Per una società accogliente: le parole dell'altro
Voci di migranti
sintesi delle relazioni di Alphonse Mbaraga e Dava Gjoka
Verbania Pallanza, 15 maggio 2010
Dopo aver a lungo parlato, discusso, riflettuto sul tema del riconoscimento e dell'accoglienza dello straniero come dimensione fondamentale e irrinunciabile del nostro essere "umani" e del nostro essere credenti, è giusto concludere la serie di interventi di questo anno dando la parola all'altro che è tra noi.
Il primo gesto di accoglienza è il mettersi in ascolto dell'altro, anche per conoscere e scoprire di quali ricchezze e visioni è portatore, quali difficoltà ha incontrato nel venire tra noi, quali impegni sarebbe opportuno e doveroso assumere. Già abbiamo avuto l'opportunità in un recente incontro di ascoltare due giovani musulmane di seconda generazione, che con la loro stessa presenza e il loro modo di comunicare hanno contribuito a dissipare pregiudizi e luoghi comuni e a farci apparire quanto sia non solo possibile ma anche arricchente la convivenza tra etnie culture e religioni diverse.
I pregiudizi, espressione di intolleranza, di xenofobia e addirittura a volte di razzismo, tendono a nascondere, a mascherare, a deformare il volto dell'altro che non viene riconosciuto nella sua umanità e pertanto più facilmente disprezzabile. Vedere davvero il volto dell'altro, ascoltare veramente le sue parole sono la premessa necessaria per relazioni autentiche, per una società veramente umana.
Ai relatori abbiamo chiesto di parlarci della loro cultura di provenienza, di come viene visto lo straniero, di come è praticata nei loro paesi di provenienza l'ospitalità; delle aspettattive che avevano venendo nel nostro paese e come si sono realizzate; delle difficoltà incontrate e delle opportunità avute; di quali forme di accoglienza sarebbe necessario attivare per poter convivere nel nostro paese (gcm)
l'accoglienza autentica: non gesto altruistico ma dimensione della propria umanità
di Alphonse Mbaraga
Il filo conduttore della mia riflessione è l'idea che l'accoglienza è un valore di crescita personale e comunitaria, che l'accoglienza autentica non è un gesto altruistico ma una dimensione della propria umanità.
Amicizia e gratitudine alla base dell'incontro
Per due motivi in particolare sono felice di essere qui oggi con voi, con la vostra comunità.
Anzitutto perché l'invito a partecipare a questo incontro mi è giunto da un'amica, una vera amica da lunga data. L'amicizia adulta e consapevole di sé è la forma più ampia e profonda di accoglienza, dell'accogliersi reciprocamente e simultaneamente. E quando l'amicizia ti chiama, ti interroga, ti guarda, ti sorride, sorge la gioia spontanea di rispondere.
La seconda ragione che, in un certo senso, deriva dalla prima, è che, da quello che ho potuto comprendere leggendo i vostri "quaderni di fine settimana", in aggiunta all'assoluta credibilità di chi mi ha fatto conoscere il vostro gruppo, la vostra è un'iniziativa voluta, fondata e quotidianamente nutrita da persone libere da pregiudizi ideologici e confessionali; persone liberatesi dalla paura del diverso e dall'arroccamento tribale e etnocentrico. Per tutto questo, sono qua con !!!amicizia e gratitudine.
Tuttavia devo confessarvi da subito che provo un certo disagio: non sono un conferenziere, non sono un "esperto" e, soprattutto, non ho nulla di clamoroso, di importante da dirvi. Per questo confido molto nello spirito, nello stile della vostra comunità fondata sul dialogo e la condivisione dove ciascuno porta ciò che ha, poco o tanto che sia, per l'arricchimento e la crescita di tutti.
un periodo complesso e tormentato
Il fatto è che l'umanità sta attraversando un momento complesso e difficile, di inquietanti tormenti e di disorientamento. L'economia mondiale non è governata, in mano ad alleanze internazionali di predatori rapaci e cinici. Ci sono tanti governi self-service dediti all'esclusivo interesse delle caste che li reggono. Una notevole parte di Chiese e confessioni religiose sono poco fedeli alla loro missione di testimoniare l'amore di Dio e quindi la fratellanza universale. Molti genitori ed educatori hanno abdicato al proprio compito primario di infondere i valori fondamentali alle nuove generazioni. Le guerre fratricide, fino al genocidio, nei Paesi del sud del mondo (e non solo) ancora oggi costringono milioni di individui e di famiglie ad esodi biblici verso terre straniere spesso anch'esse non pacificate e ostili. Tutti questi fattori, insieme ad altri, hanno reso desertico il cuore e l'intelletto di tante persone nel mondo, cacciandole in un angolo buio a speranza zero, quasi al punto di non ritorno e quindi rendendole disponibili a qualsiasi compromesso con se stesse e ad ogni possibile ricatto da parte dei potenti e dei prepotenti - che spesso sono gli stessi. E' un quadro d'insieme che grida vendetta al cielo, però senza sapere esattamente contro chi; forse dovremmo tutti fare un'auto-denuncia al Padre Misericordioso. Dipingo a tinte forti perché io stesso sono semicieco!
dalla fede la spinta per un impegno comune
Fortunatamente questo quadro se osservato da un altro - direi da un alto - punto di vista, staccato, disincantato e soprattutto ancora capace di recepire la luce della fede in Dio e nell'uomo, spinge fortemente alla riflessione, alla ribellione, alla chiamata a raccolta di tutte le persone di buona volontà, in vista di un impegno comune alla ricerca del senso, alla riscoperta delle radici e della vocazione dell'uomo all'armonia vitale e coinvolgente. Penso sia per questo che avete ideato questi incontri del dialogo.
la mia esperienza di rifugiato
Sono un rifugiato di lungo corso. Ho lasciato la mia terra natia, il Ruanda, nel lontano 1959, rifugiandomi nel vicino Burundi, poi l'anno successivo, 1960, ho potuto andare a recuperare la mia famiglia in un campo per sfollati all'interno del Ruanda e portarla al sicuro in Congo (in seguito diventato Zaire per il capriccio del dittatore del momento, Mobutu, e poi ridiventato Congo alla cacciata di Mobutu con il nuovo padrone Kabila padre). Cinque anni dopo, nel 1965, approdai in Italia, a Milano, regolarmente, con un visto per motivi di studio, ottenuto senza alcuna difficoltà e in pochi giorni. Non vi tedierò con la cronaca della mia vita di esule nei due Paesi africani e in Italia, vorrei soltanto rilevare alcuni aspetti comuni relativi all'accoglienza e alla cosiddetta integrazione nelle tre nazioni.
l'accoglienza negli anni sessanta-settanta
A quell'epoca, anni sessanta-settanta, in Africa come Italia, l'atteggiamento verso il profugo era spontaneamente di benevolenza, di protezione e di consolazione. In Burundi e in Congo la gente sapeva cosa era successo in Ruanda, il come e il perché, era facile capire la lingua locale e farsi capire nella propria. Da parte della gente l'accoglienza era di grande apertura e condivisione. Da parte delle autorità, dei governi, dello Stato, non vi erano né ostilità, né programmi di aiuto. Ogni iniziativa era tacitamente demandata agli abitanti e alle rare associazioni allora esistenti. Ricordo che non fu allestito nessun insediamento speciale per profughi. Erano gli autoctoni che ci facevano spazio nei loro villaggi, nelle loro scuole, e che ci affittavano pezzi dei loro campi per la coltivazione.
In Italia a quell'epoca la parola rifugiato tutt'al più richiamava alla mente la convenzione di Ginevra che si interessava quasi esclusivamente delle nazioni dell'est uscite malconce dalla seconda guerra mondiale, mentre ignorava le problematiche del terzo mondo. Gli italiani accoglievano lo straniero, specialmente quello proveniente dal sud del mondo, con curiosità, simpatia e generosità. Personalmente a Milano, in Italia, ho dimenticato di essere un profugo, avendo molti amici in tutti gli ambienti, dal portinaio al vicino di appartamento, dal compagno di università ai professori, e più tardi, come lavoratore, dai colleghi ai datori di lavoro. Lo Stato non si sentiva minacciato dallo straniero e non vi erano partiti e gruppi d'interesse che avessero trovato redditizio costruire la loro identità sulla criminalizzazione del non-italiano, specialmente se terrone estero.
progressivo peggioramento della situazione
Questo ci introduce all'oggi, agli ultimi quindici, venti anni.
La situazione è profondamente mutata con i cambiamenti cui ho accennato all'inizio, come l'economia-finanza sfuggita ad ogni controllo, i molti governi che non governano ma gestiscono il potere per conto degli innominati, gli incessanti flussi di immense popolazioni erranti alla ricerca di una chance di sopravvivenza ostacolata da respingimenti e umiliazioni, le moderne false guerre di religione, i singoli cittadini impotenti e non più in grado di formulare i quesiti giusti sul domani loro e della collettività, ecc. ecc. Tutti questi mutamenti non ci consentono di parlare seriamente e serenamente dell'accoglienza.
i gesti dell'accoglienza autentica, dimensione della propria umanità
Si diceva anticamente dalle mie parti che l'accoglienza consiste in cinque semplici gesti: 1) tenere aperta la porta della propria casa, 2) andare incontro all'ospite, 3) dargli il benvenuto, 4) capire il suo bisogno guardandolo, 5) condividere con lui quello che si ha.
Siamo ancora capaci di questa dignità che ci dimostra che in verità l'accoglienza autentica non è un gesto altruistico ma una dimensione della nostra propria umanità? Al di là e al di sopra delle definizioni di parte e di comodo, in Ruanda e in Italia, le mie due patrie paritarie e prioritarie, non per il sangue o per il possesso, ma per i coinvolgimenti umani, conosco persone che hanno ancora una anima e che intendono contagiare la terra con la loro umanità, perché la terra è nostra, tutta la terra è di tutti noi.
Non ho parlato molto di me, delle mie vicende personali, un po' per timidezza travestita da riservatezza, e un po' per rispetto delle storie meno fortunate della mia. I miei amici di sempre, Amalia e Antonio, sono testimoni di un pezzo di strada che abbiamo percorso insieme. È quello che è avvenuto oggi con voi che ringrazio della disponibilità ad accogliermi.
migrare, rinascere ed integrarsi
di Dava Gjoka
Ringrazio di cuore chi ha organizzato l'incontro di oggi e tutti gli incontri di questo ciclo, perché, secondo me, favorire la riflessione sul tema dell'immigrazione significa lavorare per la società e per il futuro. Dico grazie anche a persone come voi che, con la vostra presenza, dimostrate una disponibilità ad ascoltare e ad avvicinarsi all'altro, al diverso.
E ringrazio anche tutti gli amici che, nel periodo della mia "infanzia migratoria", mi hanno aiutato con mentalità aperta, intelligenza creativa, calore umano ed amicizia.
infanzia biologica e infanzia migratoria
"Infanzia migratoria" è un termine che ho inventato io, per indicare il percorso che ogni immigrato fa quando arriva in un nuovo paese.
Io sono nata in un villaggio del nord dell'Albania, dove ho trascorso i miei primi anni, di cui conservo un meraviglioso ricordo. È stata una bellissima infanzia libera, felice, all'interno di una grande famiglia. Per me la famiglia era la cosiddetta famiglia allargata, che comprendeva i nonni, gli zii, le zie, i cugini e, ovviamente, i miei genitori e le mie sorelle. Eravamo sempre almeno 18 persone, ma il numero cambiava ogni sera, perché chiunque avesse bisogno di un tetto, di un pasto o altro, veniva accolto: l'accoglienza era un codice etico, un dovere della società. Noi bambini a volte brontolavamo un po' per il fatto di non poter mai essere soli, per la presenza in casa di persone di ogni tipo (il povero e il ricco, l'istruito e il non istruito, il senza tetto, ecc.), ma ora che siamo cresciuti e stiamo invecchiando, apprezziamo quell'esperienza di generosità, di ricchezza umana profonda.
Più tardi ho vissuto una seconda infanzia, un'infanzia da immigrata. Difficilmente si trova un immigrato che dica che la sua infanzia migratoria sia stata un periodo felice (cioè circondato da amici, libero di fare e di scegliere, ecc.). Le persone da cui si riceve aiuto in quel periodo duro le si ricorda pertanto con particolare affetto e stima. Se non avessi incontrato Amalia e altre persone come lei, che mi hanno permesso di scoprire quell'Italia bella che desideravo trovare, magari ancora oggi sarebbe rimasta dentro di me un'immagine negativa di questo paese, quella dei pregiudizi, del rifiuto del diverso, in particolare del diverso povero. Ricordo molto bene quel periodo, quando dentro di me c'era una specie di lotta, tra la sofferenza e la delusione da una parte, e l'ottimismo e il coraggio dall'altra. L'ottimismo e il coraggio hanno infine prevalso!
voci di migranti
Io sono laureata in scienze politiche, in Albania ho insegnato per un certo periodo nelle scuole superiori e tuttora il mio lavoro ha a che fare con la scuola, in quanto svolgo un lavoro di mediazione culturale: insegno esperienze di vita, con persone appartenenti a culture, lingue, religioni diverse, che si trovano a vivere assieme.
Nel mio intervento seguirò la scaletta che ci avete proposto. Partirei innanzitutto dal titolo che avete scelto per l'incontro, e specialmente dall'espressione "voci di migranti", che trovo molto bella. È utile soffermarsi a ragionare sulla voce dell'immigrato, perché, da quanto appare sui giornali o da quello che dicono certi politici, si percepisce un concetto un po' strano di voce del migrante. Se ne ricava l'impressione, da un lato, che l'immigrato urli e si lamenti sempre, dall'altro, che non parli affatto, che si adatti sempre senza lamentarsi mai. Oppure sentiamo spesso dire che bisogna "dare voce agli immigrati", come se loro non l'avessero, e non si trattasse piuttosto del fatto che "non hanno voce in capitolo". Per questo mi è piaciuta molto l'espressione "voci di migranti". È ovvio che gli immigrati hanno voce e si vogliono far sentire, ma che questo avvenga dipende molto da quanto lontano si trovano le orecchie che li devono udire, sentire, ascoltare.
la decisione di emigrare
Io sono una dei quasi cinque milioni di immigrati che vivono in Italia, e mi considero una immigrata fortunata, una straniera che, strada facendo, con la volontà e grazie all'accoglienza, sono diventata anche cittadina italiana.
Ma voi sapete (vi è stato detto anche negli incontri precedenti) che la scelta di migrare viene fatta per diversi motivi, ed è sempre comunque una scelta molto difficile e coraggiosa. Per il migrante, lasciare la propria terra e arrivare in un altro paese, è un po' come morire, per poi rinascere facendosi un' identità nuova. In un certo senso, l'immigrato diventa bambino, perché tutto il background culturale e di conoscenze che aveva, in un contesto in apparenza totalmente diverso e sconosciuto, sembra che non serva più. Per questo ha e dà l'impressione di essere un bambino. Ma in realtà, man mano che si inserisce nel nuovo ambiente, scopre di avere tantissime conoscenze e ricchezze umane e culturali molto utili anche nel nuovo contesto così diverso.
Io sono arrivata in Italia nel 1993, in un periodo storico particolare per l'Albania. Voi sapete che l'Albania ha vissuto per molti anni (dal 1945 al 1991) sotto il sistema cosiddetto "comunista" e che è stato uno dei paesi più isolati anche rispetto a tutti gli altri paesi oggi chiamati ex comunisti. L'isolamento dal resto del mondo era veramente la cosa peggiore. Nel '91 ci sono state per la prima volta delle elezioni con più partiti. In quel periodo insegnavo alle scuole superiori e ovviamente cercavo di dare il mio contributo in ambito sociale e politico. Sentivo la necessità di avere degli scambi con i paesi più sviluppati, specialmente i paesi dell'occidente, quindi mi ero posta l'obiettivo di andare ad acquisire esperienze e formazione in uno di quei paesi. Non pensavo necessariamente all'Italia. Non me la sentivo neppure di rischiare la vita come hanno fatto moltissimi giovani, che hanno trovato la morte nel mare Adriatico, in quel viaggio, in realtà molto corto, tra l'Albania e l'Italia (pensate che oggi c'è solo un'ora e mezza di volo tra Tirana e Milano). Quindi mi sono trovata in Italia per caso, perché ho avuto la possibilità di uscire con un visto regolare, invitata dalla CGIL di Roma, per uno scambio organizzato dai sindacati degli insegnanti. Così ho deciso di fermarmi, per fare in Italia, a Milano, l'esperienza cui accennavo prima.
le difficoltà del primo impatto
All'inizio è stata un'esperienza amara e piena di delusioni. Non riuscivo ad orientarmi: nei libri avevo letto di un'Italia di grande civiltà, di grande cultura, un'Italia centro del cristianesimo... Per me, che venivo da una famiglia cattolica, era il massimo. Però, nel contatto diretto, quell'Italia non riuscivo a trovarla.
Ricordo il titolo della prima intervista che ho dato ad un giornale locale, nel 95: "Da un isolamento all'altro". Avevo lasciato l'isolamento dell'Albania, e mi trovavo isolata a Milano, in questa grande città conosciuta in tutto il mondo. I miei interessi erano di studio, di scambio, di conoscenza di tutto quello che avrei potuto trovare in questo paese, per riportare questa esperienza in Albania. Invece trovavo tutte le porte chiuse. Ogni volta che cercavo di trovare una via per risolvere i miei problemi andavo a sbattere contro un muro. Innanzitutto, non conoscendo la lingua, cercavo il modo di fare un corso di italiano, e mi veniva buttata in faccia la parola "clandestina", che, per chi non conosce l'italiano, suona un po' come criminale. Il mio visto era scaduto e non sapevo come rinnovarlo. Ad ogni rifiuto, inizialmente mi rassegnavo, ma il giorno dopo ricominciavo a combattere, finché sono riuscita a trovare le strade sia per imparare la lingua che per scoprire gli aspetti positivi dell'Italia. La mia tenacia mi ha permesso di vivere la bellissima accoglienza a cui accennavo all'inizio, e che mi ha arricchito moltissimo.
aspettative in parte deluse
Identificavo l'Occidente con il regno della libertà. Mi aspettavo di trovare paesi dove l'individuo fosse libero di scegliere. In effetti il motivo della prima migrazione albanese verso l'Italia (intendo quella recente, perché c'è anche una storia dell'emigrazione albanese verso l'Italia con radici molto antiche), quella delle navi sovraccariche di persone, era il desiderio di essere persone libere, libere di scegliere, di parlare, di gestire la propria vita. Ho capito più tardi che anche nei paesi dell'Occidente la libertà non è così scontata, che in Italia ci sono certe significative limitazioni anche per le persone di cittadinanza italiana. Figuriamoci per quelle che arrivano da fuori.
Poi mi aspettavo un paese di grande civiltà, in cui la dignità della persona avesse un posto centrale. La mia impressione è che in questo paese, per molti, la dignità della persona si basa soprattutto sulla ricchezza economica. Non riesco a condividere che chi ha più soldi conta di più e ottiene più rispetto.
Un'altra mia aspettativa riguardava il posto della donna nella società, la sua partecipazione alla vita politica, culturale, sociale, religiosa, ecc. Ho riscontrato invece che il potere decisionale è nelle mani dell'uomo. Immaginavo un diverso ruolo femminile, capace di indirizzare lo sviluppo economico, invece, ho constatato che, anche a Milano, benché la donna sia inserita nel mondo del lavoro, generalmente sono gli uomini a governare.
Personalmente provengo da una famiglia cattolica e, per quanto riguarda l'educazione religiosa, dato che in Albania la religione non poteva essere praticata e i riti venivano celebrati di nascosto, non vedevo l'ora di venire in Italia per partecipare più pienamente alla vita religiosa. Mi sono accorta che non è bene idealizzare, perché anche su questo versante ci sono aspetti positivi e negativi, e a volte sono rimasta delusa. Ad esempio, ho sempre evitato di raccontare a mia mamma un'esperienza molto triste che ho vissuto in occasione del battesimo di un bimbo, figlio di una mia cugina albanese e di suo marito italiano. In chiesa eravamo quasi tutti albanesi, perché pochi dei parenti italiani erano religiosi. Eravamo felici perché era la prima esperienza di un battesimo per la nostra famiglia qui in Italia, e anche curiosi, perché in Albania non avevamo avuto l'occasione di partecipare a questi riti pubblici. Al termine della funzione, mentre lasciamo la chiesa per andare a festeggiare, siamo rincorsi dalle suore (il prete guardava da lontano), che ci accusano di aver portato via il piccolo asciugamano ricamato impiegato per asciugare la testa del bambino, e aprono la borsa di mia cugina per controllare! Un simile comportamento da parte di persone religiose mi ha ferito profondamente e ha suscitato in me una reazione di sdegno.
contraddizioni della società italiana
Il fatto che io viva in Italia da 17 anni, vuol dire che ho trovato in questo paese aspetti molto positivi, che mi hanno consentito di apprendere molte cose. Due anni fa sono tornata in Albania per un progetto di cooperazione internazionale, svoltosi in modo eccellente, anche grazie al lavoro e all'esperienza che avevo fatto in Italia.
Accanto agli aspetti positivi, mi hanno molto incuriosito le contraddizioni che man mano ho riscontrato nella società italiana. Ad esempio, gli italiani sono nel complesso accoglienti, e gli albanesi che sono immigrati qui, se considerati singolarmente, sono inseriti bene nella società italiana. A livello di discorso generale, si parla invece dell'albanese criminale, della paura dell'albanese, ecc. È evidente che, in ogni popolazione, anche in quella immigrata, ci sono persone più o meno brave, più o meno istruite, e purtroppo anche dei criminali. Il problema è che spesso i criminali hanno maggiore visibilità, mentre le persone davvero bisognose fanno fatica a tirare avanti.
Sono quindi interessata ad approfondire le contraddizioni di un paese di grande storia e ricchissima cultura, ma anche segnato da molto provincialismo e mentalità chiuse, di una società da una parte ospitale e di grande spessore umano e cristiano, e dall'altra parte rinchiusa nell'individualismo e nei pregiudizi verso il più povero, di singoli individui animati da grande solidarietà, insieme ad altri pieni di diffidenza e di paura del diverso.
In questo periodo sto leggendo dei libri su Madre Teresa di Calcutta (indipendentemente dal fatto che sia di origine albanese; di sé lei dice: sono albanese di sangue e indiana come cittadina). Tra le tante cose da lei scritte, una mi ha colpito in modo particolare: "C'è molta sofferenza nel mondo, fisica, materiale, mentale. La sofferenza di alcuni è da imputare all'avidità di altri. La sofferenza materiale e fisica è la sofferenza dovuta alla fame, alla mancanza di una casa, alle varie malattie. Ma la sofferenza più grande è causata dall'essere soli, dal non sentirsi amati, dal non avere nessuno. E con il tempo ho capito che l'essere e il sentirsi emarginati è la malattia peggiore di cui un essere umano può soffrire." Questa malattia, purtroppo, colpisce moltissimi immigrati, che si sentono feriti dai pregiudizi e dagli stereotipi che gravano su di loro, spesso diffusi e sfruttati dal discorso politico.
Ad esempio, il sindaco Moratti ha detto recentemente che i clandestini "naturalmente" delinquono! Ma noi daremmo le chiavi di casa in mano ad una clandestina e le affideremmo il nonno o la mamma o i nostri bambini, se fosse vero che lei "naturalmente" delinque? No, assolutamente. A proposito delle badanti, qualcuno pensa che in fondo non stanno male, hanno vitto e alloggio assicurato, una paga... Con altre donne, sono stata socia fondatrice di una piccola cooperativa sociale che si occupa del lavoro, della mediazione culturale, operando quindi per l'interazione e l'integrazione di persone provenienti da diverse realtà. Ci occupiamo anche delle badanti e ho potuto constatare che il loro è veramente un lavoro di sacrifici, fatto non solo per il guadagno, ma col cuore, che favorisce spesso il nascere di relazioni molto belle con le persone anziane che sono accudite.
accoglienza: ascolto e impegno costruttivo
Mi è stato chiesto quali gesti di accoglienza sarebbero doverosi per poter vivere bene nel nostro paese, da parte della società, delle istituzioni, della Chiesa.
Ho riflettuto a come avrei potuto rispondere. E, ripensando a quanto ho letto negli opuscoli con le trascrizioni dei precedenti incontri, penso che la risposta sia molto semplice.
La prima cosa che occorre è l'ascolto: ascoltare il diverso, ascoltare chi ha voglia di parlare, ma anche chi non ha voce, o una voce flebile, chi non parla, ma che col suo silenzio dice tanto.
E la seconda è reagire attivamente: reagire davanti alle sofferenze, contro le ingiustizie, contro le discriminazioni, contro l'indifferenza, coinvolgendo tutti nell'azione contro le politiche discriminatorie, il che, alla fine, vuol dire sanare e salvare la società.
un breve riassunto
Alphonse Mbaraga
L'umanità sta attraversando un periodo complesso e tormentato. Siamo disorientati di fronte alla incapacità degli organismi internazionali di orientare l'economia e la finanza in senso solidale, al comportamento di molti governi guidati unicamente da interessi di casta, all'atteggiamento rinunciatario di molte Chiese e confessioni religiose rispetto alla loro missione di testimonianza, alla rinuncia o all'impossibilità per molti genitori di trasmettere valori positivi alle nuove generazioni, di fronte alle guerre fratricide fonti di ulteriori catastrofi (esodi biblici, fame, malattie, ecc.). Rischiamo di lasciarci schiacciare dal senso di impotenza e disperazione.
Ma, dalla luce della fede in Dio e nell'uomo, ci viene lo stimolo ad un impegno comune, che comincia con la riflessione e con l'invito a tutte le persone di buona volontà a lavorare per un mondo più umano.
Negli anni sessanta gli italiani accoglievano lo straniero, soprattutto quello proveniente dal sud del mondo, con curiosità, simpatia e generosità. Lo Stato non si sentiva minacciato e non c'erano partiti che costruivano la loro identità sulla criminalizzazione dello straniero.
Negli ultimi decenni c'è stato un progressivo peggioramento della situazione delle popolazioni. Aumentano i flussi di popolazioni erranti alla ricerca di una chance di sopravvivenza, che trovano però spesso respingimenti e umiliazioni. Sta diventando sempre più difficile anche solo parlare di accoglienza.
L'accoglienza autentica non è un gesto altruistico, ma una dimensione della propria umanità. Si diceva anticamente dalle mie parti che l'accoglienza consiste in cinque semplici gesti: 1) tenere aperta la porta della propria casa, 2) andare incontro all'ospite, 3) dargli il benvenuto, 4) capire il suo bisogno guardandolo, 5) condividere con lui quello che si ha.
Personalmente, considero mia patria sia il Ruanda che l'Italia, non per motivi di sangue o di possesso, ma per i rapporti umani belli e coinvolgenti, che ci permettono di diffondere la convinzione che tutta la terra è di tutti e, accogliendoci reciprocamente, di fare un pezzo di strada insieme.
Dava Gjoka
Trovo molto bella l'espressione del titolo dell'incontro di oggi, "voci di migranti": i migranti hanno la voce, che però spesso non viene ascoltata, o viene stravolta dai media.
Io vengo dall'Albania, dove ho vissuto un'infanzia felice, in una famiglia allargata e molto accogliente. Laureata in scienze politiche, dopo aver insegnato nelle scuole superiori, sono venuta in Italia con un visto regolare, per uno scambio organizzato dai sindacati degli insegnanti. E poi ho deciso di fermarmi in Italia.
All'inizio l'immigrato fa un'esperienza amara di una nuova infanzia, l'infanzia migratoria: tutte le conoscenze di cui è portatore sembra che non servano più a nulla. Ha e dà l'impressione di essere un bambino. Superate le difficoltà con l'apprendimento della lingua e grazie all'aiuto di persone amiche sono diventata cittadina italiana e lavoro come mediatrice culturale.
La società italiana presenta aspetti positivi, ma con molte contraddizioni. Alcune delle mie aspettative nei confronti dell'Italia sono andate deluse. Pensavo all'Italia come ad un paese di grande libertà (e invece ho capito che anche qui ci sono censure), di grande civiltà (ma ho visto che spesso anche qui contano più i soldi della persona). Pensavo che il posto della donna nella società italiana fosse più incisivo, invece ho visto che sono soprattutto gli uomini che hanno in mano le redini del potere. Mi aspettavo di poter vivere più positivamente il rapporto con le istituzioni religiose, ma ho constatato che anche tra i religiosi ci sono pregiudizi e chiusure.
Madre Teresa di Calcutta faceva notare che la sofferenza peggiore per un essere umano è il sentirsi soli, emarginati, non amati. E questa sofferenza pesa moltissimo sugli immigrati, feriti da tutti quegli stereotipi che vengono diffusi e sfruttati da certi partiti politici. Molti italiani esprimono paura e diffidenza verso gli immigrati, li criminalizzano... poi però affidano loro i loro anziani e i loro bambini...
Perché si possa tutti vivere meglio nel nostro paese, occorre innanzitutto ascoltare (l'altro, il diverso, l'immigrato...) e poi impegnarsi, reagendo attivamente contro le ingiustizie, le discriminazioni, l'indifferenza.
interventi
esperienze di accoglienza a Milano
l'Associazione volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria NAGA
Vorrei offrire il mio contributo relativamente a cosa si può fare come accoglienza. Io sono un medico ginecologo in pensione, e da una dozzina d'anni collaboro, a Milano, col NAGA (Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria e per i Diritti di Stranieri e Nomadi, www.naga.it). Un tempo si parlava solo di "immigrati", adesso il termine di "clandestini" è più attuale. Dall'assistenza medica, nel corso degli anni, l'aiuto si è esteso all'assistenza legale, psicologica, ecc. Malgrado le difficoltà legislative legate alla legge sulla clandestinità, malgrado le difficoltà economiche (dato che sia il comune di Milano che la regione Lombardia ci hanno tolto ogni finanziamento), l'attività prosegue e abbiamo anche trovato delle brave persone che ci hanno offerto una sede dignitosa. La mia esperienza di questi anni, che ovviamente riguarda soltanto "la metà del cielo", cioè le donne, è che queste persone, più che dell'assistenza del medico, hanno bisogno di venire a parlare. Direi che l'80% delle donne che io visito non ha niente di clinicamente importante, ma ha bisogno invece di venire a raccontare le sensazioni, le difficoltà che incontra, spesso dovute alle condizioni di vita, di alloggio, ecc. in cui si trova a vivere. Siamo una cinquantina di medici volontari, facciamo circa ventimila visite all'anno, e credo che incontrare queste persone sia la cosa più importante.
il Centro ausiliario per i problemi minorili e il Bed&Breakfast protetto
Un'altra realtà che favorisce l'accoglienza e che ha sede a Milano, è il Centro ausiliario per i problemi minorili, www.cam-minori.org/B&BP.htm. In questo centro, che da quarant'anni si occupa di minori, ci si è resi conto dei problemi cui vanno incontro i ragazzi che, a 18 anni, vengono dimessi dalle comunità, dall'ente pubblico o dall'affido familiare, e che, lasciati a loro stessi, rischiano di venire risucchiati in qualche circuito deviante. Siamo riusciti a mettere in piedi un'iniziativa ben organizzata, che si chiama "Bed&Breakfat protetto": è una forma di ospitalità in famiglia, diversa dall'affido (i ragazzi sono maggiorenni), che però comporta lo stare in casa insieme, il mangiare insieme almeno un pasto al giorno. Attorno alla tavola si crea un clima positivo, si instaurano dei rapporti, si entra nel mondo degli adulti in maniera un po' più soft. Al ragazzo viene data una borsa-lavoro, per cui comincia a lavorare con un impegno continuativo. I timori di mancanza di famiglie italiane disposte ad ospitare ragazzi stranieri non hanno trovato conferma: ci sono più famiglie che ragazzi da ospitare! Questo è dovuto al fatto che non tutti i ragazzi di 18 anni accettano di entrare in una famiglia, e non tutti i servizi sociali sono disposti a pagare i contributi per i ragazzi maggiorenni. Le famiglie invece sono molto attente, solidali, fanno un ottimo lavoro. Il mito che gli italiani non vogliono gli stranieri è sfatato da questa esperienza. Siamo anche andati a fare formazione presso i servizi sociali di altri comuni e di altre regioni.
domande
Gli immigrati, dopo aver superato il periodo dell' "infanzia migratoria", riescono a portare dei valori positivi nella società italiana refrattaria e, come i relatori ci hanno ben descritto, anche un po' schizofrenica (cioè insieme accogliente ed escludente)?
Nella vostra esperienza, qual è la ricaduta sui bambini del clima provocato da certe decisioni, come le ordinanze di sindaci di vietare il pasto ai bambini quando i genitori non pagano la retta della mensa, la disposizione del limite del 30% di bambini stranieri nelle classi, i continui sgomberi dei campi rom?
Come Alphonse ha vissuto l'esperienza dell'emigrazione in paesi dove la gente ha la pelle del suo stesso colore, e dove ci possono essere maggiori affinità culturali rispetto ai paesi europei? Come il problema dell'immigrazione viene vissuto oggi nei paesi africani dove ci sono grandi spostamenti di popolazione?
Per l'esperienza che hai nei consultori e nella scuola, hai notato qualcosa di specificatamente femminile nell'emigrazione? L'immigrazione di una donna è diversa dall'immigrazione di un uomo?
risposte
valori umani e integrazione (D. Gioka)
Dopo il periodo iniziale, generalmente doloroso e difficile, per fortuna le persone si arricchiscono dallo scambio tra esperienze, ricchezze, tradizioni diverse. La mia professione, dato che sono diplomata in mediazione culturale, serve proprio a favorire questo vivere bene insieme, che può avvenire quando le persone sono se stesse. Io vivo bene in Italia, perché sono me stessa, e sono riuscita, anche con difficoltà ovviamente, ad apprendere quello che trovavo positivo. Senz'altro ho acquisito anche qualcosa di non così positivo. Andando nelle scuole, attraverso i bambini scopro i pregiudizi e gli stereotipi più strani, che loro ripetono, avendoli sentiti dagli adulti, come "gli immigrati portano malattie". Dico ai bambini, che lì per lì non mi riconoscono come "straniera": "Pensate, io sono una immigrata, extracomunitaria e sono stata anche clandestina (stupore!), e l'unica malattia che ho contratto, l'ho presa a Milano: quella di lavorare sempre!"
Per gli immigrati, il lavoro è essenziale: se si perde il lavoro, si perde il permesso di soggiorno, ed è una tragedia (a cui a volte se ne aggiungono altre, come nel caso di quella donna incinta che, proprio in questi giorni, con l'angoscia della perdita del lavoro, ha perso anche il figlio).
In base alla mia esperienza, devo dire che, spesso, anche le persone generose e accoglienti aiutano gli immigrati pensando che sono dei "poveracci". Ad esempio, all'inizio, quando ancora non sapevo parlare l'italiano (mi esprimevo un po' in inglese), coloro che mi invitavano a mangiare a casa loro, erano anche curiosi di conoscere questa albanese "normale"! In compenso, però, dovevo "subire" le loro domande, che palesavano le loro "aspettative" nei miei confronti: io dovevo essere per forza la persona povera, senza lavoro, senza casa, che aveva patito la fame, che aveva dovuto fuggire da una situazione insostenibile. Ricordo lo stupore di una signora che mi aveva molto aiutato, quando, avendo letto in un'intervista il percorso della mia vita, non riusciva a capacitarsi che io fossi stata una professoressa nel mio paese e che avessi deciso di emigrare.
L'integrazione è un processo che non avviene dall'oggi al domani, è come le stagioni dell'anno, dove si alternano momenti di calore e di gelo, di accettazione e di rifiuto. È un processo in cui intervengono tanti fattori, che lo favoriscono o che lo ostacolano. Ricordo l'atteggiamento di un parroco di un paese in cui ho vissuto, che riteneva che non ci fosse bisogno di agitarsi, che con il tempo, così come era successo per i meridionali italiani, anche gli immigrati nordafricani, albanesi, dell'Europa dell'est, ecc., si sarebbero integrati. Io invece ritengo che bisogna lavorare attivamente per favorire l'integrazione, innanzitutto aiutando ad imparare l'italiano, a conoscere il territorio, le tradizioni, a non sottovalutare le tradizioni dell'altro.
i bambini e il clima di rifiuto (D. Gioka)
Purtroppo del clima di rifiuto risentono sia i genitori che i bambini immigrati, ma anche i bambini italiani, e questo non aiuta assolutamente l'integrazione e rende molto difficile l'interazione tra i bambini. Apparentemente, il limite del 30% sembra un aiuto per le classi e per le insegnanti, ma in concreto è solo un ostacolo. La presenza di bambini stranieri è un arricchimento nelle classi. Negativi sono stati anche i tagli dei fondi per l'insegnamento della seconda lingua o per gli insegnanti di supporto all'apprendimento della lingua italiana, o la decisione di costituire classi di soli bambini stranieri: i bambini stessi ci insegnano che la lingua si impara soprattutto stando con i compagni. Si percepisce che il clima non è bello. Io ho avuto l'occasione di lavorare con una famiglia rom, recentemente, in cui la bambina adolescente, a causa di ciò che in classe veniva detto sui rom, dei pregiudizi, delle battute, aveva smesso di avere buoni risultati e poi addirittura di andare a scuola. Con l'assistente sociale ho incontrato la mamma e anche la bambina e siamo riuscite a smuovere un po' la situazione, ma avremmo dovuto lavorare anche con le insegnanti, che di fronte a nuove chiusure della bambina, scaricavano su di lei la responsabilità degli insuccessi...
le donne e l'immigrazione - le donne con il velo (D. Gioka)
In tutte le culture, la donna viene considerata il cuore della casa, e nell'esperienza migratoria gioca il ruolo di ambasciatrice dell'integrazione. Questo avviene perché spesso le donne hanno maggiore facilità a stabilire rapporti, ad esempio accompagnando i bambini a scuola o all'asilo, entrando in contatto con i vicini di casa, ecc. Ma spesso anche perché, in certe situazioni, le donne sanno mediare invece di creare conflitti. Inoltre le donne chiedono aiuto più degli uomini. Sono le donne che si rivolgono ai servizi sociali, al comune, ecc. Sono d'accordo con l'intervento del ginecologo, che ci diceva che spesso le donne si rivolgono ai servizi per conoscere e per farsi conoscere.
Come mediatori culturali, facciamo anche formazione agli insegnanti e agli operatori sociali, che a volte non sanno come comportarsi nei confronti degli immigrati. Spesso le donne dicono di aver bisogno di tutto, ma non sanno specificare meglio le loro necessità. Agli operatori diciamo che sta a loro spiegare che cosa offre il servizio, il territorio, come è strutturato il comune, ecc., tutte cose che gli italiani danno per scontate, ma che, per chi viene dall'esterno, è importante chiarire. Le donne spesso cercano di creare relazioni. Una cosa che io ho fatto per diverso tempo è stato preparare ed offrire dei cibi albanesi, il che mi permetteva di avvicinare le persone, di chiacchierare, di conoscere...
Se la diversità è più visibile, si creano delle barriere senza che ce ne rendiamo conto. Quando io ero da poco in Italia, le donne del paese in panetteria si rivolgevano a me in dialetto (e io non capivo nulla!), ma se avessi avuto il velo, non mi avrebbero parlato. Il disagio si crea perché ci si conosce di meno, ci si identifica di meno con l'altro. La donna col velo assomiglia di meno a te, rispetto ad una che non lo porta. Ho constatato che, quando vado nelle scuole da sola, mi aprono tutte le porte senza chiedermi chi sono, invece se ho con me colleghe con il velo o con la pelle scura, subito si alza il muro della paura. Di una cosa sono sicurissima, è che tutti gli immigrati vogliono essere integrati. Lasciando il loro paese, tutti sanno di andare in una situazione nuova e di doversi adattare. Poi il successo o meno dell'integrazione dipende anche dalle persone che si ha la fortuna o la sfortuna di incontrare.
valori tradizionali da far conoscere e trasmettere (A. Mbaraga)
Dal 1959, da quando cioè è cominciata la nostra emigrazione verso paesi africani limitrofi, in particolare il Congo e l'Uganda, noi ruandesi all'estero ci poniamo il problema di mantenere la nostra cultura, trasmetterla ai nostri figli e nella misura del possibile condividerla con altri. Le nostre comunità, le organizzazioni della diaspora ruandese, hanno sempre cercato di organizzare incontri, per chiacchierare, per restare insieme, per sognare insieme un domani possibile e migliore, ma anche per rinnovare alcuni momenti quasi rituali della vita tradizionale. Ad esempio si è cercato di celebrare i matrimoni mantenendo tutti i momenti del matrimonio tradizionale ruandese (come quello in cui la famiglia del ragazzo va dalla famiglia della ragazza a chiedere la mano, o, dopo gli otto-dieci giorni dal matrimonio in cui la ragazza è rimasta nella casa dello sposo, il momento in cui la sua famiglia viene a trovarla per darle la possibilità di uscire di casa, ecc.). Anche qui in Europa, indipendentemente dal fatto che si sia cattolici, non cattolici, musulmani, nella misura del possibile cerchiamo di mantenere queste tradizioni, che hanno la funzione di veicolare dei valori, spesso legati all'importanza dei rapporti familiari.
Ci sono poi le nostre danze rituali, collettive, che accompagnano momenti significativi della vita, come la nascita, il matrimonio, e anche la morte. Insegniamo queste danze ai nostri bambini, spiegando la loro origine e il loro significato. Un'altra cosa che nella nostra cultura si impara da bambini è la propria genealogia, la si impara a memoria come si impara l'Ave Maria. È un modo per mantenere un legame familiare di generazione in generazione: tu sei tu, perché sei figlio di tuo padre, perché sei nipote di tuo nonno, ecc. Io posso risalire fino a cinquanta dei miei antenati!
Come nella famiglia di Dava Gjoka, sempre accogliente, anche a casa mia (eravamo nove fratelli) non ho mai visto meno di venti persone. E quindi, anche lontani dal nostro paese, manteniamo questa capacità di relazionarci, di fare amicizia, di favorire le relazioni familiari e di vicinanza.
Quando una giovane coppia aspetta un figlio, è tradizione ruandese riunire tutta la grande famiglia allargata per scegliere il nome del bambino. Questo in Ruanda era particolarmente importante, perché non esisteva il nome di famiglia: ogni nuovo nato era definito da un nome che era solo suo, con le specificazioni "figlio di", "nipote di", ecc., come si legge nella Bibbia. Lo continuiamo a fare anche in Italia, come tradizione, anche se non è più indispensabile, poiché necessariamente qui il bambino deve avere il cognome del padre.
Comunque ai nostri incontri, alle nostre feste, non ci sono solo ruandesi. Come diceva Dava Gjoka per il battesimo del suo cuginetto, ci sono anche i parenti e gli amici italiani. Ad esempio, ogni anno commemoriamo il genocidio. In queste occasioni i partecipanti sono più di cento, e almeno la metà sono italiani.
accoglienza di rifugiati tra paesi africani (A. Mbaraga)
Come ho accennato prima, negli anni sessanta la situazione dell'emigrato, del profugo, nei paesi africani era, come in Italia, di sostanziale facilità, di protezione, di integrazione, in modo particolare nei paesi vicini. Adesso, per altri motivi, lo spostamento tra due paesi africani anche vicini e fraterni, come ad esempio Ruanda e Burundi, è forse anche più difficoltoso di quanto possa essere emigrare in Europa. Prima di tutto perché sono paesi (Burundi, Ruanda, Congo, Uganda...) con guerre interne. Guerre che vengono definite tribali, ma che in realtà sono guerre tra gruppi di potere. Se l'immigrato è un simpatizzante o un appartenente al gruppo in quel momento vincente, può anche avere qualche chance, se invece appartiene all'altro gruppo è meglio che non tenti neppure. Questa è una prima chiave di lettura delle difficoltà che incontrano i rifugiati, per cui ad esempio un ruandese, se è in grado di farlo, preferisce spostarsi nel Gabon, in Tanzania, nel Malawi, piuttosto che nei paesi vicini, dove già tra gli abitanti la situazione è tesa, per cui la disponibilità all'accoglienza è ridotta quasi a zero.
Una seconda motivazione di questa diminuita disponibilità è l'impoverimento economico, la difficoltà di sopravvivenza materiale, perché, per le devastazioni delle guerre o per altre ragioni, le coltivazioni non sono più sufficienti. Per questo motivo si diffonde anche lì la paura dello straniero, che viene visto come colui che ci può portar via tutto (la casa, il lavoro, la moglie...). Un proverbio ruandese, difficile da tradurre, dice: "Quando due insieme mangiano niente, si chiamano reciprocamente ladri". Poiché non c'è niente, dico che me l'hai rubato tu!
Prima, anche se la popolazione non era nell'abbondanza, ciascuno aveva il suo campo, le sue patate, i suoi fagioli, le sue banane, il suo orzo... Da noi si diceva che dove c'è da mangiare per quattro si mangia in otto, dove c'è da bere per dieci, si beve in cento. E oggi credo che nessuno lo dica più.
l'integrazione... di un italiano (A. Mbaraga)
A volte può essere l'occasione a sbloccare una situazione apparentemente irrisolvibile. Vi racconto quello che è capitato a me. Nel palazzo dove abito (siamo circa sessanta famiglie) c'è anche una persona che era da tutti gli altri coinquilini considerata inavvicinabile, un ingegnere proveniente da un'altra regione italiana. Io abito all'ultimo piano, nel sottotetto, e lui nell'appartamento sotto il mio. Una sera, intorno alle 21 e trenta, mi telefonano degli amici ruandesi dalla stazione e mi chiedono di poter venire da me. Io, che non ho nulla in casa da offrire, a parte due spaghetti, scendo un po' timoroso a bussare dal mio vicino, gli spiego la situazione e gli chiedo se può prestarmi del vino o della birra per accogliere i miei amici. L'ingegnere mi porta di tutto! Cominciamo a parlare, a darci del tu, e poiché io saluto sempre tutti (è un dovere nella nostra tradizione), quando insieme incontriamo altre persone sulle scale, anche lui saluta e viene salutato... Quindi, vedete, sono riuscito io, un ruandese, ad integrare un ingegnere toscano a Milano!
A volte ci vuole anche un po' di arguzia. A chi, vedendo la mia pelle nera, mi chiede: "Tu... parlare... italiano?", rispondo: "Io sì, e tu?"