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Pensare dentro la Bibbia

Un itinerario

sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 9 febbraio 2008

Fedele al titolo: "Pensare dentro la Bibbia - un itinerario", vi farò il racconto dello svolgimento del mio incontro con la Bibbia, sia come teologo, almeno da un certo punto in poi, sia come cristiano. Ovviamente vi parlerò dell'aspetto "pubblico", degli aspetti visibili della mia vita che sono stati segnati dall'incontro con la Parola di Dio. Cosa sia il mio incontro con la Parola di Dio nel profondo, lo sa soltanto Lui, perché soltanto Lui "scruta le reni e il cuore" (Geremia 11,20; Salmo 7,10; Sapienza 1,6).

Primi incontri con la Parola di Dio

Alle elementari (la parabola del figliol prodigo)

Il primo ricordo che ho di una forte impressione lasciatami da una pagina biblica risale all'età di 9 o 10 anni. In un altare laterale della mia parrocchia d'origine (Belgioioso in provincia di Pavia), una maestra elementare che era anche catechista raccontò la parabola del figliol prodigo. Questo racconto mi commosse e da allora mi è sempre rimasto nel cuore. Posso dire che è il mio primo ricordo del Vangelo, e vorrei anche che fosse l'ultimo, cioè mi auguro di arrivare al momento in cui tornerò, come il figliol prodigo (siamo tutti un po' figli prodighi) alla casa del Padre, a ricevere il suo abbraccio. Chiudendo così il cerchio.

Alle medie (lettura di racconti biblici)

Del mio primo anno in seminario (avevo 10 anni ed ero in prima media) ricordo le letture di avvenimenti biblici dal libro "La Bibbia del fanciullo" (che casualmente ho ritrovato l'anno scorso grazie a mia sorella). Si trattava di storie come, per esempio, quella di Giuseppe venduto dai fratelli, con le successive vicende in Egitto, le sue interpretazioni dei sogni del faraone, ecc. Naturalmente, ciò che maggiormente mi colpiva e mi rimaneva impresso di quei racconti erano gli elementi drammatici.

In seminario, al liceo (predilezione per autori che si basavano su testi paolini)

Del periodo del seminario, non ricordo di avere ascoltato della predicazione biblica.
Ci venivano proposte prevalentemente predicazioni di carattere devozionale.
Però negli anni del liceo avevo una predilezione per due autori, nei cui scritti sentivo una spiritualità ricca di teologia, alimentata soprattutto dai testi paolini. Non era più il predicozzo, ma l'aprirsi di un mondo... Uno era il benedettino belga Dom Columba Marmion, con il suo Cristo vita dell'anima, l'altra era la suora carmelitana Elisabetta della Trinità (adesso beata). Rispetto a Teresa di Lisieux, in cui sentivo una spiritualità pervasa da intense esperienze affettive, in questi due autori trovavo una dimensione teologica legata alla meditazione della Parola di Dio, in questo caso soprattutto di Paolo.

Nel periodo della "teologia" (uso strumentale dei testi biblici a supporto di tesi teologiche)

Del periodo degli studi di teologia (che ho iniziato in seminario e avrei continuato e concluso presso i Gesuiti), ricordo l'uso della Bibbia come antologia di testi a supporto di tesi teologiche. Col senno di poi, posso dire che c'erano effettivamente delle tesi che avevano un loro fondamento biblico (ad esempio, la tesi "Dio è creatore del mondo", aveva un chiaro riferimento biblico nel libro della Genesi), ma per altre tesi il rapporto con la Bibbia era molto indiretto o semplicemente fondato su un equivoco, soprattutto per il fatto che quelle tesi erano nate all'interno di un mondo il cui linguaggio era il latino, e si basavano quindi sulla traduzione latina della Bibbia, la "vulgata". Vi faccio due esempi. Per quanto riguarda la tesi del matrimonio come sacramento (tesi cattolica, perché i protestanti accettano solo battesimo ed eucarestia come sacramenti), la prova scritturistica (che era normalmente seguita dalla prova patristica e qualche volta dalla prova razionale) si basava sul capitolo 5 versetto 32 della lettera di Paolo agli Efesini, dove in latino troviamo: "Sacramentum hoc magnum est, ego autem dico in Christo et in Ecclesia". Cioè l'unione dell'uomo e della donna viene detta "sacramento" grande in Cristo e nella Chiesa. Ma "sacramentum" traduce il greco "mysterion", che le traduzioni di oggi rendono con "mistero". A sua volta "mistero" non significa qui qualcosa che supera la ragione (come quando si parla del "mistero della Trinità"), ma qualcosa che ha attinenza con il disegno prima nascosto in Dio e ora manifestatosi in Cristo Gesù: la volontà divina di chiamare tutti gli uomini alla salvezza. L'espressione paolina non riguarda pertanto il carattere sacramentale del matrimonio.
Un altro caso, più raffinato, concerne il riferimento biblico della tesi che afferma che il Figlio, seconda persona della Trinità, viene "generato" dal Padre. Non si tratta evidentemente di una "generazione biologica", ma, si sosteneva, di "generazione intellettuale", affermazione che mi riportava scherzosamente alla memoria il racconto mitologico di Minerva che esce dalla testa di Giove. Il riferimento scritturistico in questo caso era il prologo di Giovanni, quello che si leggeva sempre alla fine della messa tridentina: "In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum". In latino, "verbum" vuol dire "parola"; ma nel latino medioevale impiegato in filosofia "verbum" significava "l'idea, il concetto" (tra l'altro, "concetto" vuol dire "concepito"). In questo modo si sosteneva che il Verbo è l'idea in cui il Padre si specchia. Più tardi mi sarei accorto che non si poteva fare questo riferimento partendo dal latino medioevale, perché bisognava risalire all'originale greco "En archè en o logos" , e cogliere il significato della parola "logos"; che a sua volta deriva probabilmente da dabar, la parola creatrice di Dio. Questi sono due esempi fra tanti altri che si potrebbero portare.

Cento tesi, ma non una che dicesse "Dio è amore"

Al termine degli studi di filosofia (3 anni) e di teologia (4 anni), ho fatto quello che si chiama l'"examen ad gradum", che permetteva di diventare gesuita professo e che era un po' la sintesi di tutti quegli anni di studio, raccolta in cento tesi. Pensate che in quelle cento tesi, che sintetizzavano tutta la formazione intellettuale del gesuita (ma lo stesso valeva di ogni altro curriculum teologico), non ce n'era neanche una al cui centro vi fosse Dio come amore. Mi meravigliò e mi rallegrò quindi la lettura, allora, di un libro di un domenicano (padre Héris, se ben ricordo), dal titolo "Dio è amore", che ne parlava facendo riferimento alla Bibbia e poi anche a San Tommaso.

Bibbia e spiritualità ignaziana

Una parentesi, a proposito dei due anni di noviziato dai Gesuiti, ricordo che ci si rifaceva a quel tanto di Bibbia che serviva per nutrire la spiritualità ignaziana, e ci si teneva a dire che nelle sue visioni Ignazio aveva capito tanto di Dio da non aver più bisogno delle Scritture.

La scoperta del mondo della Bibbia

Ma nel frattempo, durante il triennio di filosofia a Gallarate, ebbi l'occasione di fare la scoperta del mondo della Bibbia.
Due furono gli elementi principali che portarono a questa scoperta.

1. L'enciclica "Haurietis Aquas": presentazione dell'amore di Dio attraverso testi biblici

Il primo fu dovuto al fatto che facevo parte di un gruppetto di studenti gesuiti che curavano in modo particolare la devozione al cuore di Gesù e che proprio in quel periodo (1955 o 1956) uscì l'enciclica "Haurietis Aquas" (Attingete le acque), che parlava del cuore di Gesù non più sul piano devozionale, ma presentando l'amore di Dio attraverso testi biblici a partire dall'Antico Testamento. Per noi fu la scoperta di un mondo. Questa raccolta di testi, fatta in maniera semplice, mostrava come già nelle scritture ebraiche il centro della rivelazione di Dio è la rivelazione del suo amore, che tutto questo si concentra nella vita di Gesù, e che il cuore diventa il simbolo di questa concentrazione dell'amore di Dio nella vita e nella storia di Gesù. Erano testi fondamentali, che però noi non avevamo mai veramente sentito.

2. La pubblicazione e lo studio della "Bible de Jérusalem"

Il secondo elemento, ancor più importante, fu la pubblicazione in volume unico (sempre alla metà degli anni '50) della Bible de Jérusalem (quella che circola in Italia dal almeno 35 anni, con la traduzione della CEI ma con le note della "Bibbia di Gerusalemme"), che ebbi in regalo da un amico. Ci sono delle note esplicative, che si riferiscono a singole parti, versetti, ecc., come in ogni edizione della Bibbia, ma ci sono anche delle note chiave, cioè delle note tematiche su temi fondamentali, come Dio amore, Dio sposo, Dio padre, Dio madre, Dio pastore, lo Spirito, o simboli come la vigna, l'acqua, il fuoco, ecc. Grazie alla presentazione di questi temi, ben sviluppati, con le citazioni dei passi principali, questa lettura per me fu davvero la scoperta della Bibbia come un mondo, e non come un'antologia di testi e, peggio, di singoli passi decontestualizzati.

Il canto dei salmi

Un altro elemento che mi permise di avvicinarmi alla Bibbia, in particolare ai salmi, fu la pubblicazione anche in Italia, in quegli anni, di un libretto del gesuita padre Gelineau, che permetteva di cantare i salmi anche in lingua italiana, con melodie e ritmi facilmente assimilabili. Anche a motivo della mia inclinazione per la musica e per la presenza fra i miei compagni di studi di persone come Gino Stefani ed Eugenio Costa, che sarebbero in seguito diventati uno professore di musicologia al DAMS di Bologna, l'altro uno dei più importanti promotori liturgici in Italia, la possibilità di cantare i salmi permise un ulteriore avvicinamento alla Bibbia.

Un primo approccio critico

Con tutto ciò, non ero però ancora arrivato a quella che sarebbe stata una lettura critica della Bibbia.
Certo, la Bible de Jérusalem aveva già degli elementi critici. Per esempio, nel Pentateuco, cioè i primi cinque libri della Bibbia, distingueva le tre fonti (elohista, jahvista e sacerdotale). Ma su altri punti era ancora timida. Vi faccio un esempio.

L'idea di un Dio creatore di ordine (cosmos) e non di materia

Nella prima edizione, a differenza di quella odierna, in una nota si parlava ancora di "creazione dal nulla", con l'intento di mostrare la differenza tra la concezione biblica della creazione del mondo da parte di Dio e quella del sistema aristotelico in cui il substrato della natura è una materia che esiste dall'eterno.
Ma di per sé, l'idea di "creare dal nulla" non è presente nel racconto della Genesi. Nel racconto biblico, che è una narrazione mitologica, religiosa, e non una spiegazione filosofica, la creazione consiste nel plasmare un caos.
All'inizio c'è il caos. L'intervento del Dio degli Ebrei è un intervento che mette ordine nel caos: Dio è il creatore dell'ordine. Nella Bibbia non si prende in considerazione il fatto che la materia ci fosse già o no, che Dio abbia creato dal nulla o no, perché quello che conta non è affermare una dottrina metafisica, filosofica, ma presentare un Dio di cui ti puoi fidare, perché è quello che doma il caos originario, che rende vivibile la realtà invivibile. Israele l'aveva imparato dal proprio racconto fondante nell'Esodo: attraverso le figurazioni simboliche di un Dio che apre il cammino agli Ebrei nel Mar Rosso, dividendo le acque, poi di un Dio che accompagna gli Ebrei nella loro lunga marcia nel deserto, facendoli vivere con una serie di miracoli dentro un luogo invivibile (inabitabile, incoltivabile, con fiere e serpenti velenosi, ecc.), viene presentato un Dio che anche in quelle situazioni e in quei momenti crea spazi di "cosmos", cioè di ordine, dove il suo popolo può camminare. Questa è l'idea del Dio creatore.
A quel punto, vi dicevo, non ero ancora arrivato a quella lettura critica, diciamo pure radicale, di cui vi parlerò fra poco.

Licenza in filosofia (tentativo di conciliare il pensiero greco con il mondo biblico)

Alla fine dei tre anni di studio a Gallarate, per conseguire la licenza in filosofia, bisognava fare un'esercitazione. La mia è consistita nel mettere assieme quel sistema di pensiero che avevo appreso e a cui aderivo appassionatamente, cioè il sistema di pensiero tomista, con il mondo biblico. Feci dunque la mia esercitazione su "Sacra scrittura e pensiero greco", dimostrando (ero convinto di aver dimostrato) che in realtà le strutture di fondo del pensiero biblico erano le stesse del pensiero greco. Pensate che è proprio ciò contro cui mi batto da quarant'anni!
Il discorso che il Papa ha tenuto tempo fa a Ratisbona (nell'università dove aveva insegnato teologia) aveva come argomento principale proprio questo (quell'incauta espressione che ha suscitato reazioni fra i mussulmani era solo una parentesi): la difesa della coniugazione tra Sacre Scritture e pensiero greco. Il papa arrivava a dire che la ellenizzazione del cristianesimo, cioè lo sposalizio tra Scrittura e Platone e Aristotele, è essenziale e che quindi non era corretto "de-ellenizzare" il cristianesimo, come si voleva fare negli anni 50-60, e che bisogna andare cauti con l'inculturazione.
Con tutto il rispetto intellettuale per il teologo Ratzinger, così come mantengo un grande rispetto, e affetto e quasi nostalgia, per quel tomismo nel quale sono stato educato, sono convinto del contrario.

Tre anni di "magistero" (Preparazione di preghiere basate su testi biblici)

Prima di iniziare gli studi teologici, sono stato mandato (come è normale prassi dai Gesuiti) a fare tre anni di "magistero", cioè ad insegnare (italiano e greco in una classe, italiano, latino e storia in un'altra) in una specie di seminario minore in Val Nure, vicino a Piacenza. C'erano ragazzi dalla prima media alla quinta ginnasio, che facevano gli studi classici. Ero anche prefetto di disciplina dei più grandi, che seguivo quindi anche fuori da scuola. Al mattino e alla sera, questi ragazzi si trovavano a recitare sempre le stesse preghiere (Padre Nostro, Ave Maria, Angelo di Dio, Eterno riposo, ecc.). Allora, servendomi del lavoro che avevo fatto attraverso la lettura della Bibbia, soprattutto dei salmi, pian piano ho preparato loro delle preghiere imbastite di citazioni dell'Antico e del Nuovo Testamento, tratte anche da salmi e inni. Le ho ritrovate recentemente, e penso che, anche se sono forse un po' troppo dense, siano state un modo di accostare quei ragazzi alla Bibbia.

Studi di teologia in Spagna (crollo della costruzione teologica tradizionale)

A studiare teologia fui mandato a Comillas, nel nord della Spagna, un bellissimo paesino con porticciolo sul mar Cantabrico. Il paese era dominato da una specie di castello, fondato dal marchese di Comillas, sede di un collegio affidato ai Gesuiti, dove, fin dalla fine dell' '800, veniva mandata la crème dei seminaristi (dalla prima media alla formazione sacerdotale) delle diocesi del centro-nord della Spagna. Negli anni '30, era stato annesso un altro edificio, meno signorile, dove venivano inviati anche i Gesuiti a studiare filosofia e teologia.
Io feci lì i primi due anni di teologia, affrontando i problemi che mi assillavano da tempo e cercando di chiarire quella che inizialmente era solo una piccola crepa, che invece si allargò causando il crollo di tutto il sistema.

La concezione metafisica (attraverso l'intelligenza, l'uomo può e deve risalire dal mondo fino a Dio)

Cercherò di chiarire qualche concetto. Qualcuno di voi ricorderà il verso di Dante che dice che in Dio "s'interna (...) ciò che nell'universo si squaderna". Io direi: Dio è la concentrazione di tutte quelle qualità che nell'universo, nella creazione, sono distribuite, disseminate, ma in forma "partecipata" e diversamente calibrata. Per spiegare questo concetto si usavano delle immagini, come quella del sole che dà luce e dà calore (era solo un'immagine, anche se qualche filosofo medioevale la prendeva in senso proprio). Come il sole è una concentrazione estrema di luce e calore che illumina e riscalda tutte le creature, così è, in maniera analoga, Dio.
Il punto di vista teoretico qualificante era proprio questa "concentrazione" di Dio. Qual è la qualità di fondo che fa sì che le cose siano? E' l' "essere". Le creature hanno l' "essere" nella misura proporzionale a quello che esse sono, cioè a quello che è la loro natura, la loro essenza. Ogni cosa è quel che è, in quanto partecipa in una certa misura (non quantitativa, ma qualitativa) dell' "essere". Di quell' "essere", che invece Dio "è": Dio non ha l' "essere", Dio è l' "Essere", l' "Essere sussistente". Questo fa sì che ogni volta che noi conosciamo qualcosa per quello che "è", cioè anche nel più semplice giudizio (per es. "questo è un pesco", "questa è una lucertola"), noi conosciamo implicitamente Dio. Ecco che allora nasce il desiderio di conoscerlo, non più implicitamente, ma nella sua realtà; e questo desiderio di andare verso Dio è connaturato in noi, e troverà la sua piena realizzazione soltanto nella visione di Dio.
E' una sintesi bellissima. E io, a quel tempo, guardavo la realtà attorno a me (le piante, i fiori, gli animali, ecc.) con questo occhio filosofico, vedendo in essa, più che la bellezza esterna, fenomenica, quello che c'è dentro, come partecipazione alla pienezza di Dio. E poiché questa visione abbracciava tutto, filosofia e teologia, il crollo di quel sistema ha significato per me non credere più alle cose che studiavo.

Maturazione di una "teologia alternativa"

Quindi fu una crisi. Non di fede, ma del linguaggio della fede, necessario per poterla esprimere. Allora mi sono messo a cercare un'alternativa, per continuare a pensare e a dire la mia fede nel Dio di Abramo e di Gesù Cristo. Lentamente, anno dopo anno, è maturata quella che, più avanti, avrei chiamato una teologia alternativa. "Alternativa" non nel senso corrente del termine, ma in quanto basata sul principio di "alterità" invece che sul principio di identità (Dio è l'essere, e dentro lo spazio dell'essere c'è tutto e tutto vi è conoscibile).

Ancora: un uso improprio della Bibbia

Uno dei punti forti di quel sistema che era crollato era il testo di Esodo 3,14, quando Dio dà a Mosè la missione di portare il suo popolo fuori dall'Egitto, e Mosè vuole sapere cosa rispondere a chi gli chiederà chi sia quel Dio che glielo ordina. La risposta era tradotta con "Io sono l'Essere". Questa espressione veniva portata come la prova biblica di quella visione del mondo e di Dio di cui prima dicevo. Oggi nessuno studioso delle Scritture dice questo. L'interpretazione più coerente con tutto lo sviluppo del rapporto tra Dio e Israele così come è narrato dalla Bibbia, è quella che traduce: "Io sono il Presente". Non il presente in quanto tempo, distinto dal passato e dal futuro, ma: "Io sono colui che è presente", nel senso di: "Eccomi qua: ci sono e ci sarò per te", il che significa: che Dio è quella realtà che si è fatta presente all'uomo, che resta presente. Dio è l'amore fedele.

La scoperta delle religioni

Ma se non possiamo inscrivere Dio all'interno di uno spazio di conoscenza a partire dal mondo, in che modo possiamo sapere di lui? E' qui che cominciò a delinearsi, nella seconda metà degli anni '60, il nuovo approccio: Dio lo si conosce attraverso un'esperienza specifica, l'esperienza religiosa, e attraverso i testi che la documentano.
Devo questa scoperta al p. Goetz, un gesuita francese che trascorreva ogni anno sei mesi in Africa e altrettanti all'Università Gregoriana, a Roma, insegnando fenomenologia della religione, in particolare delle religioni primitive, sulla base della sua esperienza africana e degli studi in questo settore.
Ho approfondito in chiave filosofica questa scoperta, e ne ho fatto la base del mio insegnamento di filosofia della religione a Gallarate; questo insegnamento venne a sostituire quello della teodicea, che dimostrava invece l'esistenza di Dio e i suoi attributi a partire dall'esistenza e dalle qualità del mondo.

dalla metafisica alla fenomenologia: dal mondo dell'essere al mondo del senso

Studio della fenomenologia della religioni: l'interpretazione dei testi

Le esperienze religiose si sono sedimentate in tradizioni orali e/o in testi; chi vuol capire una religione ed entrare nel suo mondo deve interpretare questi testi.
Interpretare è capire che cosa vuol dire davvero una certa affermazione, e saper distinguere ciò che è essenziale da ciò che è invece solo un modo di dire che appartiene a una certa cultura, ecc. Questo studio è stato per me importante, perché mi ha allargato lo sguardo al di là della religione biblica, e al tempo stesso mi ha dato anche la possibilità di vedere che cosa c'è di specifico, in qualche misura di rivoluzionario, nella religione biblica rispetto alle altre religioni, pre ed extrabibliche.

La tesi in cristologia

Perciò, pur essendo indirizzato dai superiori a insegnare filosofia della religione, decisi con la loro approvazione di laurearmi in teologia, per affrontare una lettura più approfondita di quella religione nella quale e della quale vivevo: la rivelazione del Dio della Bibbia. Questa scelta si precisò in forza di un evento che mi ha segnato in profondità: la perdita di un amico e confratello morto su una strada di Roma per un infarto fulminante. Egli stava lavorando su un tema di cristologia; venni in possesso dei suoi materiali e appunti, e mi sentii sollecitato a continuare la sua ricerca. Su questo punto devo fermarmi un poco, e chiedo perciò un pizzico di pazienza.
Per alcuni decenni la ricerca sulla vita e la personalità di Gesù si era mossa lungo due strade alternative. Da un lato, tra coloro che procedevano in base al principio della lettura critica dei vangeli dominava quasi incontrastato il principio della "demitizzazione" formulato dal teologo luterano Rudolf Bultmann: quanto essi ci dicono di Gesù ha poca o nulla verosimiglianza storica, ma va inteso come "mito", cioè come rivestimento letterario dell'unica sostanziale verità cristiana: il perdono che Dio ha concesso all'umanità peccatrice e che le ha riaperto la via della salvezza. Dall'altro lato, soprattutto in campo cattolico, mantenendosi fermi all'attendibilità storica dei vangeli, si tracciavano profili della personalità di Gesù, in particolare nei suoi risvolti religiosi e psicologici. Da un lato, dunque, i vangeli ci offrono un "Cristo della fede" che ha poco a che vedere con il "Gesù della storia", essendo un simbolo dell'intervento salvifico di Dio; dall'altro essi ci danno un'immagine perfettamente verificabile di Gesù, della sua parola e della sua azione, dei suoi sentimenti e dei suoi spostamenti; così che il racconto della sua vita non presuppone in alcun modo la fede ma, viceversa, conduce ad essa.
Ma ormai l'istanza critica che Bultmann rappresentava andava facendosi strada, così che bisognava fare i conti con lui; d'altra parte, non si poteva accettare la sua spaccatura tra il Gesù della storia, figura ormai evanescente e non ricostruibile attraverso le pagine dei vangeli, e un Dio amante e perdonante di cui egli sarebbe stato soltanto l'icona simbolica, non l'incarnazione reale.
La mia ricerca consistette a) nel ridefinire l'idea di storia; b) nel leggere alla luce di quest'idea i vangeli proprio come testimonianze di fede.
Primo punto: la storia non è l'insieme dei fatti nella loro nudità (questa è cronaca), ma il loro significato, che deriva - soprattutto quando si tratta di una storia individuale - dal progetto di vita di quell'individuo; dunque, bisogna chiedersi - secondo punto - quale sia stato il progetto di vita di Gesù. Ma questo non era risultato con chiarezza durante la sua vita pubblica, così che neppure i suoi discepoli erano arrivati a capirlo (come i vangeli stessi documentano) se non dopo la sua morte, in forza di esperienze di incontro con lui, attribuite alla luce dello Spirito. Ed è a partire da queste esperienze che essi rileggono la sua esistenza terrena e ne scoprono finalmente il segreto, il principio di identità, e ne costruiscono il racconto - i vangeli - proprio per annunciare questo segreto. Ecco: il progetto di vita di Gesù, il principio generatore della sua storia, è stato la sua libera obbedienza al Padre, il suo "sì" al Padre in cui si è incarnato il "sì" del Padre al mondo. Ma soltanto l'esperienza di fede nella luce dello Spirito poteva pentrare a questo livello di profondità; è questo che i vangeli, insieme con gli altri scritti del Nuovo Testamento, ci testimoniano.
Così, attraverso una riflessione filosofica sul concetto di storia e un'indagine esegetica (sulla base di un'abbondante letteratura critica) potevo approdare al risultato: è proprio in quanto documenti di fede che i vangeli ci fanno conoscere la storia di Gesù; il Cristo della fede non è altro che il vero autentico Gesù della storia. A questo Gesù ho continuato ad aderire non soltanto come teologo ma come credente.

La comunità "sessantottina" di Milano e la richiesta di "riduzione allo stato laicale"

Avviene, a questo punto, una svolta importante nella mia vita. Nel '70, mentre ero ancora gesuita - erano anni in cui era possibile fare delle sperimentazioni - i superiori mi diedero il permesso di fondare a Milano una comunità. Era una comunità di studenti sessantottini, composta, durante il primo anno, oltre che da me, da tre ragazzi e tre ragazze, con i quali vivevo (salvo i tre giorni in cui andavo ad insegnare a Gallarate) e a cui confluivano una ventina di altri studenti. La domenica celebravamo la messa, il giovedì facevamo la lettura della Bibbia, il lunedì ci incontravamo per i "lunedì antropologici", cioè discutevamo su un determinato libro che era stato scelto e letto, su argomenti riguardanti etica, politica, religione, ecc. In quell'anno ho maturato la decisione di chiedere la cosiddetta "riduzione allo stato laicale".
Ho presentato la mia domanda ai superiori della Compagnia di Gesù, spiegando in una lettera le ragioni di questa mia scelta e specificando che non era per motivi affettivi, ma perché mi sarei sentito più libero di affrontare la mia ricerca.
Ricordo infatti che, quando mi ponevano determinate domande (per esempio cosa pensassi della transustanziazione o dell'inferno o della grazia...) mi ponevo il problema di come rispondere: come il padre Rizzi, che per lealtà verso l'istituzione si sente in dovere di dare le risposte dell'istituzione, o come l'amico Armido, che ti può far partecipe dei suoi dubbi e della sua ricerca? Parlo evidentemente di dubbi non riguardanti il messaggio cristiano nella sua sostanza, ma il modo in cui era stato pensato e formulato, e da cui mi stavo progressivamente staccando, cercando di dare risposte diverse.

A servizio della Parola, in comunità e in uno stile di povertà

Uscendo dalla Compagnia di Gesù, non avevo ancora chiaro ciò che avrei fatto nella vita, salvo tre cose: la prima era che intendevo restare a servizio della Parola, la seconda era vivere in uno stile di povertà e la terza continuare a vivere in comunità.
Non sapevo ancora se, per restare a servizio della Parola, avrei continuato a coltivare la teologia o avrei fatto una scelta più "pastorale" e "militante". Per quanto riguarda la povertà, era una dimensione del Concilio che avevo assimilato, che era stata promossa dal cardinal Lercaro, ma che poi nel Concilio non era stata approfondita. Io ci tenevo molto, tanto che su quella dimensione avevo fatto uno studio biblico e tenuto dei corsi, che sarebbero poi diventati un libretto dal titolo Scandalo e beatitudine della povertà.
Per quanto riguarda il vivere in comunità, anche se due anni dopo mi sono sposato, nella nostra casa - a Milano prima e a Fiesole poi - abbiamo continuato ad ospitare persone e ad essere una "casa aperta".

Incontri importanti

In quegli anni, dal '70 al '78, ho fatto alcuni incontri molto importanti per me.

L'incontro con il '68 e la dimensione politica

Innanzi tutto c'è stato l'incontro con il '68, che per me ha avuto un'importanza maggiore dello stesso Concilio Vaticano II, perché gli elementi teologici "conciliari" li avevo già incontrati e in qualche misura assimilati in letture precedenti (dei grandi teologi del Concilio come Rahner, Schillebeeckx, De Lubac, Congar, Daniélou...). L'irruzione del '68, invece, è stata quella che mi ha aperto alla dimensione politica, non solo sul piano di qualche militanza, ma anche e soprattutto come oggetto di riflessione: temi quali politica ed etica, politica e religione, politica e laicità, e altri affini, non mi hanno più abbandonato.

L'incontro con la teologia della liberazione: la storicizzazione delle scelte di fede

Il secondo incontro è stato quello con la teologia della liberazione latinoamericana, nata nella seconda metà degli anni 60. Il libro base è stato Teologia della liberazione del peruviano Gustavo Gutierrez. Questo libro, scritto in Perù e uscito in versione italiana nel 1972 (prima ancora dell'edizione spagnola), mi ha aperto gli occhi sulla dimensione biblica dei poveri e del Dio dei poveri. Questa chiarificazione è stata quasi simultanea alle riflessioni consegnate al libretto sulla povertà. Si è trattato di un rileggere la Bibbia a partire dall'Esodo - il Dio liberatore - fino a Gesù, il Messia, che prende posizione, di vedere quindi la storicizzazione delle scelte di fede, di comprendere che fede e amore non devono restare dimensioni che collegano a Dio in un'esperienza spirituale-mistica, ma devono incarnarsi nella storia, e incarnarsi con una scelta precisa, quella dei poveri. Certo, Dio non ama solo i poveri, ama anche i ricchi; nei ricchi però ama il povero che è in loro. Cioè la fragilità, la debolezza, la caducità, per cui basta un soffio per porre fine a potere, ricchezza, ecc. (io amo chiamarla la povertà ontologica).
In quegli anni, portavo come esempio quella che è stata una delle vicende più sconvolgenti nella nostra storia repubblicana, l'uccisione di Aldo Moro. Nel giro di mezz'ora, dall'essere l'uomo più potente d'Italia sul piano politico, si è trovato in una condizione di assoluta impotenza, in mano a quei quattro energumeni che gli hanno ucciso la scorta, e avrebbero ucciso anche lui 55 giorni dopo. Quale barbone avrebbe potuto desiderare di cambiare la propria vita con la sua? Ecco la povertà ontologica. Ecco, Dio ama in tutti la nostra povertà, anche nei ricchi. Però, come dice con finezza Gustavo Gutierrez, "Dio ha una opzione preferenziale per i poveri" e chiede alla sua comunità, Antico e Nuovo Testamento, Israele e la Chiesa, di incarnare nella storia questa opzione preferenziale per i poveri: lo straniero, lo schiavo, l'orfano, la vedova, l'affamato, l'assetato, il prigioniero....

L'incontro con il protestantesimo

Certi avvenimenti mi hanno anche portato ad un incontro con il protestantesimo. Prima attraverso le letture per preparare il corso di antropologia teologica per la Facoltà di Napoli (Lutero e il carattere fondante della fede), poi anche attraverso un giro di amicizie, a Milano, che è rimasto importante, perché, riflettendo, in quegli anni, anche sulle mie scelte di vita, ero giunto ad un punto in cui dovevo "decidermi a decidere", se restare gesuita o se prendere il volo... E' stata la lettura di un teologo e storico valdese su Gioventù evangelica (la rivista dei giovani valdesi), che parlava di laici che fanno teologia, a farmi scoprire che quello era il mio posto. Ho avuto anche la tentazione di passare alla Chiesa valdese, poi invece sono rimasto nella Chiesa cattolica: sono scelte che uno non riesce mai a motivare sino in fondo... Da allora dico che sono un cattolico, ma sono un teologo cristiano, e da almeno una quindicina d'anni aggiungo: sono un teologo ebraico-cristiano, nel senso che il lavoro più continuativo che ho fatto negli ultimi vent'anni è stato sull'Antico Testamento.

La ripresa del tema dell'ermeneutica

Insieme al 68, alla teologia della liberazione e alla tradizione protestante è stato per me fondamentale la ripresa del tema dell'ermeneutica.

I tre momenti dell'ermeneutica

Già dal '69, degli amici che lavoravano nella direzione di "Servizio della Parola", la rivista per la predicazione domenicale, mi chiesero di fare una piccola serie di articoli sull'arco ermenuetico. Ho articolato questo arco in tre momenti: l'esegesi, l'attualizzazione e l'applicazione. Esegesi vuol dire leggere il testo dentro il suo contesto, attualizzazione vuol dire ripensarlo dentro il nostro contesto, applicazione - dimensione più pastorale - significa adattare il mio modo di esprimermi alle persone a cui mi rivolgo (può essere il pubblico vario della messa domenicale, o quello dei bambini o quello di un gruppo già caratterizzato). L'adattamento non cambia né il momento esegetico, né il momento di ripensamento nell'oggi, ma li applica al pubblico presente, in modo che, come diceva Bultmann, la Parola di Dio parli ad ognuno (a me, e a queste persone che ho davanti) in prima persona. La rivista è andata avanti per diversi anni mantenendo questo schema, cioè facendo intervenire, per ogni trittico di letture della Messa che doveva essere commentata, prima un esegeta, poi un teologo che cercava di attualizzare, poi un pastoralista, un parroco, ecc., che faceva l'applicazione.

La storia dell'interpretazione a partire da Bultmann

Mi venne poi chiesto di scrivere, per un libro di introduzione alla Bibbia - I libri di Dio. Introduzione generale alla sacra scrittura, curato da Martini e Pacomio (Marietti 1975) - un articolo sulla storia dell'interpretazione della Bibbia a partire da Bultmann fino alla prima metà degli anni 70, e di sviluppare anche quello che io ritenevo, e continuo a ritenere, la pura teoria ermeneutica. Cioè, fondamentalmente, una lettura critica, in cui ci sia la libertà del lettore, ma al servizio della fedeltà: da un lato evitare il letteralismo, perché la lettera spesso riguarda non il nucleo del messaggio ma il suo rivestimento, dall'altro non considerare il testo come un pre-testo. Chiedersi invece che cosa dice effettivamente il testo passando attraverso l'esegesi, cioè la contestualizzazione; poi ri-pensare quello che ho capito attraverso l'esegeta, e quindi trasmetterlo facendo attenzione all'uditore che ho davanti.

La tesi in filosofia su Bultmann

Nella seconda metà degli anni 70, ho ripreso in mano Bultmann perché alcuni amici mi hanno convinto, quasi forzato, a laurearmi in filosofia, nell'illusoria certezza che potessi avere accesso all'insegnamento presso l'università di Stato. Ho quindi fatto la tesi di nuovo su Bultmann, di cui stavo traducendo Credere e comprendere (tra parentesi, credo di avere tradotto almeno i due terzi di quello che circola di Bultmann in italiano). Questa volta, mi sono messo interamente dalla parte di Bultmann, difendendolo dalle denunce che gli venivano fatte dai teologi politici, e anche da alcuni teologi della liberazione, che lo vedevano come un intimista. Io ho cercato di far vedere che Bultmann non aveva sviluppato la dimensione politica della Parola di Dio, ma neanche la negava. E anzi la sua adesione di fede e di carità, la sua visione del soggetto credente, era ben espressa nella frase: "La fede cristiana è il coraggio e la forza del credente di assumersi nella solitudine della decisione la responsabilità del suo agire".

Coniugare Bultmann con i teologi della liberazione

Per questi motivi sono tornato su Bultmann, e da allora dico che cerco di fare teologia coniugando Bultmann (la serietà dell'interpretazione della Parola di Dio che parla a te e di te) con la teologia della liberazione. E' vero che non bisogna fermarsi a Bultmann, ma spingersi avanti ed esplicitare anche le dimensioni politiche, di liberazione storica, di quella visione "in fede e amore". Quindi coniugare Bultmann con i teologi della liberazione.

Essere cercatori del senso

Nell'ultimo anno passato a Milano, con Mario Cuminetti e qualcun altro, avevamo organizzato una scuola di teologia per le comunità di base. Infatti il mio ambiente allora era prevalentemente quello delle comunità di base, dei preti operai, dei cristiani per il socialismo (avendo letto le cose che scrivevo, erano loro che mi chiamavano più facilmente a parlare), pur non avendo mai fatto parte organica di nessuno di questi gruppi, perché avevo l'impressione che troppo forte (benché non certo esclusiva) vi fosse la dimensione del dissenso. Io invece avevo fatto mia un'espressione di don Abramo Levi, che una volta nella redazione di Servitium, rivista di spiritualità, aveva detto: "Noi non dobbiamo né andar dietro al consenso (seguire tutto quel che dice la gerarchia, l'autorità, ecc.), né rincorrere il dissenso. Dobbiamo essere cercatori del senso". Per questo mi sono limitato ad essere un simpatetico fiancheggiatore di questi movimenti di base.

La crisi della teoria marxista come visione totalizzante

All'interno di questa scuola di teologia, già alla fine degli anni '70, con 10-12 anni di anticipo sul crollo del muro di Berlino, si cominciò a studiare il problema della crisi (peraltro avvertita anche all'interno del PCI), della visione totalizzante della teoria marxista. Si diceva che non era più possibile seguire quella visione totalizzante, che rischiava di diventare una specie di religione, di messianesimo. E molti, soprattutto nelle comunità di base, entrarono in crisi, proprio perché avevano sposato il marxismo per la sua visione utopica, compresa la sua dimensione totalizzante, con l'impegno a realizzare la società comunista, dove ognuno darà agli altri secondo le proprie capacità e riceverà dagli altri secondo i propri bisogni. E il metodo per arrivare a costruire questa bellissima società perfetta era fare la rivoluzione, in quanto si riteneva che, capovolgendo il sistema economico che è alla base, tutto il resto, che è sovrastruttura, sarebbe crollato, e ne sarebbe nato l'uomo nuovo.
A coloro che chiedevano: "come fate, voi che vi dite cristiani, ad accettare Marx che sostiene che la religione è l'oppio del popoli?", i cattolici vicini al marxismo rispondevano che il cristianesimo non è una religione, ma una fede. Ma era un gioco di parole; perché la fede è il nucleo personale della religione, e la religione è una sistemazione di credenze, riti ed ethos, di cui la comunità ha bisogno. Diversamente, come aveva insegnato Max Weber, il carisma senza l'istituzione muore con la morte del carismatico, del genio religioso.

Il messianismo nella Bibbia e nella vita quotidiana

Così ho cominciato a riflettere su queste domande e a studiare il messianismo nella bibbia, anche dietro la spinta di un amico francese, esegeta finissimo, che mi fece notare che nella bibbia i primi accenni al messianismo futuro, utopico, riguardano la terra promessa e come vivere giorno dopo giorno sulla terra promessa, come realizzare quello che lui chiamava l'exode sur place, l'esodo sul posto, l'esodo da rinnovare ogni giorno. Poi ho letto che anche altri esegeti dicevano che Israele doveva passare ogni giorno il fiume Giordano. Era una bellissima metafora per dire "rientrare ogni giorno nella terra promessa e farla vivere secondo la sua destinazione". Non è una grande terra neanche oggi, è piuttosto povera, però diventa una terra ricca di frutti se si vivono e si raccolgono attraverso il principio della condivisione. Allora, proprio nel periodo del passaggio da Milano a Fiesole, scrissi: Messianismo nella vita quotidiana, cioè l'esodo sul posto. Ognuno è, in prima persona, quello che Marx pensava fosse la classe operaia intesa miticamente. Questo non vuol dire che non ci si debba organizzare per migliorare la società, ecc. , ma il seme dell'utopia non può essere un movimento globale che sistemi le cose una volta per tutte. Non ci sarà mai nessuna società dove spunterà irreversibilmente l'uomo giusto, pacifico, solidale. Questo sarà il lavoro da fare giorno dopo giorno, prima su di sé e poi nella sua applicazione storica. Quindi messianismo, o utopia se volete, nella vita quotidiana. Questa è un'idea che da allora in poi mi ha sempre accompagnato.

Da Milano a Fiesole

Il trasferimento da Milano a Fiesole è avvenuto a seguito dell'invito da parte di padre Turoldo e padre Vannucci, dei Servi di Maria, di andare a vivere in una casa che avevano avuto in donazione, con la clausola testamentaria di utilizzarla non per scopi di lucro, ma per farne luogo di incontri di carattere culturale, di formazione, di accoglienza e di ospitalità. Posta in cima alla collina più alta di Fiesole, è, per me, "il posto più bello del mondo", con un panorama a 360 gradi, comprendente, da un lato, in basso, Firenze e dall'altro lato tutta la valle del Mugnone fino al monte Senario; nella casa è incorporata una piccola pieve del 1300, dedicata a Sant'Apollinare, il tutto molto ben ristrutturato dai precedenti proprietari intorno agli anni '30.
Così ci siamo trasferiti a Fiesole e abbiamo iniziato a svolgere una serie di attività di cui parlerò tra poco.

Il viaggio in Perù e la scoperta della povertà estrema

In quegli anni ho fatto un'altra esperienza molto importante. Nell''83 una comunità di religiosi (una congregazione di origine francese, ma ormai in prevalenza bergamasca), che aveva fondato una missione in Perù, mi chiamò a tenere una serie di lezioni e a parlare nelle parrocchie. Questo viaggio in Perù è stato per me la scoperta concreta della povertà, cioè dei poveri. A distanza di 25 anni, posso veramente dire che è stato un avvenimento che mi ha segnato come nessun altro.
Prima di allora, anche nella lettura dei teologi della liberazione che parlavano dei poveri, la parola "povertà" mi richiamava alla mente le immagini della mia infanzia: una povertà vissuta dentro una dignità oggettiva: si viveva in una casa, ci si poteva nutrire (pur "tirando la cinghia"), si avevano cure in caso di malattia (al livello della medicina di allora). In Perù ho toccato con mano una realtà molto più degradata, allarmante: case di stuoia, la fame come compagna abituale, la salute sempre precaria. Sono rimasto tre mesi in Perù, e durante il primo mese entrare in quelle capanne mi faceva venire il nodo in gola. Poi ci si fa un po' l'abitudine (ma bisogna stare attenti a non farci l'assuefazione).

La teologia della liberazione e l'Esodo (il grido dei poveri e l'iniziativa di Dio)

Allora ho capito qual era l'ambiente vitale dentro cui è nata e cresciuta la teologia della liberazione (a Lima, nei luoghi dove Gutierrez viveva). Questa mi ha ulteriormente spinto alla lettura della Parola di Dio, dove, attraverso una varietà di testi e di generi letterari, si presenta, distesa su secoli e secoli, la storia dei poveri e del Dio con loro. Alla fine del secondo capitolo dell'Esodo, si legge che gli Ebrei, stranieri e schiavi in Egitto, "gridarono". Non innalzano preghiere, è impossibile per loro pregare, perché si sono dimenticati il loro Dio, e non possono certo pregare gli dei egiziani. Quindi "lanciano un grido". Alcune sere fa, a Mantova, commentando questo passaggio, ho mostrato l'immagine di Il grido di Munch, in cui "si vede" questa voce che squarcia i cieli e non trova risposta. Ma nel testo biblico si dice che questo grido arriva all'orecchio di Dio, e Dio si ricorda dell'alleanza fatta con Abramo e Giacobbe, e si prende cura degli ebrei stranieri e schiavi, di costoro che sono dei nulla. E' l'iniziativa della gratuità divina.

Dio dalla parte dei poveri. Il Magnificat

Nietzsche presenta questa dimensione come uno scandalo, affermando che gli Ebrei, essendo incapaci di qualunque cosa, si sono inventati un Dio che sta dalla parte degli incapaci, dei meschini, dei gregari, mentre, a suo avviso, il divino si manifesta nei nobili, negli aristocratici, nei valorosi, nei potenti, in quelli che producono la storia. Il nazismo ha preso questi suoi testi per farne una specie di fondamento filosofico.
Dopo l'uscita nell'84 del documento pontificio che praticamente smentiva la teologia della liberazione, avevo fatto varie conferenze in difesa di questa teologia e ricordo che una volta, una persona, alquanto scandalizzata, controbatteva che non era certo possibile accettare una teologia che proponeva una lettura materialista, politica, del Magnificat. Gli ho citato i versetti: "Dio abbatte i potenti dal trono, ha esaltato gli umili, ha mandato i ricchi a mani vuote e ha ricolmato di beni gli affamati..." Quella persona non sapeva che questo fosse il Magnificat! Luca lo mette in bocca a Maria, che crede nella venuta del Messia (lo porta dentro di sé), che sarà colui che porterà a compimento questo agire di Dio.

La "scoperta dell'America": una realtà in chiaro-scuro

Sono tornato in Perù nel 1988, questa volta per studiare la dimensione culturale. Ci si avvicinava al 1992, quinto centenario della "scoperta dell'America", ed io facevo parte di un gruppo anti-celebrativo, contrario al trionfalismo dei "portatori di civiltà". Mi sono sentito in dovere di mettermi a studiare la questione, e in quei tre mesi in Perù sono riuscito a raccogliere un'ampia bibliografia, di circa 90 libri, scoprendo che, come spesso succede, prevalgono gli opposti estremismi, la "leggenda rosa" e la "leggenda nera": per alcuni c'è solo la grande celebrazione della civiltà, per altri solo la dimensione dell'eccidio. E mi sono accorto che le cose sono in chiaro-scuro, che c'è il bene e il male, che ci sono delle pagine straordinarie dei missionari francescani, domenicani, gesuiti, ma anche delle pagine nerissime...

Le attività del Centro Sant'Apollinare

Il corso di "teologia alternativa"

Negli stessi anni ho attivato per la prima volta a Fiesole il corso di teologia alternativa di cui vi dicevo, che aveva come scopo quello di provare a riscrivere addirittura i trattati teologici: il Dio uno e trino, la cristologia, la grazia, la chiesa, i sacramenti e i cosiddetti novissimi, cioè l'escatologia; riscriverli a partire dalla Bibbia, dal principio dell'alterità del Dio biblico rispetto al creato, e dell'alterità di quell'amore con cui Dio ci ha amato e ci chiede di amare, che è l'amore etico, l'amore comandato. Il corso si è svolto il primo anno a Fiesole (nove fine-settimana, da ottobre a giugno) e l'anno dopo a Mantova. L'ho rifatto a Fiesole nell'ultimo anno della nostra presenza lì (mia, di mia moglie e anche di mia figlia fino a 6 anni fa), come coronamento della nostra attività in quel centro.

Dio in cerca dell'uomo e l'uomo in cerca del fratello

In questo corso sviluppavo in forma sistematica l'idea che già avevo esposto pochi anni prima in una riflessione sulla spiritualità (e che venne pubblicata nel 1987 con il titolo: Dio in cerca dell'uomo. Rifare la spiritualità). L'asse della spiritualità biblica non è la ricerca umana di Dio in base al nostro "desiderio di infinito", né da parte di Dio la ricerca della sua gloria in creature che sono il riflesso della sua bellezza; è invece quell'amore con cui ci ama proprio per la nostra debolezza, per il nostro nulla, e con cui chiama ognuno di noi ad amare l'altro da sé. Non la partecipazione dell'essere ma la partecipazione della gratuità: con la fede che la accoglie e la carità che la pratica.
Amore come carità (in greco: agape), che non è in alcun mondo riconducibile alla nostra connaturale esperienza dell'amore come eros, come seduzione della bellezza e desiderio di goderne (nella gamma sconfinata delle sue manifestazioni). Dio chiama questo nulla che noi siamo a fare alleanza con Lui, a partecipare alla sua carità; e questa non è desiderio e anelito, ma vocazione al servizio: è "amore comandato" ("amerai il Signore Dio tuo... amerai il prossimo tuo...": non sono previsioni, sono imperativi), cioè amore giusto, amore dovuto, esperienza etica (la pagina di Luca con la parabola del buon samaritano è una sintesi di questa spiritualità e teologia dell'agape. Questo non significa che agape ed eros siano incompatibili, ma che sono reciprocamente irriducibili, perché di natura (di "intenzionalità") diversa; la loro unione può e deve avvenire, ma la condizione è che l'eros si lasci rifondare - cioè illuminare e dirigere - dall'agape.
E' questa la teologia biblica del "cuore": un termine che ricorre più di 800 volte già nell'Antico Testamento, con il significato decisamente prevalente di sede dall'amore comandato ("amerai ... con tutto il cuore"). Il cuore nella Bibbia non è, come si intende abitualmente, la sede degli affetti, delle passioni, delle emozioni, degli innamoramenti - non solo di persone, ma di ogni cosa bella (arte, musica, letteratura, paesaggio, ecc.) - bensì la sede dell'amore come responsabilità. L'amore responsabile è quello che si fa prossimo anche a chi è più lontano, se questi ha bisogno di me. Non per averne un ricambio, non per trovare soddisfazione ("come sono bravo!"), non per dire "io amo tutti" (che rimane un concetto astratto), ma per agire nella concretezza del quotidiano, senza rinunciare, ripeto, all'organizzazione politica, che è indispensabile, che però non sarà mai una politica davvero a favore di chi è nel bisogno, se non parte da questo "cuore" e dalla sua vocazione all'alterità.
Solo un accenno: saldando il principio di alterità con una riflessione sulla storia dell'Europa moderna, centrata sul principio dell'individualità ego-centrica ("i miei diritti"), ho presentato all'inizio degli anni '90 una proposta di ripensamento dell'identità europea a partire dall'antropologia biblica: L'Europa e l'altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione.

La Scuola della Pace - la pubblicazione dei "Quaderni di Sant'Apollinare"

A Fiesole, per quattro anni (1994-1998) abbiamo attivato anche una scuola della pace. Mi avevano chiamato a Boves (CN), dove era operante una famosa scuola della pace, e questo mi ha ispirato a proporla anche a Fiesole, affrontando temi come violenza e pace nelle religioni e nella storia dell'occidente, e studiando figure e movimenti alternativi. Gli incontri sono stati poi fissati in diciotto Quaderni, con le relazioni dei vari interventi. Per quanto riguarda la Bibbia, fu Giuseppe Barbaglio a parlarci del "Dio bifronte", dove tratti di violenza attraversano la figura fondamentale del Dio di amore e di misericordia. Ho poi ripreso questo tema in una meditazione finale, dove sintetizzavo la prospettiva dei due Testamenti come segue: la giustizia genera la pace (intesa come shalom: pienezza di vita) (Antico), la pace (del cuore, cioè il perdono e la riconciliazione) genera la giustizia (Nuovo).
A proposito di Quaderni, la serie completa ne conta 85, dal primo su Francesco d'Assisi (1982) all'ultimo che raccoglie due seminari del 2005, su temi attinenti la solidarità e il perdono. Per i seminari, che si svolgevano il sabato pomeriggio e la domenica mattina, venivano chiamati esperti dei vari campi (etica, filosofia, ecologia, politica, storia, ecc.), mentre trattavo io i temi strettamente teologici.

Le letture bibliche

Per 25 anni abbiamo fatto anche delle letture bibliche, nel senso più capillare del termine. Abbiamo cominciato con Giovanni, alternando poi, ogni anno o ogni due anni, un testo dell'Antico e un testo del Nuovo Testamento. Per tre volte abbiamo scelto dei temi, per esempio il linguaggio simbolico per parlare di Dio (cioè soprattutto gli antropomorfismi: cosa vuol dire quando Dio "vede", Dio "sente", Dio "parla", cosa vuol dire "la mano" o "il braccio di Dio", ma anche, relativamente al linguaggio psicologico, che cosa vuol dire "l'amore di Dio", la sua "fedeltà", il suo "amore uterino", l'amore giurato, la sua gelosia, la sua collera). Un anno abbiamo studiato le parabole di Gesù, e negli ultimi due anni ci siamo dedicati allo studio sul cuore, nell'accezione biblica di cui dicevo sopra.

L'insegnamento alla Facoltà teologica di Firenze

Per 5 o 6 anni ho insegnato alla facoltà teologica di Firenze, una volta facendo il corso di antropologia per tappare un buco, e altri 5 o 6 anni con il biblista nei corsi per la licenza in teologia: il collega biblista svolgeva la parte esegetica, ed io, passando naturalmente attraverso il suo lavoro esegetico, riprendevo i vari temi, pensando "dentro" la Bibbia.

Il saluto a Fiesole e al Centro Sant'Apollinare

A questo punto chiuderei con un breve accenno alla lettera che ho mandato agli amici, come saluto alla casa di Fiesole che vi ho tanto decantato (che è stata venduta in cambio dei lavori di ristrutturazione della Casa Emmaus costruita da p. Turoldo a Sotto il Monte negli anni '60).
Rileggendo questa lettera, insieme al profilo delle attività svolte in tutti questi anni dal Centro Sant'Apollinare, sia come corsi culturali che come ospitalità, mi sono accorto che in fondo c'era dentro quella teologia biblica in cui avevo vissuto e su cui sto ancora lavorando.

"Alla grazia si dice grazie"

In quel profilo delle attività del Centro, dicevo che questa casa, con la chiesetta dedicata a Sant'Apollinare, è stata una grazia. Grazia innanzitutto nel senso originario del termine, cioè un atto di gratuità, di donazione, e poi grazia anche nel senso di bellezza, poiché è un luogo incantevole. Perciò non ho voluto che quella del dolore per la partenza fosse la mia (la nostra, con mia moglie Alberta) parola più profonda, che invece può essere solo di ringraziamento: alla grazia si dice grazie. Come a ribadire tutti i canti, i salmi in particolare (salmi di lode, di azione di grazie), che in questi quasi trent'anni sono riecheggiati tra le mura del Centro Sant'Apollinare.

Gratuità e circolazione dei beni

Ma non basta. La gratuità del dono ricevuto è stata anche il principio della nostra gestione del Centro: abbiamo dato gratuitamente sia il mio lavoro intellettuale sia il lavoro logistico-gastronomico di Alberta e Benedetta. Non abbiamo mai chiesto niente, se non la rifusione delle spese vive. Lavoravamo quindi sempre gratuitamente; suggerendo agli amici che venivano di lasciare liberamente qualcosa in più per poter pagare i relatori e, dal 1983, per istituire una cassa "amici del Perù" con cui aiutare i religiosi presso i quali avevo lavorato, e negli ultimi anni, un'associazione interparrocchiale sulle alte Ande per un consultorio psicologico (perché si sta diffondendo anche da loro, non solo nel mondo ricco, il fenomeno del suicidio di giovani).

Accoglienza e messianismo nella vita quotidiana

Molte persone sono venute a stare con noi, alcune per poco tempo, qualcuno per qualche mese, qualcuno anche per anni. Più a lungo di tutti è rimasto un senegalese, per più di sei anni. Ricordo una notte di Natale (24 dicembre), in cui abbiamo riunito gli amici che erano passati da noi (almeno quelli che erano ancora vicini a Firenze): erano rappresentati quattro continenti (non c'era ancora l'australiano, che è venuto dopo!). C'erano cristiani (cattolici, protestanti, anche un ortodosso), un ebreo israeliano, grandissimo amico, un musulmano credente, marocchino, e poi una famiglia di bosniaci, musulmani etnicamente, in realtà atei, scappati dalla loro terra negli anni 90. Sant'Apollinare è stato il tentativo di realizzare, in nuce, quella circolazione dei beni che avevo chiamato il messianismo nella vita quotidiana. Il bene di una casa in cui alloggiare e trovare un po' di pane, per chi ne aveva bisogno; e il bene di quell'altro pane che è la Parola di Dio e il lavoro di scavo dentro di essa. ("Anche la teoria è pane": era questo il titolo che avevo dato ad alcune paginette di una specie di autobiografia intellettuale, inserita in una raccolta di dieci teologi italiani pubblicata da Marietti negli anni '80).

La teologia alimenta la vita, la vita alimenta la teologia

E in questa circolazione di gratuità, in questo luogo dove ho visto che poteva essere tentata la realizzazione del messianismo nella vita quotidiana, al tempo stesso abbiamo avuto anche l'opportunità di imparare dalle persone ospitate. Quindi la teologia che alimenta la vita e la vita che alimenta la teologia.
E voglio concludere con questa idea dell'imparare, soprattutto col ricordo di questo senegalese, venuto alla fine del 2000, musulmano, analfabeta (perché la sua famiglia era così povera che non aveva potuto neppure mandarlo a scuola per imparare a leggere e scrivere), e per di più affetto da un fenomeno di dislalia, che fa sì che parli così malamente da rendere difficoltosa la comprensione di quel che dice quando si esprime in italiano. Si chiama Abdou (abbreviazione di Abdullah, che in arabo significa "servo di Dio", ed ha il corrispondente nell'ebraico "ebed eloìm"). Dopo un po' di tempo che era con noi, forse un paio d'anni, con circospezione, con rispetto (non si poteva certo fare un dibattito teologico con lui, sarebbe stato offensivo nei suoi confronti), un giorno a tavola gli ho chiesto: "Senti Abdou, nel vostro paradiso, ci andate solo voi musulmani?" E lui mi ha risposto: "No, ci vanno tutte le persone buone."
Io mi sono detto che c'è voluto il Vaticano II perché noi arrivassimo a dire questo, cioè che al mistero di Cristo, al mistero pasquale, sono associati non solo i "Christifideles", quelli che credono in lui, ma tutti gli "uomini di buona volontà... in un modo che solo Dio conosce", perché lo Spirito lavora anche nei loro cuori (paragrafo 22 della Gaudium et Spes). Lui non sa nulla di tutto questo: l'ha imparato dalla vita.
E' importante, quindi, non solo vivere in modo che gli altri vedano la tua testimonianza, ma saper accogliere anche la testimonianza che ti viene dagli altri, nella consapevolezza appunto che il Dio di Israele e il Dio di Gesù Cristo non è il Dio di due popoli, di due Chiese, ma è il Dio di tutti gli uomini.

(Il testo delle relazioni, tenute a Pallanza il giorno 9 febbraio 2008 da Armido Rizzi, non è stato revisionato dal relatore)

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