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Ospitalità e identità

sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 17 aprile 2010

Le riflessioni sul tema di oggi, identità e ospitalità, nascono dalla trentennale esperienza fatta da me e dalla mia famiglia a Fiesole, al centro Sant'Apollinare. In realtà, la mia vita - ho 74 anni - è stata tutta trascorsa in comunità. A 10 anni sono entrato in seminario, sono stato poi dai gesuiti, appena uscito dai gesuiti ho fondato una comunità di sessantottini a Milano, e successivamente ho passato quasi trent'anni a Fiesole. Il mio intervento di oggi terminerà proprio con un accenno all'ospitalità che veniva data a Fiesole.
L'attività del Centro Sant'Apollinare a Fiesole comprendeva anche l'organizzazione di incontri a carattere culturale - se ne sono svolti un centinaio - e la preparazione dei "Quaderni" (85), il cui ricavato serviva per sostenere delle iniziative, in Perù, a partire dal 1983, quando per la prima volta ho visitato delle comunità sulle Ande. In particolare, negli ultimi anni, abbiamo contribuito alla costruzione di un centro di consulenza psicologica per giovani con problemi di depressione e a rischio di suicidio (tra le cause, ci sono le uccisioni di genitori e familiari di questi giovani da parte o di Sendero luminoso, o del terrorismo di stato che combatteva Sendero luminoso, ecc.). Ora che non ci sono più i "Quaderni", è il ricavato della vendita dei miei libri, insieme al contributo di alcuni gruppi, che permette di inviare ancora una discreta somma alla "cassa amici del Perù".

l'identità

Veniamo al nostro tema: ospitalità e identità. Faccio una premessa, per specificare due punti.

Primo punto: quando si parla di ospitalità, a volte la si intende in un senso metaforico come l'equivalente di solidarietà, carità, accoglienza, convivialità, condivisione. Ma il significato preciso di "ospitalità", se lo si prende nel senso proprio, è: "mettere uno spazio proprio a disposizione di altri". Questi "altri" possono essere le persone più diverse, a seconda della situazione, ad esempio anche persone che hanno bisogno solo di avere momentaneamente una camera perché sono in cerca di lavoro in una città, ecc.
Quindi: mettere a disposizione di altri uno spazio proprio. Per cui, per esempio, adottare un bambino è un gesto di ospitalità nel senso proprio del termine. Fare una adozione a distanza è un gesto di solidarietà, evidentemente, ma non è più propriamente un gesto di ospitalità, perché non si mette a disposizione il proprio spazio domestico, familiare.

Secondo punto: al titolo originario "ospitalità" ho voluto aggiungere "identità", perché è evidente che un'identità umana, antropologica, si costruisce proprio a partire da quello spazio che poi viene messo a disposizione. Allora di per sé il titolo esatto dovrebbe rovesciare i due termini, ed essere: "Identità e ospitalità".
E difatti partiremo dalla identità.

gli spazi abitabili che costruiscono l'identità

La prima parte del mio intervento è puramente antropologica, non teologica. Intende chiarire che cosa vuol dire avere uno spazio proprio, e quali sono gli spazi propri, vedere qual è la funzione dello spazio abitabile nella creazione della identità
Nella seconda parte vedremo, questa volta facendo un discorso teologico, che nasce dalla Bibbia, particolarmente dall'Antico Testamento, dalle Scritture ebraiche, che cosa vuol dire ospitare il forestiero, lo straniero ("Ero forestiero e mi avete ospitato..."). E qual è la logica che permette di passare dall'identità all'ospitalità, senza dismettere l'identità.

l'utero

Il primo spazio abitabile è il grembo materno, è l'utero. È uno spazio vitale, è uno spazio abitato. Qualcuno obietterà che questo vale anche per gli animali. Ma io ritengo che si tratta invece di uno spazio antropologico. L'animale infatti è mosso da istinti, non sceglie di avere un figlio, invece l'umano, uomo e donna insieme, scelgono di avere un figlio. E se anche il figlio invece viene per combinazione, o addirittura per uno stupro, ecc. si può scegliere ancora se tenerlo o non tenerlo. Non sto facendo un discorso etico, ma puramente antropologico. Il fatto che il tenere un figlio sia sottoposto a una scelta, fa acquisire all'utero una dimensione antropologica e non puramente biologica. Quindi, se scelgo di abortire, o se scelgo di gettare dalla montagna il neonato che non è conforme alle aspettative, come facevano gli spartani, oppure di metterlo sulla strada nella speranza che qualcuno lo trovi, tutto questo fa sì che si tratti di una dimensione antropologica. Nella maggioranza dei casi, grazie a Dio, la scelta che viene fatta è quella di ospitare un figlio.

la casa

Il secondo spazio abitabile è la casa, la casa con la famiglia. Intendo casa nell'accezione abituale del termine, ma si può intenderla anche come una piccola proprietà, un piccolo giardino, un piccolo campo, insomma quell'ambiente in cui uno cresce e impara ad "abitare il mondo".
Mi spiego. Le cose "sono" nel mondo, ma non "abitano" il mondo. Gli animali in qualche modo "abitano" il mondo, ma non nel senso in cui lo abita l'uomo. Per l'uomo abitare significa entrare in un rapporto con il mondo, per cui il mondo viene "percepito", e non solo "sentito". L'animale "sente" il mondo, mentre l'uomo prima lo sente, ma poi in lui c'è una consapevolezza, un io che "percepisce" il mondo. Percepirlo vuol dire ad esempio mettere assieme sensazioni diverse... Mi affascina sempre il cercar di capire come possa esserci nell'umano, nell'uomo, quella simbiosi, quella sintesi, tra due o più sensi, ad esempio tra la vista e l'udito, o la capacità di sostituire, per un cieco, la vista con il tatto o con l'acuire l'udito, ecc. O il fatto che sentendo un profumo o un sapore, si sia portati a ripensare a momenti precedenti in cui lo si è sentito, e che questo possa far nascere, ad esempio, una forte nostalgia per una persona che non c'è più o per un periodo della nostra vita ormai passato.
Dicevo dunque che il primo spazio in cui si impara ad abitare il mondo è lo spazio domestico, quello spazio per cui le cose che noi vediamo non sono più oggetti, ma sono quello che chiamiamo "il mondo". Ad esempio, un albero può essere per me una sagoma, oppure nel vederlo a primavera ricoprirsi di foglie, di fiori e in seguito di frutti, può rientrare per me all'interno di una visione del mondo, che mi permette di "abitare il mondo".
Vi leggerò ora il caso di un adolescente che ha una crisi di identità perché il padre ha tagliato una quercia che si trovava davanti alla casa. L'antropologo Ernesto De Martino narra nel suo libro La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali (Torino 1977) di un giovane contadino bernese, colpito da un delirio di "fine del mondo" da quando il padre ha risistemato la fattoria e, soprattutto, da quando è stata sradicata una grande quercia nelle sue vicinanze.
«La spazialità di questo suo mondo è determinata dalla casa e dal paesaggio domestici e patri. La temporalità della sua esistenza riceve del pari la sua connotazione dall'immediatamente visibile: dal corso del sole che regola il giorno e la notte e determina il corso del mondo. Questa esistenza centrata nella casa e nella patria si riflette in modo intuitivo negli alberi e negli arbusti, specialmente nella potente quercia che appartiene al suo orizzonte domestico. Attraverso l'allontanamento di questa quercia l'immagine del suo mondo ha subìto una trasformazione decisiva, gravida di sventura... Quando il malato dice: "Il mondo nel quale poco prima sono stato, non c'è più, il bel mondo", si rende manifesto che l'esistenza del nostro paziente, la modalità del suo esserci-nel-mondo ha subìto nel corso della psicosi una distruzione radicale».
È certamente un caso eccezionale, ma mi pare proprio che dica bene quello che capita, in qualche misura, quando qualcuno deve lasciare il proprio paese, o anche solo spostarsi in un'altra parte del paese, in una città vicina. Certo questo non appare più così evidente nell'epoca della globalizzazione, ma credo che anche oggi resti qualcosa di simile, quando una persona vive tale esperienza, dato che siamo tutti cresciuti in un certo spazio originario, che ha lasciato il segno nella nostra identità.

la terra natale

Il terzo spazio abitabile è la terra natale. Intendo con terra natale qualcosa di più ampio della casa e della piccola proprietà attorno. Parlo qui del paese o della città natale. A questo proposito vi leggo una pagina famosa:
«Addio monti..., cime note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente non meno che lo sia l'aspetto dei suoi più familiari; torrenti dei quali distingue lo scroscio come il suono di voci domestiche.»
E invece in città: «Le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro, e davanti agli edifici ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese...»
E' il famoso "addio ai monti" del capitolo ottavo dei Promessi Sposi, che descrive sentimenti che Manzoni attribuisce a Lucia: "quei" monti che sono come i volti dei familiari, "quelle" voci dei torrenti che sono come le voci dei familiari (passiamo dalla casa, al paese, alla terra). Il secondo brano si riferisce al momento in cui Renzo arriva a Milano. Manzoni qui parla di edifici ammirati dallo straniero, cosa probabilmente vera nell'800, al tempo in cui lui scrive (Milano era già visitata dai primi turisti), ma non certo nel 600, epoca in cui è ambientato il romanzo...

All'importanza di questa terza dimensione di spazio identitario, credo si possa attribuire il detto: "Moglie e buoi dei paesi tuoi". Molte poi sono le canzoni di nostalgia su questo tema. Ci sono varie tipologie di nostalgia. Ad esempio, "Piemontesina bella" esprime non la nostalgia di Torino, ma la nostalgia della giovinezza: "Ricordi quelle sere passate al Valentino..." Invece Santa Lucia, luntan 'a te, quanta malincunia... Se gira tutto il mondo, se va a cercà fortuna, ma quanno spunta 'a luna, luntan da Napule non si può star..." canta la nostalgia di Napoli, la nostalgia della terra natale. Ma voi forse non sapete che ci sono anche canzoni di nostalgia di Milano. Non c'è soltanto "La Madunina", c'è anche: "Ah mama mia, mi sun luntan, a gh'ò nostalgia del me Milan, mi vurarìa turnà duman, te giuri verarìa cul coer in man..."

Per spiegare bene la differenza tra questa terza dimensione di spazio abitabile (la terra natale) e la prossima (la nazione), mi rifaccio ad una distinzione, teorizzata, con una certa modalità ideologica, da Ferdinand Tönnies, un sociologo e antropologo vissuto a cavallo tra la fine dell'800 e l'inizio del 900, ma il cui testo, "Comunità e società", è rimasto un classico e, a mio avviso, ha valore ancora oggi.
Per Tönnies, la comunità è la consociazione umana naturale, perché ha come base la nascita, che radica l'esistenza umana nella universale vita vegetativa. Nascere significa subire quello stesso processo che subiscono anche le piante. Quindi siamo dentro a un paesaggio dove la forma principale di vita è quella vegetativa. Dentro la comunità gli individui sono come organi del corpo, dal momento che quella è, in senso non metaforico ma proprio, un organismo vivente. Forse più che "in senso non metaforico", potrei dire "in senso simbolico". Infatti dire che una comunità è un organismo non è del tutto esatto, ma non è neanche solo una metafora. Preferisco dire "in senso simbolico", perché i simboli nascono dalla vita, esprimono qualche cosa ad un livello diverso rispetto a quello letterale, un livello che però ha degli elementi quasi viscerali di continuità. Quindi, secondo Tönnies, cellula della comunità è la famiglia, in quanto relazione di sangue, che spontaneamente si dilata nella relazione di vicinanza, nell'appartenenza alla stessa terra, e sul piano più alto, nella comunità degli spiriti il cui tessuto connettivo è costituito dalla lingua materna, dall'ethos e dal diritto comunitario. Per "ethos" si intende un certo modo di vivere, certi costumi, ecc., e per "diritto comunitario" si intende non il diritto universale, e neanche il diritto romano, ecc., ma il diritto di quella specifica comunità.
Sempre secondo Tönnies, la società, al contrario, è un prodotto artificiale, in quanto creata dalla volontà di individui che vivono prima separati(1). Ogni individuo originariamente tende ad aggredire gli altri, sentendosi a sua volta aggredito: homo homini lupus. E allora si fa il contratto sociale. Ma lo stato originario è quello dell'individualità. Quindi la società è un prodotto artificiale, in quanto creato dalla volontà di individui che vivono prima separati, costituiti ognuno dalla relazione con i propri beni. Perciò la forma esemplare della società è, in analogia con lo scambio dei beni, il contratto. Se la comunità è volontà essenziale (cioè abbiamo tutti una sola volontà), in quanto equivalente psicologico dell'organismo umano, la società è volontà arbitraria, contratto: non è cosa naturale, ma radicata nel pensiero riflesso e nella decisione con cui il soggetto individuale si costituisce signore della realtà.
Le simpatie di Tönnies vanno alla comunità, ma la sua tipologia duale si presta, con qualche ritocco di terminologia, anche al rovesciamento valutativo. Pensate, ad esempio, al sorgere della società liberale, moderna, della rivoluzione francese al primo stadio, che, con la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, all'articolo quarto, sostiene che libertà è fare tutto ciò che non nuoce agli altri. Unico limite è non invadere lo spazio altrui. La maggior parte delle persone preferisce questa società alla comunità.
Ricordo che negli anni 80 c'è stato un tentativo di riprendere il discorso della comunità, in particolare negli Stati Uniti, per portare una correzione dell'individualismo liberale nella sua forma pura. Si trattava, da un lato, di temperare le forme estreme della modernità e soprattutto della postmodernità, dell'individualismo postmoderno, e dall'altro di armonizzare la condizione di cittadinanza democratica in un grande paese dove sono presenti gruppi consistenti di comunità di origine diversa. Sono nate così posizioni chiamate "comunitarismo", soprattutto nei paesi anglosassoni, dove la concezione del diritto non accoglie solo la dimensione dei diritti che si presumono universali, ma anche di diritti particolari di determinate comunità. In Inghilterra, ad esempio, non sarebbe mai potuta nascere una legge come quella francese contro il velo islamico, perché lì c'è un diverso modo di concepire la presenza dello straniero.

Credo, in questo modo, chiarendo la differenza tra comunità e società, di aver precisato meglio che cosa intendo con questo terzo spazio abitabile, la terra natale. Certo, può capitare anche che una persona, emigrando da giovane, si costruisca una specie di seconda terra natale. Penso ai missionari che vanno in Perù, in Brasile, in Africa... e non tornano più a casa. Ho avuto anche amici gesuiti che sono andati come religiosi in Brasile, poi sono usciti dalla status di religiosi, ma sono rimasti lì, perché hanno ritrovato lì la loro seconda patria. Per cui questa concezione della comunità e della terra natale, la si può avere anche su un'altra terra.

la nazione, la madrepatria

Infine, arriviamo al quarto spazio abitabile, che è la nazione. E qui le cose diventano complesse. Perché, da un lato, la parola "nazione" viene da "nascere", quindi è come una terra natale un po' più estesa, e, dall'altro, è stata proprio investita, a ragione o a torto, penso con qualche ragione ma con molto torto, di una funzione di terra natale allargata, difatti si parla di "madrepatria": più "nascita" di così!
Le nazioni moderne (come la Germania, l'Italia, la Grecia, il Belgio...) nate nell'800, e anche quelle nate prima (in Europa sono Francia, Spagna, Inghilterra...) e che nell'800 si trasformano, possono essere definite come "nazioni romantiche". In reazione all'illuminismo che voleva creare una società che fosse al tempo stesso individuale e universale, si fa strada il romanticismo, a partire soprattutto dalla Germania. Il romanticismo sostiene che dobbiamo abituarci a pensare la terra su cui viviamo come una madrepatria, una madreterra, una specie di organismo di cui siamo le realtà viventi. Per cui nascere su una certa terra è essere figli di quella terra, un qualche cosa che nessuno può togliere, al pari del sangue che scorre nelle tue vene: Blut und Boden, sangue e terra. Questa espressione, che sarà usata successivamente da Hitler, era nata dai romantici per indicare la vicinanza alla propria terra, contro il sorgere della società moderna, o della società tout court, nei termini di Tönnies.
A proposito di nazioni, vi leggo una parte di un articolo, pubblicato domenica scorsa (11 aprile 2010) sulla prima pagina dell'inserto culturale del Sole 24 Ore, di un certo Donald Sassoon, inglese. Il suo saggio, che ha come titolo "Sulle nazioni" e si riferisce in particolare alla nascita della nazione italiana (lo avrebbe letto a Genova, durante un festival per preparare i 150 anni dell'unità d'Italia, 1861-1911), è molto critico nei confronti delle "nazioni". Ve ne leggo alcune righe:
"Il mondo di oggi è diviso in quasi 200 stati sovrani, molti di più che 150 anni fa. Ciascuno di tali Stati, per quanto piccolo, mantiene tutto l'armamentario di sovranità che fu eretto nell'800 e 900: passaporti, confini, eserciti, uniformi, polizia, valuta, inni nazionali, giornate nazionali, banche centrali [...]. Tutti gli Stati sovrani celebrano la cultura nazionale, hanno canali televisivi nazionali, che danno priorità a notizie nazionali, e nelle loro scuole si insegna ai bambini ad essere orgogliosi del proprio paese." Poi fa molti esempi, a proposito delle date di nascita delle nazioni. "Ai bambini e ai più grandi viene fornita una versione un po' rosea della nascita e dello sviluppo della loro nazione. La litania è abbastanza simile, quasi un genere letterario di per sé, costantemente in bilico tra un senso di autocommiserazione lacrimosa e vittimistica e un resoconto vanaglorioso di gesta eroiche. «Noi», si dice, veniamo da lontano, da secoli, forse anche di più"
La data di nascita della nostra nazione viene fatta risalire ai Romani, come afferma il nostro inno nazionale: "Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta, dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa." La nascita della Gran Bretagna viene posta nel 1066, anche se in realtà la Gran Bretagna esiste solo dal 1707 con l'Atto d'Unione tra la Scozia e l'Inghilterra. Non parliamo poi della Francia, i cui confini non sono stati molto stabili nel corso dei secoli: Alsazia e Lorena sono entrate a far parte della Francia solo molto tardi. Ancor peggio la Polonia, il cui stato ha celebrato i mille anni di storia nel 1966, nonostante i suoi confini venissero spesso cambiati nel corso dei secoli a prescindere dagli abitanti e dalla lingua parlata.
E poi l'autore dell'articolo parla dei confini e delle rivendicazioni di indipendenza. Si pensi per l'Italia alla rivendicazione dell'Alto Adige, anzi, del "Südtirol"! Sapete che tra i vecchi c'è ancora chi non capisce l'italiano e parla solo il tedesco! Pensate a quanto sangue è stato versato dalle nazioni per difendere i loro confini contro delle rivendicazioni, giuste o non giuste, di indipendenza: 600 000 morti nella prima guerra mondiale per la liberazione di due province, che non arrivavano a 600 000 abitanti, e per l'annessione di una provincia che non era italiana. E questo perché? "Perché le Alpi sono il confine naturale"! Vedete quanta ideologia c'è in questa visione. E allora si capisce come, 149 anni fa, Massimo d'Azeglio abbia detto: "Abbiamo fatto l'Italia, adesso cominciamo a fare gli italiani". Ma 150 anni non sono bastati, siamo ancora con le stesse problematiche di allora...
Continua l'articolo: "Le nazioni sono arrivate tardi sulla scena internazionale, spesso come risultato di lotte di liberazione nazionale, o di una nuova coscienza democratica che ha permesso la trasformazione dei sudditi in cittadini..." (E io aggiungo: solo che quei sudditi, diventati cittadini, hanno reso sudditi persone in altre parti del pianeta, se guardate soprattutto all'Africa...) "Ma ciò non significa che le nazioni non siano invenzioni pericolose. Oggi più di ieri". Così termina l'articolo di Donald Sassoon.
A proposito degli italiani, vi ricordo un libro molto interessante uscito una dozzina di anni fa, di Robert Putnam: "La tradizione civica delle regioni italiane" (Mondadori). Le due regioni in cima alla classifica erano l'Emilia (non la Romagna!) e la Lombardia. L'Emilia perché è stata divisa a lungo in tanti staterelli, e il fatto di dover collaborare avrebbe favorito il nascere di una coscienza di responsabilità. E per la Lombardia c'è chi sostiene che dipenda dal fatto che a Milano, nonostante la dominazione austriaca, l'Illuminismo ha vinto (mentre a Napoli l'insurrezione contro il vecchio regime ha perso).
Si può vedere allora come nel concetto di patria entri molta ideologia, ieri come oggi. Sappiamo che la Lega ha fatto sua bandiera la difesa, non dell'italianità, ma della padanità. La Padania non è mai esistita. Il Piemonte ha avuto una storia ben diversa da quella della Lombardia, e la storia della Lombardia non è stata né quella del Piemonte, né quella del Veneto, per cui la Padania è un'invenzione dei leghisti. Dentro ci può forse essere qualcosa di buono, ma capite la falsità basilare, di pretendere addirittura di voler difendere il cattolicesimo, dimenticando i pellegrinaggi alle sorgenti del "dio Po" e i riti celtici...

l'ospitalità

L'ospitalità è una delle modalità della solidarietà "Ero forestiero e mi avete ospitato" (Mt 25,35)
L'argomento che ora svolgerò è un po' complicato. Nonostante sia stato da me ripreso più volte, forse non è ancora abbastanza lineare, ma spero di riuscire a far cogliere almeno la sostanza.
Per prima cosa, nel brano di Matteo sul giudizio finale (cap. 25, versetti 31ss), sono presentate le varie modalità della solidarietà: "ero affamato... ero assetato... ero forestiero... ero nudo... ero malato... ero carcerato... ecc. Ogni volta che l'avete fatto ai miei fratelli minimi, l'avete fatto a me."
In ognuna di queste persone bisognose è presente Gesù Cristo. Questa presenza nel povero, nel bisognoso, che attiene al livello simbolico del linguaggio, la si ritrova già nel Dio dell'Antico Testamento. È quello che cercherò di far vedere. L'unica vera novità del Nuovo Testamento è quella del perdono (che è un dono a livello superiore, etimologicamente un iper-dono, un super-dono), del perdono universale dato da Dio Padre attraverso la morte e resurrezione del Figlio suo. Tutte le altre forme di solidarietà erano già presenti nelle Scritture ebraiche.
Mi soffermerò sulla modalità della ospitalità, quell'amore all'altro che si manifesta ospitandolo, cedendogli, secondo modalità che possono essere molto diverse, per quanto è possibile, quella parte del proprio spazio di cui lui/lei ha bisogno.

presenza di "luoghi di identità" nelle pagine bibliche

Propongo tre brani delle Scritture ebraiche, tre passi noti, tratti dai salmi. Israele non è un popolo naturalmente portato all'alterità, ma tiene molto alla propria identità. Non c'è del resto nessuna realtà naturale portata spontaneamente all'alterità.

l'utero

"Sei tu (tu, Dio), che hai formato i miei reni
e mi hai tessuto nel grembo di mia madre.
Io ti rendo grazie,
hai fatto di me una meraviglia stupenda" (Sal 139, 13-14).
È il riconoscimento dell'esistenza di questo primo spazio abitabile, l'utero, da cui viene la nostra identità naturale. E del resto uno degli attributi di Dio nel linguaggio antropopatico dell'A.T. (attribuzione a Dio di sentimenti umani), è quello di rachamin, che indica la tenerezza di Dio e che il più delle volte è usato per esprimere la compassione verso il peccatore. Ebbene, rachamin è il plurale di rechem che vuol dire l'utero. Si potrebbe quindi parlare dell'amore uterino da parte di Dio.

la casa/famiglia

"Beato chi teme il Signore
e cammina nella sue vie [...].
La tua sposa come vite feconda
nell'intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d'ulivo
intorno alla tua mensa" (Sal 128, 1.3).
In questo brano c'è l'intrico tra la dimensione familiare e quella della nuova identità che Israele ha, che è quella dell'essere giusti, secondo l'alleanza. E il dono che Dio dà a chi vive secondo l'alleanza è quello di dargli uno spazio abitabile, che è la casa-famiglia.

la terra-patria

"Gerusalemme è costruita
come città unita e compatta [...].
Chiedete pace per Gerusalemme,
vivano sicuri quelli che ti amano.
Sia pace nelle tue mura,
sicurezza nei tuoi palazzi" (Sal 122, 3.6-7).
Israele in questo testo è identificato con Gerusalemme.
Ci sono senz'altro molti altri passi nella Bibbia per mostrarvi quanto sia forte il senso dell'identità in Israele, ma credo che questi tre bastino

invito ad andare oltre l'identità

Adesso vi presento altri brani della bibbia che sembrano andare in direzione opposta.

Genesi: la chiamata di Abramo.

"Il Signore disse ad Abramo:
Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria
e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che io ti indicherò." (Gen 12,1).
Non significa "vattene via perché non sei degno...", al contrario vuol dire: "vattene nel paese che io ti indicherò".
Nella Genesi, come sappiamo, prima si racconta la storia delle origini, dalla creazione alla torre di Babele, e poi quella dei patriarchi, da Abramo a Giacobbe. All'inizio della storia dei patriarchi troviamo una rottura: Dio vuol rendere sua una identità, e comincia con lo staccare Abramo dalla identità di origine.

Esodo: il grido degli israeliti e l'ascolto di Dio

Gli israeliti, che in Egitto avevano trovato di che sfamarsi ed erano cresciuti di numero, ora si trovano in gravi difficoltà, perché con il cambiamento della dinastia egiziana sono considerati stranieri e schiavi, mentre i loro primogeniti vengono uccisi per ordine del faraone. Non rimane loro altro che piangere e gemere, perché non possono certo pregare gli dei degli egiziani, che non sono i loro dei, ma neanche il Dio dei loro padri, perché di lui si sono dimenticati. Quindi gridano nella loro desolazione e il loro grido giunge all'orecchio di Dio. E' bene sottolineare che non si tratta di una preghiera o di un'invocazione, ma di un grido.(2)
Questo gemito arriva all'orecchio di Dio e "Dio si ricordò di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e si prese cura di loro" (Es 2, 25). Qui inizia la storia della liberazione degli israeliti dall'Egitto dove erano stranieri e schiavi. Dio attua il suo progetto attraverso Mosè, a cui parla dal roveto ardente:
"Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto... Sono sceso per liberarlo dal potere dell'Egitto, e per farlo uscire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele" (Es 3, 7-8).
Dunque Dio libera gli israeliti per poi educarli a diventare suo popolo, cioè a credere in lui (la tappa nel deserto) e ad obbedire alla sua volontà (la salita sul monte Oreb e la alleanza-legge). E quando Israele è costituito come popolo di Dio, popolo regale, popolo di sacerdoti, quindi libero "da", e anche libero "per", allora entra nella terra dove scorre latte e miele.
In realtà la terra di Canaan era una terra povera e arida (ancora oggi in Palestina hanno il problema dell'acqua). La possibilità di viverci è data dal modo in cui gli israeliti, che sono ormai diventati Israele, sono chiamati a vivere, cioè come "terzo uomo", come uomo solidale. Il terzo tipo di uomo va al di là di una concezione comunitarista, va al di là della comunità, dove uno non ha una sua personalità, ma è solo una parte di quel tutto che è l'organismo sociale comunitario. E va al di là anche della società, dove l'individuo è una libertà di fronte ad altre libertà e dove ognuno cerca il proprio interesse purché non vada a scapito altrui. Invece il terzo uomo, il terzo tipo di uomo, è l'individuo definito dalla solidarietà.
Su quella terra c'è abbastanza da vivere, purché Israele ci viva come "terzo uomo". Vale a dire che Israele non deve concepirsi come l'Egitto, dove tutto è organizzato nel senso della comunità (al punto che dopo 430 anni gli Ebrei non erano ancora egiziani e non lo sarebbero mai stati, perché, non essendo nati in quella terra, sarebbero stati sempre considerati stranieri). Il comando di Dio è che ognuno deve vivere su quella terra accogliendo l'altro. Anche lo straniero.
Io chiamo "terzo uomo" questa figura, che non rientra nella visione del comunitarismo organico (Tönnies), ma neppure nella visione individualista. È una figura la cui individualità è essenzialmente solidale.
Questa caratteristica non è scritta nel DNA della identità naturale, né dell'utero, né del paese natale, né tanto meno della patria. È l'identità per cui ognuno è per l'altro.
L'utopia marxista si avvicina a questo, quando dice che "ognuno darà agli altri secondo le proprie possibilità, le proprie capacità, e riceverà dagli altri secondo i propri bisogni". Ma Marx ha creduto che si potesse arrivare a questo facendo una rivoluzione: ha visto bene il frutto, ma non il seme. Il seme è che ogni individuo viva in modo solidale: Dio non ha fatto una sola alleanza con Israele, ma, come dice un testo rabbinico, ha fatto tante alleanze quanti erano gli israeliti. Cioè ognuno è chiamato, in virtù dell'alleanza, coralmente ma al tempo stesso individualmente, a vivere ogni giorno in maniera solidale. Non verrà mai un momento in cui questo è scontato: ogni giorno tu dovrai rifare quella scelta, la scelta per l'altro.

Levitico: la terra è di Dio

"La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti" (Lev25, 23). La terra in cui abita Israele, popolo di Dio, non è di Israele, che vive in essa come "forestiero e ospite": quella terra è di Dio. Io, Dio, vi ho portato in questa terra, che però non è vostra, non ne siete i padroni. Gli israeliti sono chiamati a vivere questa terra non come gli altri popoli vivono la loro. Viene superato il principio della identità naturale. Viene superato... ma non buttato via. Viene prospettata l'immagine del terzo uomo, dell'uomo che, sapendosi forestiero e ospitato, è chiamato a diventare ospitante.
Tra i tanti testi che invitano all'ospitalità, ne ho scelti alcuni del Pentateuco:
"Non molesterai lo straniero, né lo opprimerai perché voi siete stati stranieri nel paese d'Egitto" (Es 22,20). "Non opprimerai lo straniero: anche voi conoscete a vita dello straniero perché siete stati stranieri nel paese d'Egitto" (Es 23,9). "Quando uno straniero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Lo straniero dimorante tra di voi lo tratterete come colui che è nato tra di voi; tu lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati stranieri nel paese d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio (Lv 19, 33ss).
Strappato come Abramo dalla casa-terra natale, poi liberato dall'Egitto, portato su una terra nella quale è ancora ospite, l'appartenente al popolo di Israele è invitato ad una ospitalità attiva, ad essere ospite ospitante.
Il problema allora è quello di coniugare identità e ospitalità.
Vi leggo un brano che avevo scritto tempo fa:
"La chiamata di Israele (alleanza) non cancella l'ordine della creazione naturale: non cancella la nascita da uomo-e-donna, non cancella la casa, non cancella la terra natale. E, invece, introduce il principio dell'ospitalità che transustanzia (cioè cambia la loro sostanza) le relazioni umane."
"Queste relazioni umane restano tessute di logica uterina, domestica, etnica, nazionale, che disegna un noi parziale, essenzialmente differenziato dagli "altri", ma vengono investite o animate da quell'altra logica che si è manifestata in forma tanto faticosa quanto ammirabile nella storia di Israele: la logica della gratuità che esige di diventare principio dell'agire umano."

La gratuità, ancor più della solidarietà o della condivisione, esprime la logica originaria, fondamentale.
Quando Dio ha liberato il paese dall'Egitto lo ha fatto con un gesto gratuito. Non ha aspettato neanche che lo pregassero. E quando Dio poi si è ripresentato a Mosè per invitarlo a condurre gli israeliti fuori dall'Egitto, alla richiesta di conoscere il suo nome, risponde, secondo l'abituale traduzione: "io sono colui che sono" . Non vuol dire che "io sono l'essere". Ma vuol dire che "io sono presente, ci sono e ci sarò per sempre!" "Io ti prometto che sarò con te, e sono stato davvero, sono tuttora, e sarò sempre con te". Quindi c'è una promessa e c'è un mantenere la promessa, c'è un dare la parola e c'è un mantenere la parola. Vale a dire c'è un amore gratuito, ma che nel momento in cui dice "ti do la mia parola", diventa un "amore giurato". Il termine biblico che esprime questo amore di Dio è l'endiadi chesed we-'emet, l'amore gratuito e giurato che impegna alla fedeltà. ("chesed = amore giurato; emet = amore fedele).

Così deve diventare anche Israele, amore gratuito: Israele deve essere quello che Dio è, deve essere così come Dio si è manifestato.
Ho parlato per molto tempo di "amore comandato", ma forse è ancora più eloquente l'altra espressione che ho spesso usato: amore dovuto. Perché quando si parla di "comando", sembra che sia una cosa che viene dall'esterno, anche se è un termine presente sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento. Giovanni ad esempio parla chiaramente del comandamento dell'amore.
Un primo livello di amore che dobbiamo a Dio è il riconoscimento di quello che egli ha fatto, è il dirgli "grazie", come risposta al suo amore gratuito. Ma poi c'è un altro livello, che si esprime nell'amore del prossimo. È come se Dio, partendo per un lungo viaggio, ci lasciasse in affido suo figlio, dicendoci di trattarlo come lui ha trattato noi. E allora, al di là del ringraziamento, l'amare Dio con tutto il cuore diventa amore per i figli di Dio, amore del prossimo.
Questo è il discorso generale, nel quale inquadrare il discorso dell'ospitalità.

Identità ospitale

Il principio di gratuità non uccide, non vanifica, non cancella il principio di identità, ma gli mette dentro un'altra anima, che è il servizio(che possiamo chiamare in mille altri modi: amore, carità, agape, ecc.). C'è un libro francese di commento all'esodo, che si intitola: "De la servitude au service", dalla servitù al servizio. Israele, servo e schiavo in Egitto, non viene liberato per affermare la propria identità, per esercitare i propri diritti, ma per servire, per servire i bisogni degli altri, che, letti alla luce di questo amore dovuto, diventano diritti.
Ci vorrebbe molto più tempo per sviluppare questo pensiero, ma quello che mi preme ribadire è che l'atteggiamento di gratuità non cancella le dimensioni di identità, ma le mette a servizio. Mette a servizio del cuore, che aderisce all'amore gratuito di Dio, le mani e l'intelligenza. È come se Dio si fosse ritirato dal mondo e ci chiedesse di usare le nostre mani e la nostra intelligenza per progettare ed usare adeguatamente i beni. Ognuno individualmente è chiamato a trovare, su ispirazione del cuore, le varie modalità esecutive, anche organizzandosi, per la realizzazione di una società veramente umana, cioè qualitativamente universale, senza rinnegare le radici spaziali e identitarie. La società veramente umana non può nascere né dalla globalizzazione economica, né dalla rivoluzione politica, né dal diritto internazionale, né dalle realizzazioni della scienza-tecnica, perché questi elementi fanno parte dell'ordine dei mezzi, e non toccano la prospettiva del fine. Tutti questi mezzi, se non sono guidati da quel fine che è il fine della gratuità, della solidarietà, dell'ospitalità, rischiano di diventare negativi. Anche il diritto positivo, cioè le leggi, le costituzioni, rischiano di diventare solo difesa degli interessi di qualcuno a scapito di altri, pur essendo votate magari democraticamente a maggioranza (lo vediamo chiaramente in quello che sta succedendo nel nostro paese). Anche le leggi e le costituzioni sono sempre degli strumenti, che sono positivi se nascono dal cuore amante, serviente, solidale, ospitale, o negativi se il rispetto dei doveri verso gli altri è sostituito dalla difesa dei diritti di singoli o di gruppi. Come diceva negli anni 60 Wolfgang Boeckenfoerde, un filosofo del diritto tedesco: "Lo stato liberal democratico vive di presupposti, che esso stesso non può creare". Infatti ha bisogno di altro, cioè del cuore giusto, del cuore solidale. Per dirla con Ezechiele: "Strapperò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne", cioè "un cuore vivo". Ma non possiamo approfondire adesso questo discorso, come faremmo invece se affrontassimo specificamente la questione politica.

l'indicativo di Dio come imperativo per Israele

Tornando al nostro discorso, l'indicativo di Dio (Dio ha amato, Dio ha liberato, Dio ti ha dato questa terra, Dio è amore gratuito, amore fedele - chesed we-'emet), diventa l'imperativo per Israele. Ogni soggetto, grazie al cuore di carne donato, è chiamato a mettere a disposizione degli altri le proprie mani, la propria intelligenza e, poiché parliamo di ospitalità, i propri spazi.
A questo proposito voglio leggervi alcune frasi di un mio intervento fatto 30 anni fa in un seminario a Mantova sull'emarginazione.
"Non c'è differenza essenziale tra l'amore con cui vado all'emarginato e l'amore con cui vado al coniuge, con cui la madre va al figlio e con cui anche l'amico va all'amico. Ognuno infatti nella sua alterità da me, richiede da me quella novità di rapporto che richiede l'emarginato. All'emarginato non posso andare attratto dalle sue qualità, se voglio costruire un rapporto vero, che non si disintegri. L'andare all'emarginato non è se non una delle forme, la più visibile, di quell'amore di dono che siamo chiamati ad esercitare ogni volta che andiamo verso chiunque altro nel bisogno. La sostanza cristiana (oggi direi, la sostanza biblica) del nostro rapporto con gli altri è raggiungerli nella loro alterità e, a partire di lì, ricuperare e alimentare le dimensioni dell'eros".(3)
L'assenza di una differenza essenziale nell'amore in questi vari tipi di rapporto, dipende dal fatto che mi trovo sempre di fronte ad un altro, ad un'alterità, che fa di ogni essere umano un essere di bisogno. Dietro a tutti i nostri bisogni, c'è un bisogno ontologico. È evidente se si prende in considerazione il bambino. Erasmo da Rotterdam dirà che l'uomo impiega molto tempo a diventare adulto, perché è nato bisognoso di amicizia. Anche quando diventa adulto continua ad essere bisognoso di amicizia.
Non voglio dire che il movente del matrimonio debba essere l'agape. Evidentemente, di solito è l'eros, normalmente infatti ci si innamora. Ma questo non basta per costituire quell'unità di cui nella bibbia si dice "E l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola"(4) L'eros, cioè l'amore di identità, non viene cancellato, ma viene sbalzato dalla sua centralità, viene assunto e promosso. La promozione minima è quella che viene data nei comandamenti. Prendiamo il quarto comandamento: onora il padre e la madre. Se fosse sempre spontaneo onorare il padre e la madre, non ci sarebbe un comandamento a questo proposito. I comandamenti sono il dettato dell'alleanza, sono l'amore comandato, sono l'amore dovuto. Oppure prendiamo il sesto, che non è "non commettere atti impuri", ma è "non commettere adulterio", cioè: mantieni quella fedeltà che esprime, anche nel rapporto, la fedeltà di Dio. Voi sapete che il matrimonio è nei profeti il simbolo maggiore per esplicitare il rapporto di Dio con Israele. Poiché Israele diventa una sposa adultera, fedifraga (segue altri dei, ognuno agisce per i propri interessi, non vive la fede, non vive l'amore), Dio interviene, le sottrae quello che ha, ma al fine di reintegrarla come sposa nel rapporto coniugale, che va vissuto, come si dice in Osea, secondo l'amore, il diritto, la benevolenza. Vale a dire secondo quelle modalità che solo Dio con la sua natura dimostra. E l'indicativo di Dio diventa l'imperativo per Israele.

una tesi che nasce dall'esperienza vissuta a Fiesole

Concludo, parlando dell'esperienza di ospitalità che con la mia famiglia ho fatto a Fiesole per quasi trent'anni. Lo faccio anche sollecitato dalle domande che mi avete rivolto a questo proposito all'inizio di questo incontro .
Verso la fine degli anni '70 eravamo andati a stare in una casa situata in un punto di Fiesole molto panoramico, di proprietà di un ordine religioso. Nel rispetto del testamento fatto dalla famiglia donatrice a favore di questo ordine, abbiamo organizzato una serie di attività culturali, di incontri, di seminari, e abbiamo anche praticato l'ospitalità, per persone che avevano bisogno di un alloggio per un certo periodo (una settimana, un mese, un anno, due anni..., avevamo 4 camere). Soprattutto dal '90 in poi abbiamo avuto prevalentemente extracomunitari. Nel 94, a Natale, abbiamo fatto una cena con alcuni di quelli che erano stati ospitati nei primi quattro anni, e che erano ancora ritrovabili. C'erano persone da quattro continenti. Ci mancava ancora un australiano, ma è arrivato dopo!
Mia figlia è rimasta a Fiesole con noi per 24 anni (dai 5 ai 28-29). Ora abita a Caserta, dove, laureata in psicologia, da circa cinque anni opera come volontaria, con grande passione. Nella sua tesi in psicologia sull'emigrazione, intitolata "Problematiche socioculturali e dinamiche relazionali nelle società multietniche", dapprima presenta le posizioni di alcuni sociologi e antropologi, e poi, nell'ultimo capitolo, riferisce di un'esperienza personale. Racconta cioè la propria esperienza fatta nella nostra casa di Sant'Apollinare, a Fiesole. Nelle prime pagine delinea i tratti generali, poi riferisce di alcuni casi particolari. E infine trae le sue considerazioni, che vi leggo:
"La mia tesi, che non è nata a priori per essere poi sottoposta al processo di falsificazione per verificarne la veridicità, nasce a posteriori dalla rilettura di 25 anni di convivenze reali, ed è che non sono le differenze culturali e religiose a costituire elementi differenziali nella convivenza, o elementi di difficoltà per la costruzione di un rapporto e di una comunicazione, ma sono questioni di temperamento, di caratteri, di storie personali, del momento particolare di vita attraversato nel momento dell'incontro o, in alcuni casi, di subculture, intendendo con tale termine, tutta una serie di atteggiamenti, comportamenti ed emozioni, legati ad un particolare ruolo inserito in un dato contesto. E che non necessariamente si deve a caratteri culturali, etnici o razziali."
A questo punto sono portati due esempi che formano una sola tipologia. Si parla di un prete indio e di un ex missionario italiano, tutti e due molto attivi nel loro paese, persone che hanno avuto nel loro ambiente un ruolo di prestigio, ma che per questioni di temperamento o per il fatto di essere in crisi, assumono atteggiamenti difficilmente accettabili. A questo si riferisce mia figlia quando parla di "subcultura".
Così prosegue la tesi: "Il problema dell'alterità, è davvero il problema dell'altro che viene o non è forse il problema di chi sta al di qua della frontiera? È di chi è l'altro o piuttosto di chi è l'io? L'accoglienza all'altro, al diverso, è, a mio avviso, la forma più visibile di quella possibilità di costruire rapporti interpersonali non fondati in ultima istanza sull'eros. Certo, nutriti di eros, tessuti di eros, ma non da esso ultimamente animati, perché se no è un'affinità elettiva sulla cui base in realtà naufragano anche i rapporti più naturali e originali tra gli uomini (tra gli esseri umani), ossia quelli familiari. Per questo è a partire dalle famiglie che si dovrebbe lavorare per costruire ponti sulle frontiere e rendere le nostre case il punto di connessione tra il biologico, l'affettivo e l'etico, trasformandole in uno spazio che non sia chiuso al suo interno sull'onda di una fortunata sintonia, dato non scontato all'interno di legami primari come quelli familiari, o di una conveniente soddisfazione di egocentrismo, bensì diventi grembo di reciproca ospitalità, ospitalità che non sia la ricerca di sé nell'altro, ma la vera accoglienza dell'alterità. Se riusciamo a fare questo con l'alterità rappresentata dal partner, dal proprio figlio, dal proprio fratello, sarà più semplice forse accogliere anche l'alterità portata da chi viene da lontano, con la pelle di un altro colore, usi e tradizioni diversi dai nostri, una lingua a noi sconosciuta e una religione a volte che non coincide con la nostra."

Ho chiesto a mia figlia se fosse ancora convinta di quello che aveva scritto, e lei mi ha detto che lo è ancor più di allora, perché i cinque anni in cui ha praticato, l'hanno convinta che è davvero così.

Note
(1)
Pensate a
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera
di Salvatore Quasimodo

(2)
Era già capitato che Dio prestasse orecchio ad un grido, ad un pianto: quello di Ismaele, che con la madre Agar, la schiava di Abramo e Sara, era stato allontanato e nel deserto rischiava di morire. Ma Dio ascolta il suo pianto, indica alla madre il luogo dove trovare l'acqua e le dice che dal figlio nascerà una grande discendenza. Sapete che i musulmani si considerano figli di Ismaele, cioè del primogenito. Per Israele, invece, va bene essere i figli del secondogenito, perché ritengono di essere i discendenti di una precisa scelta divina.

(3)
Tornato a Mantova per una conferenza, tre o quattro anni dopo questo seminario, una signora mi ringraziò per queste affermazioni, che avevano sciolto i dubbi dell'allora fidanzato, che non si decideva a sposarla, forse perché viveva una tensione tra la sua fede (che forse lo spingeva a farsi prete) e la scelta matrimoniale, e che, attraverso quelle parole, aveva compreso che il matrimonio non era solo una questione di eros, ma anche di agape.

(4)
Adesso non voglio affrontare le questioni del divorzio, qui sto parlando dell'utopia. Nella realtà bisogna coniugare l'utopia con il realismo. È evidente, ad esempio, che siano necessarie delle leggi come quella sul divorzio o la 194, per poter venire incontro a situazioni che, non disciplinate, avrebbero dato il peggio.

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