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Teologia della penitenza (1)

sintesi della relazione di Eliseo Ruffini
Verbania Pallanza, 29 gennaio 1971

Crisi della penitenza e dimensione comunitaria del peccato

Questi spunti sulla Penitenza cercheranno di essere fedeli a due esigenze:
l) quella di rispecchiare la situazione storica della penitenza oggi;
2) e quella di orientare la nostra formazione, mentalità, cultura verso l'uso di riforme auspicabili circa il modo di celebrare e vivere la penitenza.

Crisi della penitenza
Per fedeltà alla situazione storica dobbiamo rilevare una situazione di crisi: la penitenza-sacramento è in crisi per vari motivi:
l) perché non la si pratica più, dato che ha perso molto di quel fascino che una volta poteva avere;
2) anche chi ci va la subisce con poca o nessuna convinzione.

ragioni della crisi
Il teologo deve cercare di trovare e analizzare le ragioni di questa crisi:

a) una prima ragione è il fatto che la si subisce più per un senso di fedeltà al dovere che di fedeltà a se stessi. Si va perché c'è una legge, un obbligo, che in certi casi stabilisce anche la frequenza (ogni anno, ogni 8 giorni, ecc.) e non invece per un bisogno di essere più autenticamente uomini e cristiani, di recuperare e di riparare ciò che abbiamo perduto. Così si spiega il senso di noia, di un'abitudine sopportata: si va come si va a pagare un debito, malvolentieri, il più tardi che sia possibile e più in fretta che si può. È chiaro allora che in questa situazione si perde totalmente il senso della gratuità dell'amore di Dio nell'ambito della penitenza.
Visto in questa prospettiva l'accostarsi alla penitenza diventa piuttosto un favore che noi facciamo a Dio e non invece un dono di Dio a noi. Talvolta, infatti per ottenere qualcosa da Dio gli si promette di andare a confessarsi, dove appunto il confessarsi diventa un merito, un oggetto quasi di scambio.

b) Ciò che si fa per obbligo difficilmente è costruttivo della nostra personalità, difficilmente trasforma il nostro essere e incide sulla nostra vita; è un po' come un amore comandato che molto difficilmente è trasformante. Ciò che si fa per comando non cambia. Se la celebrazione del sacramento è un'esperienza che non ci cambia, che non incide, che ci lascia tali e quali, allora vuol dire che inutile, anzi è umiliante. È estremamente umiliante, ripetere a se stessi, che non si è per niente cambiati. Quel gesto è inutile e infruttuoso.

c) C'è un tentativo di superamento di ordine ascetico: è vero che è umiliante il ripetere sempre le stesse cose, vedere che non si cambia e che non si realizza nulla, che sono un qualcosa di non riuscito, però gli atti di umiltà possono servire come soddisfazione ed espiazione dei peccati. Anzi l'umiltà è anche sorgente di meriti e non solo di espiazione, quindi quel gesto, anche se abitudinario e imperfetto, qualche utilità ce l'ha.
Oggi però l'ascetica del merito ha perso molto del suo fascino, proprio perché in fondo ricercando il merito spesso non abbiamo fatto altro che sublimare il nostro egoismo; abbiamo fatto qualcosa perché è utile per noi, perché il non farlo comporta un castigo. È l'accusa che ci viene rivolta dai non cristiani, quella di fare qualcosa perché vi è un premio e di non fare qualcosa perché vi è un castigo. Invece si deve fare qualcosa quando ne vale la pena, quando c'è un valore autentico e reale in ciò che io faccio, quando il mio gesto ha un valore e non per una legge o un comando esterno.

d) Una ragione che rende poco affascinante la penitenza è tutta l'ambientazione nella quale avviene la celebrazione del sacramento: ambiente di ombra, di cospirazione, di sussurri, di monologhi e di monosillabi senza alcun incontro tra persone.
Non si sono certo illustrate tutte le ragioni della crisi, ma ciò che si è detto ci serve per riflettere e per pensare a ciò che è veramente il motivo principale e fondante di questa crisi, ciò che in ultima analisi ci fa capire il perché di una crisi così va sta e profonda.
La radice più profonda dell'attuale crisi sta nella perdita della dimensione comunitaria del peccato e quindi della penitenza.

Dimensione comunitaria del peccato
Dobbiamo far emergere gli aspetti tipici del peccato che vanno al di là della singola persona che li commette. È necessario capire come qualunque mancanza non è solo un fatto personale e privato, ma coinvolge anche le altre persone e soprattutto le cose; il nostro peccato ha sempre una dimensione cosmica che coinvolge cioè tutta la realtà.
Si potrebbero fare anche delle considerazioni psicologiche: ogni volta che attentiamo alla dignità della persona, cioè ogni volta che degradiamo noi stessi, ogni volta che non ci realizziamo, determiniamo un degradamento, una mancata realizzazione anche degli altri.
In quanto teologo devo però anzitutto rifarmi alla parola di Dio. L'apostolo Paolo descrive la comunità cristiana come un "corpo", composto da tante membra diverse, ognuna con la sua specifica funzione. Questa dottrina ci fa capire come il peccato vada al di là della singola persona, perché là dove un membro soffre, tutto il corpo soffre e si trova in difficoltà; il male, il dolore in un organo qualsiasi del corpo non resta circoscritto a quel membro, ma si ripercuote anche sulle altre membra, che non funzionano più perfettamente come dovrebbero. Paolo mette alla testa del "corpo" il Cristo, e con il Cristo lo Spirito e il Padre, per farci capire che il peccato non è semplicemente una trasgressione della legge, cioè qualcosa di impersonale che rompe solo una disposizione, ma è sempre rottura con una persona, la rottura dell'alleanza con Dio, dell'amicizia e della filiazione con Dio.
Se si capisce questo non si starà più a distinguere febbrilmente tra peccati gravi e leggeri, perché se io sono amico di qualcuno non sto a distinguere tra il dargli uno schiaffo od una martellata, e questo vale anche, nei rapporti con Dio.
Il peccato venne spesso anche così definito: aversio a Deo et conversio ad creaturas cioè "abbandono di Dio per scegliere le creature". Ora, se c'è un'affermazione che sia anticristiana ed incomprensibile è proprio questa; perché descrivere il peccato come amore delle creature in opposizione all'amore a Dio è veramente uno dei peccati più gravi, perché è un introdurre una frattura tra Dio e il creato, ciò che il cristiano non può mai fare.
Molte volte parliamo di Dio che agisce nel mondo distinguendo due grandi azioni: creazione e salvezza.
Dio ha creato tutte le cose, e tutto era buono; poi l'uomo con il suo peccato ha rovinato tutto;
di fronte a questa situazione nuova del creato Dio decide di salvare. In questo modo noi immaginiamo un Dio che non ha pensato alla salvezza, la quale non sarebbe stata originariamente nei suoi piani.
Se noi leggiamo meglio il racconto della genesi troviamo qualcosa di diverso: non è che Dio prima crei e decida poi di salvare, ma crea per salvare. Non avrebbe creato, se non avesse voluto salvare; ciò significa allora che in tutte le creature e nell'uso che noi facciamo delle creature, restando fedeli alla loro natura, non vi è solo una continuazione dell'azione creatrice di Dio, ma vi è una via, un cammino di salvezza.
In altre parole, accettare, amare, sviluppare le creature è già opera di salvezza.
Se noi facciano un uso delle creature, persone o cose, che non è salvifico, che non porta avanti un discorso di salvezza, cioè se ne facciamo un uso peccaminoso, quest'uso è infedele non solo a Dio ma alle creature stesse. Ogni volta che noi stabiliamo un rapporto con tutte le cose, situazioni, persone e vogliamo restare fedeli a queste realtà, noi facciamo un discorse salvifico.
Nel vangelo si parla spesso del contrasto tra Cristo e i farisei: ciò che Gesù soprattutto rimprovera ai farisei è il separare Dio dalle cose, l'assumere un atteggiamento per cui uno crede di poter essere fedele a Dio senza essere fedele alle cose, oppure crede di poter amare e sviluppare le realtà che lo circondano senza amare Dio. Ecco perché il peccato ha sempre una dimensione comunitaria e cosmica: ogni volta che manchiamo di fedeltà alle cose noi impediamo alle stesse di realizzarsi. Paolo poteva così scrivere che tutte le creature gemono nell'attesa della redenzione perché il peccato impedisce al mondo di realizzarsi.
Mancando di fedeltà alle cose, impedendo ad esse di diventare come Dio le ha volute, creiamo un ambiente disordinato, una situazione di disagio e di non realizzazione. Qualunque peccato contribuisce a creare una situazione in cui il male è facile ed il bene è difficile: la bugia di uno rende difficile il dire la verità all'altro, l'avarizia di uno rende estremamente impegnativa la generosità dell'altro. Il nostro peccato crea veramente il nostro mondo: quando noi ci lamentiamo del mondo e degli uomini cattivi irosi e perversi, dovremmo lamentarci di noi stessi che col nostro essere peccatori contribuiamo a creare tutto questo.
La tragedia maggiore che noi viviamo è questa: non ci rendiamo conto di creare col nostro atteggiamento una situazione estremamente penosa per noi e per gli altri.
Commettendo il peccato, inteso come mancanza di fedeltà alle cose, noi non solo creiamo un ambiente dove il male è facile e il bene difficile, ma creiamo una situazione dove la stessa distinzione teorica tra bene e male è difficile; non si riesce più a capire ciò che è bene e ciò che è male anche con l'aiuto della Parola di Dio, e si arriva addirittura a dire che è un problema soggettivo. E diventa estremamente difficile in questa situazione stabilire le responsabilità e si gioca sempre a scarica-barile anche nelle cose più importanti, come nei drammi del nostro tempo, fame, guerre, ingiustizie, sentenze capitali ingiuste; fatti che ci sconvolgono ma dove ognuno si ritiene innocente, estraneo, e si dà la colpa a coloro che comandano, agli altri popoli, a gente di idee diverse dalle nostre.
Si arriva a storture di questo tipo, cioè a non poter individuare la responsabilità nel male, proprio perché si è creato un ambiente, un contesto, dove il male è facile e il bene difficile, dove nessuno si sente responsabile; e l'ambiente è creato e determinato non da uno, da due, da cento o da mille persone, ma da tutti noi, nel nostro agire quotidiano.

Conclusione
Per concludere possiamo notare la verità di una frase evangelica, che però si può anche capovolgere: "Togli prima la trave che è nel tuo occhio e poi leva la pagliuzza che è nell'occhio di tuo fratello". Ognuno di noi può credere di avere solo pagliuzze nel proprio occhio, piccole infedeltà, incoerenze, difettucci; però la frase può essere capovolta: come si fa a vedere le travi se nel mio occhio ho una pagliuzza? Anche con due soli granelli di sabbia non si vede più nulla, nemmeno una grossa trave. Per eliminare le travi, i grossi mali, bisogna togliere anche le pagliuzze; Solo così si potrà uscire dal peccato e desiderare di incontrare Dio, che mi faccia fare quella penitenza che io da solo non posso fare.

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