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La prassi messianica

sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 22-23 marzo 1980

Il messianismo nella tradizione cristiana è stato interpretato o in senso spiritualistico (quasi tutta la tradizione esegetica: le promesse messianiche si realizzano nell'interiorità del credente o nella vita sacramentale della chiesa) o in senso sociale e politico (si pensi all'attuale teologia della speranza, alla teologia politica e alla teologia della liberazione)

le promesse messianiche nell'antico testamento

Jahwé, re di giustizia

Nel gruppo dei "salmi del Regno" un motivo torna come nota dominante: la regalità di Jahwé si esprime come esercizio di giustizia. (v. Sal 96, 10.13). Sono salmi cantati in contesto liturgico nel periodo postesilico.
La concezione del re come garante della giustizia è comune, a quei tempi, a tutto il medio oriente
e rinvia all'esperienza fondamentale che Israele ha fatto di Jahwé che soccorre i bisognosi: "Gli israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì fino a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli israeliti e se ne prese pensiero" (Es 2,23-25)
Questa esperienza deve essersi fissata nella memoria come la definizione stessa di Jahwé, come risulta dal piccolo credo di Israele (Deut 26,6-8). Dio entra in scena al grido degli oppressi. Ma l'intervento di Dio non può avere sempre il carattere della gesta dell'Esodo. Il luogo quotidiano della giustizia non è il miracolo ma una legislazione giusta a favore di chi è nell'indigenza.

i re di Israele: fallimento e proiezione ideale

Il re, con l'avvento della monarchia, diventa il garante della legge e delle sue esigenze di giustizia a favore di chi ha maggiormente bisogno. Ma le attese riposte sul re andarono deluse: il re, dopo l'esperienza davidica, si fa strumento di oppressione e di sfruttamento del popolo. (Ger 22,13ss.) Dallo scarto tra le attese e la realtà dei fatti nascono le primi immagini messianiche: "Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse..." (Isaia, 11,1s). La visione profetica di Isaia vede riscattata nel futuro la miseria del presente.

l'immagine dei tempi messianici

Dopo Isaia altri profeti, mentre denunciano e minacciano le conseguenze disastrose dell'infedeltà alla legge, annunciano anche un mondo dove la realtà sarà come l'uomo la sogna nei suoi momenti migliori, "un mondo ricco di ogni bene senza alcun male". Sarà la pace universale e senza fine, tra gli uomini, con la natura e nella natura. Insieme con la terra fiorirà il cuore umano, producendo quelle opere di giustizia la cui mancanza ha causato il crollo di Israele: "Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne" (Ez 36, 26s.).
I tempi messianici saranno dunque tempi di riconciliazione universale con Dio, tra gli uomini e con la natura.

il "luogo" dei beni messianici

Nella prima fase della profezia non ci sono determinazioni spazio temporali: la salvezza è oltre la punizione che sta per arrivare. Nel buio dell'esilio la promessa dei beni messianici ha un carattere di urgenza temporale (deutero-Isaia 40-45): L'avvento della giustizia e della salvezza di Dio sarà il ritorno a Gerusalemme, un nuovo esodo dalla schiavitù alla libertà.
Ma gli oracoli di salvezza saranno smentiti, riaffiorano le ingiustizie di prima dell'esilio. Si viene a delineare una divaricazione del sentimento messianico. Da una parte l'attesa è collocata oltre la storia, con la fine del mondo, la sua distruzione e la ricreazione di cieli e terre nuove (apocalittica). Dall'altra l'attesa per il domani si trasforma in attività per l'oggi: i beni messianici non cadranno dal cielo all'improvviso, ma devono maturare nell'esistenza quotidiana, come frutti sull'albero di una condotta buona e retta. La giustizia di Dio si rivela per chi pratica la giustizia ogni giorno (Isaia 58,6-11). La scoperta del quotidiano sarà fondamentale per l'autocoscienza messianica della comunità cristiana.

L'alleanza: il rapporto strutturale tra la legge e il bene

L'alleanza del Sinai rappresenta il momento centrale e unificante degli eventi fondanti, tra la liberazione della schiavitù e l'entrata nella terra promessa. Il raggiungimento della terra promessa non è automatico: è legato alla condizione che Israele accetti il vincolo con Jahwé (alleanza), con l'osservanza della legge. Perché la liberazione dall'Egitto pervenga al suo compimento nella terra promessa è necessario il passaggio attraverso la libera risposta di Israele all'iniziativa del suo Dio.
E la fedeltà all'alleanza (osservanza della legge) rimane la condizione perché possa godere del permanere sulla terra promessa. La terra non è mai raggiunta una volta per tutte.
Israele ha fin dall'inizio la consapevolezza del rapporto tra far bene e stare bene, tra volontà buona e felicità. (Dt 8,7-9; Lv, 263-6). C'è il senso vivo che la terra resterà sempre un futuro da attendere e da conquistare con la fedeltà all'alleanza. Il dono totale di Dio a Israele è la terra e la legge. La terra è buona perché è ricca di tutti quei beni di cui Israele ha bisogno per vivere. La legge è buona perché indica come far sì che quei beni vengano distribuiti secondo giustizia.
La benedizione, la terra promessa, la vita - dono di Dio - rimane costantemente una possibilità, la cui realizzazione effettiva è legata alla libertà dell'uomo.
Qui sta il senso della storicità acquisito da Israele (ha scoperto il tempo storico contro il tempo ciclico): non perché abbia il senso della storia universale in cammino verso uno sbocco definitivo, ma perché percepisce la propria esistenza sempre rimessa in discussione dalle proprie scelte morali, dalla risposta data all'alleanza di Jahwé. Storico è qui sinonimo di aperto: non risultato necessario di una concatenazione di cause naturali, ma frutto di una libera adesione a una libera elezione

L'Eden: inizio e fine

Si può così capire il carattere eziologico della pagina dell'Eden e della caduta originale, pagina nata dalla riflessione sulla presenza del male nel mondo e dalla domanda sulla sua causa. La risposta è che il mondo è uscito dalle mani di Dio perfettamente buono e che il male vi è stato introdotto dalla colpa dell'uomo. Adamo è il simbolo di ogni uomo, dell'intera umanità che con le proprie scelte corrompe il mondo buono che continuamente Dio gli offre.
Quindi il racconto di Genesi è la dilatazione a livello universale dell'alleanza tra Dio e Israele: Dio dona il bene come possibilità oggettiva e piena, ma l'uomo può accedervi solo osservando il suo comandamento. Ma come Israele ha tradito l'alleanza ed è stato deportato dalla sua terra, così l'umanità rifiuta l'ordine della creazione ed è cacciata dall'Eden.
Le immagini dell'Eden sono le immagini dei tempi messianici proiettate all'indietro: natura rigogliosa, amicizia tra gli uomini e con gli animali, comunione con Dio. Si potrà dire così che i tempi messianici sono l'Eden ritrovato (Ez 36,35; Is 51,3).
Ma né l'Eden è un passato remoto, né i tempi messianici un futuro remoto: l'uno e l'altro sono immanenti alla condizione esistenziale del quotidiano.
L'Eden perduto è la consapevolezza che la scelta tra bene e male, tra vita e morte, tra schiavitù e terra promessa ha alle spalle tutta una serie di scelte negative. L'era messianica è la consapevolezza che le scelte negative del passato non precludono il futuro, perché Dio rinnova la sua promessa.

La "novità" dei profeti

È proprio del profetismo annunciare che quel tempo aperto è stato chiuso dalla mancata risposta di Israele, ed è nuovamente riaperto dalla potenza misericordiosa di Jahwé.
I tempi messianici, la terra promessa, continuano ad essere affidati alla buona volontà del popolo: il ritorno da Babilonia deve trovare la sua verità nel quotidiano della comunità giudaica a Gerusalemme. Il rilancio della promessa viene presentato dai profeti come una novità: la seconda promessa è affidata ad un "cuore nuovo" di Israele, frutto dello Spirito di Jahwé che diventa nel popolo principio interiore di nuova vita (Ez 36,25ss.; Is 32,15-20; Ger 1,31-34). Gli oggetti della promessa rimangono gli stessi, ciò che cambia è la condizione della sua realizzazione (lo spirito di Jahwé). La novità della promessa profetica è il perdono divino, il dono dello spirito, la conversione del cuore, che non garantirà una risposta infallibile, ma la capacità sempre rinnovata di rispondervi.

il soggetto messianico: i "poveri di Jahwé"

La terra promessa, con i suoi beni, era il dono di Jahwé e doveva essere la conquista quotidiana di Israele. Ma la volontà di possesso di quei beni che Jahwé aveva donato era stata la causa del fallimento, con l'ingiustizia e l'idolatria. evidente che la volontà di possesso generi l'ingiustizia, ma perché genera anche l'idolatria?
In Canaan erano diffuse le religioni naturalistiche che divinizzavano le forze vitalistiche della natura (Baal...): i buoni raccolti non erano solo frutto di un buon terreno e di una lunga esperienza agricola ma anche di una religione adatta. Israele è fortemente tentato e giunge ad un sincretismo che mette insieme Jahwé e Baal.
I beni della terra promessa diventano così occasione per rompere l'alleanza e per rendere iniqui i rapporti sociali.
I profeti colgono l'ambiguità dei beni che, nonostante la loro origine sia la liberalità divina e la loro destinazione la gioia di tutti nell'equa ripartizione e condivisione, possono convertirsi in oggetto di brama: brama di accumulo contro la condivisione, brama di sicurezza e di dominio contro la coscienza del loro carattere di dono divino.
Di qui sgorga l'intuizione più rivoluzionaria di tutto l'Antico Testamento: il vero popolo di Dio, destinatario dei beni messianici, sono "i poveri" effettivamente e volontariamente tali (coloro che hanno rinunciato alla brama di possesso) (Sof 3,11-13). Non solo i poveri sono i privilegiati di Jahwé, ma diventano i destinatari delle promesse messianiche.
Permane l'ambiguità dei beni, e pertanto è necessario aprirsi alla loro intenzionalità positiva di dono di Dio e di condivisione con gli altri e chiudersi alla loro tentazione di sicurezza e di accumulo.
Questo comporta per i beni goduti un atteggiamento soggettivo di libertà e una misura oggettiva di sobrietà; la coscienza che essi sono dono e non possesso e la effettiva partecipazione così che tutti ne abbiano il necessario e nessuno il superfluo.
Il "popolo umile e povero" (Sofonia) non è più solo un dato di fatto, superato dall'avvento dei tempi messianici, ma un ideale e un progetto che renderà possibile quell'avvento. Da destinatari dei beni di Jahwé i poveri sono diventati "i soggetti", forza portante e condizione permanente.
Il cuore nuovo di Israele (spirito di Jahwé) è questo resto, questa comunità di poveri capaci di vivere dei beni della creazione, dei beni messianici.

la struttura del messianismo

Primo elemento del messianismo (l'oggetto del messianismo) è un'invariante antropologica: la descrizione dei beni messianici, dove regnano l'armonia e l'abbondanza, l'integrità e la pace, trova riscontri in tutte le culture. Sono creazioni del desiderio.
Il secondo elemento riguarda la realizzazione. Qui il desiderio è impotente, secondo la bibbia. C'è il gioco di due libertà: Dio che dona, l'uomo che accoglie il dono obbedendo alla sua legge. C'è un rapporto inscindibile tra la soggettività del "cuore" buono e l'oggettività del "mondo" buono, tra la giustizia e la pace. Il bene messianico non è frutto di congiunture naturali, né di un miracolo dall'alto, né di una trasformazione politica della società, ma dalla quotidiana militanza morale del cuore giusto.
Terzo elemento è la storia di peccato: i beni messianici fioriscono sul suolo della colpa e della pena, della possibilità di bene colpevolmente rifiutata (Eden)
Quarto elemento è la riapertura della promessa dei beni messianici: l'etico della giustizia umana è rifondato dal teologale della misericordia di Dio e della sua potenza creatrice. Nasce così l'uomo nuovo, il povero di Jahwé, la comunità degli umili, destinati ad essere giorno per giorno gli operatori della pace messianica.
Utopia - etica - coscienza di peccato - Spirito come realtà del perdono divino e dell'uomo nuovo, sono le componenti del messianismo biblico.
Il futuro del desiderio, il futuro aperto (responsabile), l'assenza di futuro, il futuro ritrovato.
Ma l'ha davvero ritrovato?

Gesù

La comunità cristiana postpasquale ha confessato Gesù come messia, l'inauguratore dei tempi di pienezza.

l'annuncio del regno di Dio

Il tema centrale della predicazione di Gesù è l'annuncio che il regno di Dio è arrivato. Sicuramente si riallaccia all'antica ideologia di Jahwé re della terra e dei poveri, alla sua fallimentare storicizzazione nei successori di Davide, alla proiezione profetica nel re ideale e nel suo futuro regno di pace.
Gesù inoltre compie dei gesti lasciando intendere che il Regno è presente in essi.

Dio signore dell'uomo

Il regno che viene per Gesù è Dio stesso nella sua sovranità sull'uomo. Di qui l'invito alla conversione al Regno che viene, cioè a Dio. Di qui la radicalità del discorso della montagna.
Il regno è l'evento stesso delle parole di Gesù che invitano alla conversione. In questo senso chi incontra Gesù è alle prese con Dio e deve prendere posizione (Mt 10,32-39).
Gesù porta a piena consapevolezza ciò che era implicito nel primo comandamento di Israele: "Ascolta Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è uno solo..."
Le parole di Gesù non affermano in astratto la signoria di Dio, ma la riattivano.

a tavola con i peccatori

Questo vuol dire che nelle parole di Gesù Dio offre all'uomo il perdono, cioè il cuore nuovo, la capacità ricreata di obbedienza e di alleanza. Ogni volta che Gesù mette l'uomo davanti all'esigenza di Dio su di lui, nelle sue parole è contenuta l'offerta di perdono, la possibilità di conversione. Nell'offerta di perdono ai peccatori c'è il ripristino della regalità divina su di loro e quindi la loro vocazione all'obbedienza radicale.
In alcuni testi è prevalente la figura dell'obbedienza (discorso della montagna) in altri del perdono, come nei pasti presi con i peccatori (Mc 2,15-17, Mt 9,10-13; Lc 15,1-2). In questi pasti si concentra il senso complessivo della sua missione: un universo umano risanato (Mt 9,12), una comunione ristabilita, un orizzonte riaperto.
Lo scandalo degli scribi e dei farisei non è il risentimento per il mancato rispetto di convenzioni sociali: Gesù sedendosi a tavola con i peccatori non compie un gesto di indulgenza o di esaltazione del peccato, ma afferma in modo efficace che quel peccato non esiste più, che si passa dalla morte alla vita.
Si pensi alle tre parabole del perdono a commento del suo pasto con i peccatori (Lc 15, 3-32). Il miracolo del perdono che egli offre è la radice dei miracoli.

"...i ciechi vedono..."

Siamo al centro della logica messianica, non promessa ma realizzata nella pratica di Gesù. Cuore buono e mondo riuscito sono indissociabili, sono radice e frutto.
Idolatria e ingiustizia hanno lacerato il tessuto sociale, perdono e conversione sono l'inizio della "pace" annunciata dai profeti. La riconciliazione del Creatore con la creatura va dal perdono alla cancellazione della sofferenza.
La riscoperta della dimensione terrena del messianismo, fatta dalle teologie a contatto con la miseria e con l'oppressione, è un ritorno a quella passione per l'uomo che percorre le pagine evangeliche (trasfigurata dalle letture spiritualistiche), che però non bisogna separare dalla base che la alimenta e cioè l'amore del Padre che in Gesù riconcilia a sé il peccatore. Nel peccato e nella malattia Gesù vede all'opera lo stesso principio, la potenza del male, la manifestazione del caos primordiale, a cui l'uomo ha riaperto la porta.
Agli inviati del Battista che gli chiedono se è il messia, Gesù risponde indicando le proprie opere: "I ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella..." (Mt 11,4-5). la reintegrazione del corpo umano sofferente. Ma il corpo umano è il punto di incontro tra libertà e mondo: guarire un corpo in nome di Dio è anche far sprigionare una libertà perché sposi la giustizia e si metta al suo servizio (come la suocera di Pietro - guarita - si mette al suo servizio) (Mc 1,30s.)

"Beati i poveri..."

Se si riduce il Regno alla sua dimensione terrena e corporale, la beatitudine ai poveri promette loro di ricevere in ritardo quello che i ricchi hanno avuto da sempre: abbondanza, salute, ricchezza...
Se il Regno si riduce al perdono, allora significa che c'è una frattura inconciliabile tra cuore riconciliato e corpo non riconciliato, tra bontà e malattia, tra giustizia e miseria. Sarebbe la liquidazione della creazione e della sua ripresa messianica.
Se il regno di Dio per Gesù è il cuore nuovo chiamato a maturare il frutto di un mondo nuovo, la beatitudine dei poveri in quanto destinatari del regno significa che essi sono chiamati a far rivivere la creazione, a essere quel "popolo umile e povero" (Sofonia) che è il soggetto dei tempi messianici.
La povertà evangelica non è l'esaltazione del negativo (indigenza) come tale, né una semplice metafora (povertà spirituale); è la promozione della indigenza a condizione e a soggetto di una nuova qualità della vita, di una rivalutazione della sostanza dei beni terreni, del loro carattere di doni da ricevere e da condividere.
La prima attuazione della beatitudine è la comunità dei discepoli che si forma attorno a Gesù: chiamati a vendere quanto hanno per darlo ai poveri, ricevono la promessa di un centuplo in questa vita.

la croce e il pane

Tra l'azione del messia e la sua passione non c'è contraddizione ma pieno dispiegamento. Gesù assume in prima persona le esigenze del Regno. Non solo le annuncia, ma le accoglie in modo radicale. Egli è il primo dei poveri a cui il Regno è destinato. La morte di Gesù è il punto supremo della povertà come legge messianica. Nella sua radicale obbedienza a Dio può fiorire il Regno al di là della morte e al di là della Palestina.
Sul seme sepolto fiorisce la spiga, sulla croce del povero spunta il pane che "i poveri mangeranno fino a esserne saziati" (Sal 22,27)

la chiesa comunità messianica

La predicazione della primitiva comunità cristiana non è il regno, ma Gesù messia e signore. Non è un cambiamento di sostanza. Gesù è in rapporto al Regno non per averne parlato, ma per averlo iniziato.
Con la morte e resurrezione di Gesù lo spazio regale si allarga all'infinito: il perdono è offerto a tutti, l'obbedienza di fede diventa possibilità per tutti, il mondo nuovo è promesso all'intera umanità. Ma tutto questo è legato alla figura di Gesù, alla sua realtà di risorto, di essere accanto a Dio, di essere solo parola di perdono e germe della nuova creazione (è il significato dei titoli di messia e signore).
Se Gesù è il messia, la comunità, che si costruisce attorno a Gesù signore, si vede promossa a nuovo Israele, a quel popolo di poveri che sono chiamati ad essere il soggetto del Regno.

tre possibilità

Questa consapevolezza di essere il nuovo Israele si è espressa anche nella chiesa primitiva in tre modi diversi.
C'è stata una concezione apocalittica del Regno (solo futuro), con una attesa impaziente e inerte della sua imminente venuta (a Tessalonica); c'è stata una concezione del Regno come pienamente realizzato entro la comunità stessa (solo presente), lasciando al suo destino di perdizione il mondo esterno (Corinto).
A imporsi è stata una terza via, la convinzione che il Regno è già presente (nella signoria di Cristo), ma non ancora compiuto (come vittoria di questa signoria sulle potenze del male). C'è così un tempo specifico della comunità messianica, dall'ascensione di Gesù, che ne inaugura la signoria, al suo ritorno.
Il "già" e "non ancora" non sono solo connotazioni cronologiche. Il "già" significa che l'uomo, raggiunto dal perdono di Dio, è capace di riscoprire la vocazione originaria del mondo e di assecondarla; il "non ancora" ammonisce che ogni realizzazione è sempre incompiuta e fragile, revocabile, mai definitiva.
La comunità scopre la storia come possibilità sempre aperta, donata da Dio agli uomini e, bloccata dalla colpa umana, riaperta da Gesù.

l'esperienza dello Spirito e i suoi frutti

Nella logica delle promesse messianiche lo Spirito era l'elemento chiave: se la pace viene dalla giustizia, la giustizia viene dalla soggettività umana rinnovata, dallo spirito di Jahwé donato all'uomo.
L'autocoscienza della comunità cristiana nasce con il dono dello Spirito a Pentecoste, che renderà i discepoli "testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria e fino agli estremi confini della terra" (Atti 1,7-8).
E lo Spirito compie a Pentecoste il miracolo della ricomposizione del mondo lacerato.
Paolo avverte che le manifestazioni più proprie dello Spirito non sono quelle straordinarie, ma quelle che scaturiscono dall'esistenza rinnovata: il suo carisma più importante è l'agape, l'amore fraterno e fattivo (1Cor 12,31ss.), il cui frutto specifico è la capacità di stabilire rapporti profondamente umani (Gal 5,22).
Dio rinnova la soggettività umana perché questa crei nuovi rapporti sociali; Dio "giustifica" il peccatore perché questi viva per la nuova giustizia (Rom 6,12ss.), lo libera perché nella libertà serva i fratelli (Gal 5,13s.).

la vita nella comunità

Gli scritti del Nuovo Testamento testimoniano abbondantemente la presenza di ombre, la divaricazione tra l'annuncio di "novità di vita" e la persistenza del "vecchio" che permea mentalità, condotte e istituzioni. Ma questo conferma lo statuto della esistenza messianica: non una condizione acquisita una volte per tutte ma una possibilità continuamente rinnovata.
L'ideale comunità di Gerusalemme presentata da Luca è una visione della prima vita comunitaria come paradisiaca, ma come dono dello spirito, come possibilità che viene da Dio.
Sarà soprattutto l'aporia della povertà a restare viva nella coscienza e nella prassi cristiane. In quanta beatitudine evangelica, essa susciterà costantemente un giudizio severo sui beni superflui e un richiamo alla fraternità vissuta nella gioia del necessario. Ma soprattutto nella povertà come scandalo sociale e religioso da sconfiggere, la cristianità troverà a lungo la forma quotidiana di realizzazione della propria vocazione messianica. Aiuto alle comunità più bisognose, soccorso alle vedove e agli orfani, assistenza ai malati e agli inetti al lavoro, visita e cura dei carcerati e degli schiavi, organizzazione dell'ospitalità per i fratelli in viaggio, tempestività di intervento nelle grandi calamità pubbliche: sono alcune voci di una pratica evangelica che ha costituito in misura rilevante lo stile delle comunità cristiane dei primi secoli.

per una definizione di prassi messianica

Il messianismo come fenomeno storico-religioso è costituito dall'ideologia regale (Jahwé interviene a favore del bisognoso), rappresentata in modo fallimentare dalla dinastia davidica, rilanciata in modo adeguato dal Messia e dal suo regno di giustizia e pace. Questa visione messianica si inserisce nella convinzione di Israele (orizzonte ontologico) che il senso della realtà dipende dall'incontro della libertà di Dio, che inscrive nel mondo un senso come possibilità, e della libertà dell'uomo a cui questa possibilità è affidata. Il senso è quindi dono e legge.
La prassi messianica in senso lato è ogni azione umana (attività politica, culturale, tecnica, assistenziale) in quanto momento dell'instaurazione del senso umano e cosmico: giustizia, pace, felicità, comunione.
In senso stretto, oltre a cooperare alla realizzazione del senso, ne mette in luce la logica (il nesso tra lo spirito di Dio, la volontà umana di giustizia e l'instaurazione del bene)
Il luogo privilegiato della prassi messianica è il quotidiano, dove l'esercizio della giustizia è una possibilità e un appello immediati e a portata di ognuno.
La comunità cristiana, in quanto popolo riunito attorno al Messia e animato dal suo Spirito, è definita dalla prassi evangelica. Suo compito specifico è la trasformazione del quotidiano, creando spazi di esistenza singolare e di coesistenza sociale dove il nesso tra cuore nuovo e mondo rinnovato sia così diretto da essere non solo efficace, ma visibile e testimoniante. Concretamente la prassi evangelica si realizza nella condivisione dei beni, in quanto in tale atto si concentra il sentimento e l'uso della terra come dono di Dio per tutti. Ciò comporta da una parte la povertà vissuta nel segno positivo della creazione rinnovata e distribuita, dall'altra la povertà debellata nella qualifica negativa di effetto della brama e dell'ingiustizia.
Quindi luoghi di attuazione specifica della comunità cristiana non sono l'interiorità o la politica. L'interiorità non ha una vocazione alla trasformazione del mondo, che è essenziale al messianismo. La politica, operando su scala impersonale, può promuovere la giustizia oggettiva, non quella giustizia e bontà dei rapporti intersoggettivi che crea la pace messianica, il mondo veramente riconciliato.
La prassi messianica, soprattutto nella sua figura evangelica, è la lotta condotta in nome di Dio e nello Spirito del suo Figlio, per riconquistare quel frammento di Eden che il "qui" e "oggi" della nostra vita continuamente ci offrono come possibilità e responsabilità.

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