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Per una cultura di pace

sintesi delle relazioni di Ennio Galli e Angela Frego
Verbania Pallanza, 24-25 gennaio 1987

(Ennio Galli)

La cultura della pace si presenta oggi con i caratteri della necessità e della urgenza. Einstein dopo Hiroshima scriveva: "La potenza scatenata dall'atomo ha cambiato tutto, tranne il nostro modo di pensare; abbiamo bisogno di una maniera di pensare totalmente nuova, se l'umanità deve restare in vita". E il filosofo Jasper: "Una situazione totalmente nuova è nata con la bomba atomica; l'intera umanità andrà fisicamente in rovina oppure l'uomo si modificherà nelle sue condizioni di carattere etico e politico". Tutti i sapienti, già dalla fine degli anni '50, erano convinti che non ci fosse altra possibilità di scampo per l'umanità se non quella di cambiare cultura, mentalità, modo di vedere la guerra. La cultura della pace si presenta come un'autentica necessità di sopravvivenza.

possibilità di una cultura di pace

Per cultura intendiamo quel complesso di atteggiamenti, di mentalità (modo di rappresentare l'umanità e i suoi rapporti, modo di concepire i valori...) che orienta i comportamenti, dà agli uomini un certo ethos, un costume di vita. In una cultura di pace l'ethos è basato su rapporti non violenti volti soprattutto a istituire una sorta di solidarietà nel vivere collettivo.
Se tutti convengono sulla necessità di una cultura di pace, almeno come auspicio condiviso, esistono non poche riserve sulla sua possibilità. La cultura di pace pare una utopia lontanissima.
Molti ritengono che o per ragioni biologiche, o per ragioni psicologiche, o per ragioni di carattere sociale e politico, è impossibile per l'uomo essere pacifico e la guerra è un connotato essenziale della sua natura e cultura.
L'etologia è impegnata a studiare le radici biologiche dei comportamenti, a partire da quelli animali per arrivare all'uomo. Lorenz sostiene che l'aggressività è una nota essenziale dell'animale e dell'uomo. L'aggressività è una specie di carica che si accumula progressivamente sino al punto in cui deve scaricarsi. Da qui molti hanno dedotto che la guerra è indispensabile. Dei discepoli di Lorenz (Tinbergen e Eibl-Eibesfeldt), partendo dalle stesse premesse, sono giunti a conclusioni diverse, data la presenza di meccanismi inibitori della aggressività. Nel mondo animale l'aggressività è interspecifica, mentre gli animali della stessa specie non si aggrediscono in modo distruttivo e mortale. La competizione per la preda, per la femmina, per il rango che si svolge come un rito si ferma al momento della sopraffazione. Nel mondo umano invece le guerre avvengono per motivi culturali. Gli uomini, divisi in tante unità culturali diverse, ritengono queste unità come simili a delle specie: nella guerra un gruppo umano cerca di deumanizzare l'altro (i nazisti chiamavano sottouomini tutti gli altri). In questo modo è possibile infrangere le barriere dell'inibizione e dar sfogo all'aggressività distruttiva. Mentre il filtro biologico inibisce, quello culturale disinibisce. Allora la guerra - sostiene Eibl-Eibesfeldt - non è un prodotto naturale, ma culturale nato con la storia dell'uomo. Solo intervenendo sulla cultura è possibile arrivare ad una realtà pacifica. Di fatto esistono culture pacifiche e culture bellicose, come hanno sostenuto etnologi come Mead.
Anche in campo psicologico ci sono sostenitori della necessità e ineluttabilità dell'aggressione come Freud, che sostiene la compresenza nell'uomo dell'istinto di vita e dell'istinto di morte, di eros e thanatos. Fromm invece distingue tra una aggressività benigna, fisiologica, utile alla definizione di sé e una aggressività maligna e distruttiva che porta alla eliminazione fisica dell'avversario e che ha come radice il narcisismo, l'esaltazione di sé a danno degli altri. Il narcisismo, l'esaltazione di sé come individui o come gruppi, è fonte di intolleranza dell'altro individuo o degli altri gruppi. Questa aggressività può essere bloccata attraverso i meccanismi di identificazione, nello scoprire nell'altro la mia stessa umanità. Nelle lunghe guerre di trincea i comandi militari facevano ruotare continuamente le truppe proprio per impedire l'attivazione dei meccanismi di identificazione, disperdendo la carica di violenza necessaria per combattere.
Le armi moderne, togliendo il confronto diretto, impediscono l'attivazione dei meccanismi inibitori.
In campo politico, si sostiene l'ineluttabilità della guerra data la sua ininterrotta presenza nella storia umana. Un certo modo di studiare la storia mostra la guerra come realtà normale e la pace come interruzione. Anche la filosofia sostiene questo da Eraclito (la guerra è padre di tutte le cose) a Hegel (la guerra è un soffio vivificante che distrugge la morta palude) a Marx (la violenza come levatrice della storia). Correnti culturali dell'inizio del Novecento come il nazionalismo e il futurismo parlano della guerra che rigenera i popoli.
Il pensatore tedesco Carl Schmitt (1898-1985) ritiene che politica e guerra sono indissociabili, che non c'è politica se non c'è guerra. L'essenza del politico sta nella distinzione tra amico e nemico. Per nemico si intende il gruppo dei "loro". Non è possibile creare un gruppo "nostro" se non in contrapposizione al gruppo "loro". Il nemico è colui che si presenta come l'altro ed è collegato al concetto di guerra. Non c'è politico senza nemico e quindi senza guerra. È un'affermazione con molti sostenitori in campo politologico, sfruttato da molti governi per garantirsi il consenso.
L'errore di fondo è che non è vero che l'amicizia si definisce attraverso l'inimicizia, che il legame interno si fonda sull'ostilità agli altri. Ci sono molte ragioni nobili di identità e di appartenenza, come il perseguimento della giustizia, del progresso. Gli stati fascisti si definivano attraverso la guerra perché fatti per mantenere l'unità interna ad ogni costo e per giustificare l'aggressione esterna.
Sul piano biologico e psicologico ci sono inibizioni dell'aggressività distruttiva e sul piano sociale e politico è possibile perseguire fini positivi di amicizia e di costruzione. Di conseguenza una cultura di pace non solo è necessaria, ma anche possibile.
Una cultura di pace è possibile costruirla facendo riferimento alla radice della soggettività umana, al cuore pacificatore di cui parlava Rizzi. Ma il cuore pacificatore alimenta e si alimenta di una cultura della pace, di un complesso di orientamenti, di abitudini, di comportamenti collettivi pacifici. C'è una circolarità tra libera scelta individuale e cultura della pace.

lineamenti di una cultura di pace

Esiste una cultura di pace indipendente dalle strutture economiche sociali? Nel film "Witness - il testimone" gli Amish rifuggono dalla violenza troncando i rapporti con la società moderna.
Secondo Galtung ci sono due tipi di violenza, uno manifesto e uno occulto proprio delle strutture e che si rende presente nei rapporti di carattere sociale o politico fissati da regole e da leggi. Allora una cultura di pace deve fare i conti con l'ordine esistente. Una cultura di pace non viene assunta solo attraverso l'educazione, ma anche attraverso il controllo della società. La cultura di pace si realizza pienamente solo in una struttura di pace. Non è sufficiente l'educazione, occorre anche modificare in senso pacificatore il modello di società.
Rizzi diceva che solo da un cuore pacificato nascerà un atteggiamento di pace e una vita di pace. È vero anche il contrario, in circolarità. Se la scaturigine è il cuore pacificatore, sul piano storico circolarmente in una cultura di pace è già possibile che le coscienze crescano pacifiche e in una cultura di guerra se crescono violente. Sono gli uomini che hanno fatto la cultura, ma poi la cultura fa gli uomini. Il primato storico della cultura fonda l'impegno educativo di trasmissione della cultura.
In una cultura occorre tener presenti l'aspetto antropologico e metodologico. Anzitutto che ogni cultura ha una propria visione del mondo e dell'uomo, ha una propria antropologia. Secondariamente ogni cultura si esprime in un insieme di comportamenti, di costumi, che comprendono anche un metodo per risolvere i conflitti che possono nascere all'interno di una società.
Per quanto riguarda l'aspetto antropologico, rifacendomi a Mancini, una cultura di pace è quella in cui ritornano i volti. Il volto è il centro della persona, è lo sguardo che congiunge volto a volto e che fa scoccare la scintilla della relazione vitale. Se davvero concepiamo il rapporto umano come un incontro di volti possiamo ricavare delle indicazioni per una cultura di pace.
La relazione tra un io e un tu è una identità che è insieme alterità. Guardando il volto dell'altro scopriamo il nostro volto e l'identità che ci lega insieme; ma scopriamo anche l'alterità, la differenza, l'inesauribilità, l'incommensurabilità dell'altro. Se il volto dell'altro uomo è per noi motivo di riconoscimento dell'umano che c'è in lui e del diverso che ci arricchisce, fondiamo una possibilità di comunicazione e di pace. È un incontro di due sguardi che amichevolmente si richiamano. Se lo sguardo tende al dominio dell'altro, se lo vuole degradare a oggetto di cui servirsi, il rapporto si interrompe e nasce un atteggiamento di conflitto.
Emergono qui le caratteristiche di una cultura di guerra, che per sua natura impedisce il faccia a faccia.
Innanzitutto la cultura di guerra sbarra l'incontro. L'altro diventa un estraneo, negato come realtà significativa, dichiarato straniero. Cultura di guerra è dichiarare l'altro barbaro, colui con cui non si può comunicare. Tutti i regimi militaristici hanno sempre prestato molta attenzione ad interrompere le comunicazione, tramite la censura, il controllo della stampa, la proibizione dei viaggi all'estero. Interrompendo alla radice il rapporto umano estingue la possibilità del riconoscimento della umanità dell'altro.
Inoltre una cultura di guerra cancella i volti uniformandoli, rendendoli anonimi. È l'operazione che si fa parlando di categorie in termini generici. L'individuo, annullato, non ha più volto, identità, personalità. È più facile odiarlo e ucciderlo ("il negro", "il comunista"...). La cultura di guerra impone l'uniformità non solo agli altri, ma anche ai nostri, tutti con gli stessi abiti, pensieri, intendimenti.
Ancor più una cultura di guerra non solo cancella i volti ma pone maschere. La maschera è la metafora più appropriata del pregiudizio: l'altro diventa l'alieno, cioè un essere totalmente e mostruosamente diverso dal nostro. Ogni cultura di guerra ha condotto l'operazione di mettere la maschera disumanizzante, demonizzata sul volto anonimo di coloro che sono considerati nemici.
Persino san Bernardo predicando le crociate diceva che chi uccide un pagano non è omicida ma "malicida", non uccide un uomo ma il rappresentante del male. La maschera dell'esaltazione la si mette anche sui nostri.
Infine la cultura di guerra trasforma lo sguardo accogliente e comunicante, in sguardo minaccioso, dominante e possessivo. La cultura di guerra esalta il sé per cancellare l'altro, e si alimenta di ideologie assolutiste. Il nazionalismo, ad esempio - degenerazione del concetto di nazionalità -è la sovraesaltazione del proprio io collettivo per giustificare la sopraffazione degli altri. Anche nel Risorgimento le giuste riflessioni sull'identità nazionale si trasformano in "Il primato morale e civile degli italiani", in affermazione della propria superiorità.
La figliolanza di Dio, la fraternità fra gli umani, può valere come metafora anche per i non credenti della pietas universale che sgorga dal cuore dell'uomo. Si veda il sublime esempio nel film Arpa birmana di trasformazione del cuore di guerra in cuore di pace da parte del giapponese che ha vissuta le violenze inaudite della guerra.
Una cultura di pace implica il cogliere l'altro ( individuo o popolo), la diversità, come ricchezza e dono. La pluralità culturale deve essere intesa come un dono per l'uomo (si veda l'interpretazione di Pannikkar della torre di Babele come la volontà di Dio di far nascere la diversità, perché la gente si capisse pur parlando lingue diverse, professando religioni diverse). È il superamento dell'etnocentrismo.
Promuovere una cultura di pace è togliere le maschere, abolire il pregiudizio e dare allo sguardo il significato dell'accoglienza.
Lo sguardo dialogante presuppone che la verità e il bene stanno sempre oltre, sono al termine di un cammino che facciamo assieme agli altri. Ciascuno di noi ha un frammento da ricomporre con quello degli altri. Quando il frammento è pensato come assoluto diventa escludente e fonte di conflitto.
L'esperienza ci mostra una ineliminabile conflittualità. Ora il conflitto non si può cancellare, ma si può e si deve superare attraverso l'azione non violenta, una metodologia che escluda la violenza.
Non parlo della non violenza del pacifismo assoluto, che non resiste, che è disposta sempre a subire, che non è costruttiva, ma parlo della non violenza condizionata, che è impegnarsi, reagire, resistere, senza fare violenza agli altri, senza usare mezzi cruenti, aggressivi e distruttivi. Gandhi parlava di Satihagrada, di "fermezza nell'amore", e in questo termine condensava comportamenti come la non collaborazione, la disobbedienza civile, lo sciopero.
Una cultura di pace dovrà elaborare un concetto di resistenza efficace che abbia le caratteristiche di questa non violenza condizionata, che non annulli lo sguardo accogliente.


(Angela Frego)

educazione alla pace

possibilità di una educazione alla pace

Nella concezione di tipo strutturale la guerra è l'effetto di una società strutturalmente violenta e quindi la pace è l'effetto di una società senza questa struttura violenta, cioè una società in cui tutti godono degli stessi diritti. C'è spazio per un'educazione alla pace dato che in una società strutturalmente violenta i processi di educazione saranno segnati dalla violenza?
Nella visione di tipo evoluzionistico la violenza è un elemento della evoluzione e la pace è un equilibrio temporaneo. Qui l'educazione non ha senso, dato che non può interferire in modo determinante.
Nella visione dialettica (sia marxista che riformista) la violenza è la violazione dei diritti umani e la pace come un potere uguale per tutti di gestire le risorse della natura. L'educazione è un processo in cui le persone si organizzano per difendere senza violenza i propri diritti nel rispetto di quelli degli altri. Ci sono le esperienze più significative sul piano operativo.
Un primo livello di violenza è l'impedimento del soddisfacimento dei bisogni fisiologici (respirare, mangiare, vivere); un secondo è l'impedimento a pensare e a comunicare; un terzo l'impedimento a esercitare i diritti alla socialità (avere una famiglia, cooperare...); un quarto l'impedimento a esercitare il diritto di decidere del proprio modo di vivere, del tipo di società e di rappresentanza politica; infine l'impedimento ad esercitare il diritto a realizzare un proprio modo di produrre, a controllare e godere le risorse del territorio. Educazione alla pace è la presa di coscienza di come si possono rispettare i diritti umani, rendendosi conto delle strutture violente della società in cui si vive (vedi Paolo Freire e la sua pedagogia degli oppressi).
All'indomani della seconda guerra mondiale, sotto il patrocinio dell'Unesco, sono state condotte ricerche per elaborare gli obiettivi di una educazione alla pace: imparare a non accettare le condizioni sociali come fenomeno naturale, ma valutarle in termini di possibilità di emancipazione; imparare a conoscere se stessi come soggetti di processi sociali; imparare che questa libertà di azione deve essere utilizzata; imparare a non piegarsi alle pressioni sociali, alla conformità, ed ad agire anche se si è in una situazione di inferiorità; imparare a riconoscere il carattere aggressivo delle proprie azioni, i propri pregiudizi; imparare che le guerre non sono catastrofi naturali, ma sono socialmente create dall'uomo; riconoscere che la pace non può essere descritta come assenza di guerra.
Questi sono gli obiettivi di una educazione critica al riconoscimento della violenza che è nelle strutture e che è da rimuovere con i mezzi della lotta per i diritti.
Siamo abituati a pensare all'educazione come a un processo che va dall'alto al basso, da parte di un professionista che conosce la materia, in un contesto neutrale e pluralistico. Ora invece l'educazione alla pace è più un metodo che un insieme di contenuti, e non può essere neutrale. È impegnata, critica, di opposizione. Difficile che questo possa entrare agevolmente nella struttura scolastica.
Le più significative esperienze di educazione alla pace sono venute dalle persone che hanno conosciuto la tragedia della guerra, del sottosviluppo, del colonialismo, come Gandhi, don Milani, Freire, Illic, Danilo Dolci, Capitini.
Non violenza non significa passività, ma azione. Per don Milani è la parola lo strumento per restituire alle classi subalterne la loro cultura; Paolo Freire ha invece nell'idea di coscientizzazione la chiave della sua via per la liberazione per gli adulti del terzo mondo; Illic progetta la descolarizzazione della società; Danilo Dolci usa il metodo maieutico nella sua scuola popolare; Capitini è il tecnico della disubbidienza civile. Il panorama dei movimenti di educazione alla pace in Italia si caratterizza per un modo diverso di rapportarsi agli educandi, alcuni direttamente alle persone, altri alle istituzioni.

che fare?

Alcune persone tendono a considerare la guerra come un fenomeno naturale, come la grandine, altri, magari i ragazzi, sono fortemente influenzati dalle immagini dei film o delle televisioni. Nella formulazione generale del concetto di conflitto va tenuto presente come sia determinante il modo con cui lo si è appreso. È importante ad esempio far cogliere la problematicità della situazione di fronte alla semplificazione netta tra amico e nemico.
Nell'educazione alla pace occorre sottolineare che esiste una sintesi inscindibile tra informazione, riflessione e azione. Importante è l'apprendimento delle tecniche della non violenza.
Don Milani diceva che la scuola è quella difficile arte di insegnare ai ragazzi ad obbedire alle leggi da una parte e dall'altra a far loro desiderare leggi migliori, abituandoli a superare il conflitto vivendoci dentro.

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