Incontri di "Fine Settimana"

chi siamo

relatori

don G. Giacomini

programma incontri
2018/2019

corso biblico
2023/2024

incontri anni precedenti
(archivio sintesi)

pubblicazioni

per sorridere

collegamenti

rassegna stampa

preghiere dei fedeli

ricordo di G. Barbaglio

album fotografico

come contattarci

Radici storiche della violenza contemporanea

sintesi della relazione di Maurilio Guasco
Verbania Pallanza, 1 aprile 1995

"Il secolo ventesimo ha conosciuto l'esplosione della violenza senza limiti sia sul piano della giustificazione della guerra come forma propria della politica, sia su quello della disponibilità di conoscenze scientifiche e strumentazioni tecnologiche capaci di una violenza senza precedenti (Olocausto, Gulag, Hiroshima). Da questa cultura discende tutta una serie di conseguenze, un'impressionante sequela di svariate forme di violenza" (L. Guerzoni).

rapporto tra violenza e potere politico

Il rapporto tra violenza e potere politico è assolutamente indissolubile in quanto, proprio perché non si sviluppi la violenza illegittima, bisogna che il potere politico abbia il monopolio della violenza legittima.
L'uso della violenza da parte del potere politico è importante anzitutto per rendere efficaci le sanzioni, per ottenere la coesistenza pacifica all'interno della società. Se è vero che il valore fondamentale per l'uomo è la sicurezza della propria vita, è chiaro che per poterla garantire bisogna esercitare determinate funzioni ricorrendo a sanzioni. Ora, a partire da un senso vietato sino al pagamento delle tasse, una norma, che non abbia connesse delle sanzioni, ben difficilmente viene osservata, anche nel caso in cui sia considerata giustissima.
La sanzione ha incorporata una forma di violenza: per garantire la sicurezza della collettività bisogna ricorrere a certe forme di violenza.
In ogni collettività vi sono altri usi della violenza che non fanno capo al potere politico, come tutte le forme di violenza quotidiana, rapine, furti, ecc. Il governo oppone la sua violenza legittima alla violenza illegittima oppure tollera forme di violenza più o meno limitata e consentita per evitare un eccessivo dispendio di energie per una violenza legittima.
Possiamo quindi dire che la violenza è un mezzo del potere politico anche se non ne deve essere il fondamento, soprattutto perché non è detto che la violenza legale basti a togliere la voglia di disubbidire.
Ci sono due linee di tendenza nelle dottrine politiche, quella che considera la violenza elemento marginale in una teoria del potere politico e quella che considera la violenza come elemento costitutivo del potere politico, come azione creativa finalizzata a modificare e rinnovare la società (le teorie della rivoluzione).
Marx prima sostiene che per espropriare i mezzi della classe capitalistica e raggiungere la società giusta del domani occorra passare attraverso la rivoluzione violenta. L'uso della violenza, nella lettura di Lenin, diventa strumento fondamentale, ricevendo critiche da parte della corrente riformista (Bertstein). La dittatura del proletariato può passare attraverso la soppressione di tutti gli avversari.
L'annientamento dell'avversario è previsto anche in altre concezioni, per esempio la dottrina di Churchill adottata dagli alleati dal 43 al 45, oppure la dottrina tomista sul tirannicidio. Persino l'uomo di pace Bonhoeffer partecipa alla congiura per eliminare Hitler. C'è evidentemente differenza tra uccidere tre milioni di contadini e uccidere il tiranno, ma ciò che unisce è la convinzione che in alcuni casi l'annientamento fisico dell'avversario è necessario per raggiungere lo scopo.
La distinzione tra forza e violenza in Sorel, tra forza come strumento di dominio della minoranza sulla maggioranza e violenza come strumento di liberazione della maggioranza, è diventata un punto di riferimento fondamentale, sia in direzione leninista che mussoliniana. L'apologia della violenza rivoluzionaria può portare a esiti antitetici. (la legittimazione della violenza nelle lotte di liberazione rende poi ardua la distinzione tra lotte giuste e meno giuste, con la tendenza a considerare più giuste le proprie).
Schmitt sostiene che la categoria politica per eccellenza è la distinzione amico-nemico, e questa distinzione non deve essere affievolita. Il nemico di cui si parla non è il nemico personale, ma quello pubblico (colui che ha una ideologia diversa). La guerra civile o la guerra tra stati deve essere prevista come forma estrema dell'ostilità che si sviluppa da ogni genere di attività umana, come possibilità quotidiana, concreta. È la cultura di guerra.
Lo stato ha il compito di determinare chi è il nemico e, avendo il monopolio della forza, di combatterlo. È la concezione del si vis pacem para bellum, è la teoria della corsa agli armamenti. Il nemico deve sapere che posso attaccarlo.
Nella storia dell'umanità ci sono stati vari tipi di conflitti, dal conflitto come strumento per la sopravvivenza fisiologica, al conflitto di carattere ideologico per far vincere una visione del mondo, al conflitto per interessi economici, ai conflitti "rivoluzionari". Anche i modelli di rivoluzione sono stati vari, da quello della rivoluzione nazionale liberale (attuato dagli stati occidentali in nome della libertà), a quello delle rivoluzioni socialiste (in nome di ideali di uguaglianza) a quello delle rivoluzioni del terzo mondo (in nome di ideali di fratellanza).
Queste forme di violenza hanno una loro dignità, data dallo scopo che perseguono? Ma allora tutti i mezzi sono leciti per raggiungere lo scopo? Si distingue tra etica del successo (ampiamente dominante) secondo la quale ciò che conta è il successo con qualsiasi mezzo ottenuto e l'etica del dovere, in cui ciò che conta è seguire ciò che si sente come dovere, anche a costo dell'insuccesso.

chiese ed uso della violenza

Ciò che fa saltare il modello del dualismo con l'avversario è il concetto di tolleranza. La guerra giusta la si è fatta non solo per difendersi, ma anche per sventare minacce alla propria identità fisica, morale e anche religiosa. Solo il concetto di tolleranza fa saltare questo meccanismo, premessa per la libertà religiosa. Lungo è stato il processo dall'uccisione di chi professava un'altra religione, alla sua emigrazione, alla libertà di professare il proprio culto. Il Vaticano II affermerà la libertà religiosa.
Il concetto di guerra giusta ha sempre condizionato la riflessione sulla guerra. La guerra, che implica violenza, può essere "strumento per"? La scelta di non rispondere alla violenza con la violenza anche a costo della vita è proponibile per uno stato o una società?
Quando l'Italia dichiara guerra alla Turchia nel 1911 per conquistare la Libia (i popoli prolifici con poca terra hanno diritto ad occupare il territorio dei popoli che hanno più terra che abitanti) nel mondo cattolico pochi ricorderanno che non poteva trattarsi di una guerra giusta (per la prima volta vengono ufficialmente inviati i cappellani militari).
Nel primo conflitto mondiale il papa Benedetto XV condannerà a più riprese l'inutile strage, ma non tutti i cattolici ne saranno convinti.
Anche la guerra d'Etiopia è dichiarata con l'intento di dare terre a un popolo con poco spazio. Difficile sostenere che si tratti di guerra giusta, ma i vescovi benedicono i gagliardetti e le spade con la croce andranno finalmente a portare la cultura cristiana.
Anche la seconda guerra mondiale solleva pesanti interrogativi. C'è sì la condanna della violenza come tale, ma alcuni la condannano e vanno a fare i cappellani militari della repubblica di Salò, altri la condannano e vanno in montagna. Come uscire da una situazione tragica senza usare mezzi violenti?
Per i cristiani la scelta fondamentale è quella della croce, il non rispondere alla violenza con la violenza anche a costo della vita. Non siamo riusciti a far diventare questa legge seme per la società, cultura generalizzata.
Una svolta significativa è avvenuta negli anni della seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi. Sino a quegli anni la preoccupazione di ciascuno, anche nei documenti ufficiali, è per colui che appartiene al proprio popolo, etnia o religione.
Ad esempio, è vero che l'invasione dell'Unione Sovietica da parte di Hitler non è una guerra giusta, ma il nazismo - si pensava - è una diga contro l'avanzare del comunismo. Che la persecuzione degli ebrei fosse un male era chiaro alla Chiesa, ma principale era la preoccupazione di difendere i correligionari.
Solo a partire dagli anni 50 nei documenti della chiesa la preoccupazione della difesa dei correligionari è sostituita dalla preoccupazione della difesa di ogni persona umana. Qui tutto cambia. La guerra e la violenza sono fondate sul principio schmittiano dell'amico e del nemico, dell'altro come nemico. Quando l'altro è comunque una persona, a qualunque etnia appartenga, è persona come me, quando l'elemento portante è il nostro essere persona - per il credente il nostro essere figli di Dio - il nostro appartenere all'umanità, il sale della guerra è finito.

Login

Valid XHTML 1.0 Transitional Valid CSS!