Invece il mio consiglio è che all'inizio prendano parte solo ai riti di ingresso, e solo successivamente all'annuncio della Parola, e così via. Formare i bambini (o gli adulti) alla prima comunione non significa tanto dar loro i criteri per capire che cos'è la presenza reale, ecc., ma farli entrare nel processo rituale che si chiama eucaristia. Il rito d'ingresso, la liturgia della parola, la professione di fede, la presentazione dei doni: ognuno di questi riti ha bisogno di una iniziazione specifica.

Le norme disciplinari riguardanti la materia nascono con il concilio di Trento. Spesso, purtroppo, i motivi disciplinari interni al cattolicesimo sono dovuti alla contrapposizione nei confronti dei protestanti. Se gli uni negano una certa verità, gli altri la affermano in modo esasperato. Così sacramenti, parola, comunione, ecc. diventano luoghi di divisione invece che unione.

 Ad esempio, siccome Lutero affermava che la presenza reale c'è solo al momento della comunione, i cattolici hanno tolto il rito di comunione dalla messa, riservata solo al prete. E siamo arrivati a dir messa davanti al Santissimo esposto, pratica ancora in atto fino agli anni 50!
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