Incontri di "Fine Settimana"

chi siamo

relatori

don G. Giacomini

programma incontri
2018/2019

corso biblico
2025/2026

incontri anni precedenti
(archivio sintesi)

pubblicazioni

per sorridere

collegamenti

rassegna stampa

preghiere dei fedeli

ricordo di G. Barbaglio

album fotografico

come contattarci

Problemi di vita in un cristiano d'oggi

Autorità a servizio nel popolo di Dio

sintesi della relazione di Giannino Piana
Verbania Pallanza, 24 aprile 1970

Come intendere il servizio che l'autorità è chiamata a svolgere? Quale il rapporto profondo di comunione che deve sussistere fra l'autorità e la comunità cristiana? Come la comunità cristiana deve porsi nei confronti di coloro che hanno il carisma dell'autorità?

AUTORITÀ A SERVIZIO NEL POPOLO DI DIO

di Giannino Piana

Il tema di questa sera è: "Autorità e obbedienza nel popolo di Dio". Il mio sforzo, di fronte ad un tema così vaste (mi sono trovato un po' imbarazzato nell'affrontarlo perché c'è una letteratura immen­sa al riguardo) non potrà prefiggersi che di orientare la vostra conversazione successiva, raccogliendo perciò molto sinteticamente gli elementi più significativi.
La mia riflessione di questa sera procederà secondo tre momenti. In un primo momento tenterò di fare un'analisi di tipo sociologico della crisi del rapporto autorità-obbedienza nella Chiesa oggi. In un secondo momento cercherò di dare, attraverso una riflessione teologica, gli orientamenti sul significato dell'autorità e dell'obbedienza nella Chiesa. In un terzo momento, appena accennato, ten­terò di muovere alcune osservazioni di tipo pastorale sullo stile dell'autorità e dell'obbedienza nella Chiesa oggi.
Questi sono i tre tempi della mia conversazione.
Anzitutto una visione della situazione, poi un tentativo di inter­pretare dal punto di vista teologico la situazione ricuperando gli elementi essenziali, infine alcune indicazioni sullo stile che autorità e obbedienza devono assumere nella Chiesa attuale.
Come vedete è un procedimento estremamente schematico e problemati­co, anche perché ci si trova di fronte a uno dei problemi più complessi e difficili che si agitano nella Chiesa.
Senza dubbio, una delle ragioni più determinanti dello stato di inquietudine che sta attraversando oggi la Chiesa è la non chiara im­postazione di questo problema, del rapporto cioè dell'autorità con coloro che hanno nella Chiesa un ruolo non di semplici sudditi, come si usava dire, ma di corresponsabili nella costruzione del dise­gno della salvezza di Dio.

l) ANALISI SOCIOLOGICA

Possiamo così partire anzitutto da una seria analisi di tipo sociologico e la prima constatazione che dobbiamo fare è quella della crisi dell'autorità. Il fenomeno della contestazione è senza dubbio uno dei segni caratteristici di questa crisi.
Ora tale contestazione, è bene notarlo, non si estende soltanto alla Chiesa ma un po' a tutte le forme di autorità, direi che tocca tutti gli ambiti della vita dell'uomo; dalla famiglia alla scuola, alla stessa società civile.
Ciò che noi ci possiamo e ci dobbiamo chiedere è anzitutto qual è il livello di profondità di questa crisi? E, in secondo luogo, quali sono le cause di questa crisi?
Ovviamente il mio discorso sarà prevalentemente orientato ad individuare lo stato di crisi all'interno della Chiesa, perché questo è l'oggetto della nostra conversazione di questa sera. Comunque le riflessioni che io faccio, per certi aspetti, possono essere estese ad altri ambiti.

a) I livelli di profondità della crisi

Mi pare che i livelli di profondità possano essere diversi. Ricordo di aver letto, all'inizio di quest'anno, un articolo di Padre Gerest su " Il Gallo", in cui venivano distinti nella Chiesa di oggi tre livelli della crisi d'autorità. Il primo è quello relativo all'esercizio attuale dell'autorità. Chi si trova a questo livello è colui che contesta l'autorità non perché la vuole sopprimere ma piuttosto perché la vorrebbe esercitata in modi e forme diversi. Cioè è l'esercizio dell'autorità che viene messo in crisi non la sostanza dell'autorità che viene invece presupposta e pienamente accettata. E' a questo livello chiunque tende a un'autorità che offra veramente un servizio disinteressato, quindi che non riproduca modelli mondani o peggio modelli autoritari; chiunque vorrebbe un'autorità che susciti nella Chiesa l'iniziati­va personale anziché mortificarla; chiunque vuole un'autorità la quale cerchi non di vincere ma di convincere; ancora, chi vuole non essere diretto ma piuttosto espresso.
Sono tutti modi che caratterizzano questo primo livello di crisi dell'autorità, che è crisi relativa all'esercizio attuale dell'autorità.
Dice Padre Gerest che esiste un altro livello di crisi dell'autorità in cui la crisi non è più relativa all'esercizio ma alla designazione dell'autorità. Coloro che sono a questo livello contestano le forme normali di designazione dell'autorità nella Chiesa, cioè contestano che l'autorità ecclesiale venga designata attraverso delle strutture accentrate, monopolistiche, cioè contestano quell'autorità che viene sempre dall'alto, contestano, in fondo, un'autorità che viene imposta alla comunità e non proposta dalla comunità.
Finalmente, dice Padre Gerest, un terzo livello di crisi dell'autorità, quello di contestazione all'esistenza stessa dell'autorità.
Secondo coloro che si trovano a questo livello l'autorità nella Chiesa non ha più significato. Costoro estendono, in genere, questo tipo di ragionamento non soltanto alla Chiesa ma anche alla società civile; proclamano l'esigenza di forme di partecipazione assembleari che si sostituiscano radicalmente all'autorità.
Questo terzo livello di crisi dell'autorità non è infrequente anche nella Chiesa ed è un atteggiamento che trova le sue motivazioni più profonde nei due livelli precedenti, cioè nel fatto, prima di tutto, che l'autorità non si esercita nella Chiesa come servizio, come stimolazione dell'iniziativa personale, e soprattutto che non si esercita nella Chiesa in quanto è designata dalla comunità.
Comunque questo atteggiamento è in qualche modo l'esasperazione pericolosa di una insofferenza, di uno stato di tensione che si determina all'interno della comunità, è rifiuto radicale di qualsiasi autorità, cioè di qualsiasi elemento coordinatore della comunità stessa,

b) Le cause della crisi

Più importante è il discorso sulle cause. Dobbiamo chiederci quali sono le cause che hanno prodotto di fatto questa crisi dell'autorità che si manifesta secondo i tre livelli differenziati che ho cercato di delineare.
Distinguo due ordini di cause, che sono di diversa natura e quindi anche di diversa importanza: le cause di carattere sociologico e le cause di carattere più specificamente teologico o ecclesiale,
1) Credo che le cause di carattere sociologico si possano ri­condurre ad una e cioè al mutato contesto socio­culturale e politico in cui viviamo. Questo contesto è caratterizzato anzitutto da una nuova coscienza che l'uomo è venuto ad acquistare della sua dignità personale.
Bonhoeffer dice che una delle caratteristiche fondamentali dell'uomo contemporaneo è quella di essere e di sentirsi adulto, cioè di aver riconquistato il senso della sua dignità personale, del suo valore personale.
Un secondo elemento è la dilatazione del metodo democratico, del metodo di partecipazione sia sul piano sociale che sul piano politico. La democrazia ha consentito a molti di acquisire questo senso della partecipazione al potere o, meglio ancora, questa senso di partecipazione alla direzione della co­sa pubblica e quindi di corresponsabilità nella vita sociale e soprattutto nella vita politica.
Finalmente, un terzo elemento che caratterizza questo conte­sto socioculturale e politico in cui viviamo è la riscoperta del pluralismo, sia a livello ideologico come a livello pratico, nel senso di rispetto di una pluralità di modi di pensare, di modi di sentire, soprattutto di modi di agire. Questo senza dubbio è un valore irrinunciabile che caratterizza il no­stro mondo che va verso una sempre maggiore scoperta di quel­li che sono i valori più fondamentali della persona umana.
In questo mutato contesto socio-culturale giocano negativamente alcuni fattori relativamente al problema dell'autorità. In primo luogo gioca negativamente il persistere di modelli superati di esercizio dell'autorità. Penso, prevalentemente, al modello autoritario o a quello paternalistico che sono due modelli di esercizio dell'autorità ancora presenti a tutti i livelli: nella Chiesa, nella società civile, nella famiglia, nella scuola.
Questi modelli non hanno più significato in un mondo in cui gli uomini vanno riscoprendo il senso della loro dignità per­sonale, la possibilità di una molteplicità di idee, di modi di vivere.
In secondo luogo gioca negativamente all'interno di questo contesto socio-culturale la frattura sempre più accentuata, a tutti i livelli, fra il vertice e la base, frattura che i si­stemi di democrazia formale non sono riusciti ancora a colmare,anzi per certi aspetti hanno anche acuita, perché hanno rap­presentato un ideale poi non realizzato.
Il terzo elemento che ha giocato negativamente su questo con­testo socio-culturale mutato è la crisi della comunità e l'esigenza dì una comunità nuova. La comunità oggi vive un momento di crisi, è dilacerata dal progresso tecnico-scientifico, soprattutto dalla nuova sistemazione socio-economica e politica in cui viviamo. La non esistenza di comunità nuove e, d'altra parte, l'aspirazione profonda a realizzarle sentita come uno dei bisogni fondamentali del nostro tempo, certamente acuisce la frattura tra coloro che hanno l'autorità e che spesso la identificano con un potere e coloro che invece ven­gono quasi considerati dei soggetti o, peggio ancora, degli oggetti di questa autorità.
Tutta questa tensione è poi ulteriormente complicata da un fenomeno caratteristico del nostro tempo; quel fenomeno di cui parla la costituzione pastorale "Gaudiu et spes", cioè il fenomeno dell'accelerazione dei tempi.
Noi assistiamo oggi ad un continuo salto di generazioni che avviene non più a livelli di decine o cinquantine di anni ma avviene ormai a livelli di 5-6 anni. Questo salto di genera­zioni ha i suoi riflessi sul piano psicologico, sul modo di sentire, sul modo di costruirsi la personalità da parte di ciascuno. È proprio questa accelerazione dei tempi che suscita quella tensione terribile che tutti noi oggi verifichiamo tra l'impazienza dei giovani che sono figli di questo nostro tempo nuovo e che guardano prevalentemente in prospettiva fu­tura, e l'eccessiva prudenza degli anziani, la quale, molto spesso, non è altro che una difesa a tutti i costi dello "statu quo", cioè della situazione presente ed è in fondo un'incapa­cità a leggere profeticamente i segni dei tempi, cioè il futuro che si apre dinanzi a loro.
2) Un secondo fascio di cause è quello rappresentato dalle cause di carattere religioso che valgono soprattutto per l'autorità così come è esercitata all'interno della Chiesa.
Anche queste cause possono essere fondamentalmente riassunte in una e cioè una diversa concezione della Chiesa e della sua natura elaborata dalla teologia attuale e fatta propria dal "Vaticano II".
Gli elementi più importanti di questa nuova concezione della Chiesa che toccano il problema dell'autorità e soprattutto dell'esercizio dell'autorità all'interno della Chiesa sono riassumibili in questi quattro che vi propongo in modo molto schematico.
In primo luogo il ricupero della fondamentale uguaglianza e dignità di tutti i membri del popolo di Dio (notate che l'e­spressione è tratta dalla Costituzione "Lumen Gentium")
Quando si è trattato di arrivare ad una definizione della Chiesa nel Concilio "Vaticano II" sono emerse diverse difficoltà, e la difficoltà maggiore fu quella di accettare quella che poi alcuni teologi hanno definito la "rivoluzione copernicana", cioè il passaggio del cap. II attuale del "De Ecclesia" su "La Chiesa come popolo di Dio" al posto che occupa oggi, perché nello schema preparatorio del Vaticano la costituzione sulla Chiesa era stata press'a poco concepita così: I capitolo: "La Chiesa come mistero"; II cap.: "La Chiesa come gerarchia"; III cap. "Il laicato, il popolo di Dio nella Chiesa", IV cap. "I religiosi" e così via...
Molti Padri hanno invece fatto presente che prima di parlare della gerarchia bisognava parlare della Chiesa in quanto comunità di tutti i credenti, in quanto popolo di Dio, perché la gerarchia era una funzione alI'interno del popolo diDio.
E per poter parlare della gerarchia come funzione all'interno del popolo di Dio bisognava cominciare a sottolineare la fondamentale uguaglianza e dignità di tutti i membri del popolo di Dio. Questa fondamentale uguaglianza e dignità fa sì che noi siano certamente molto più simili, molto più vicini alla gerarchia di quanto non ne siamo distaccati, di quanto non ne siamo differenti. Prima di tutto noi siamo cristiani e, in quanto cristiani, partecipi del popolo di Dio in una comune uguaglianza e dignità e in una comune corresponsabilità. Soltanto all'interno di questa uguaglianza, di questa dignità uguale, di questa responsabilità di tutti si differenziano le diverse funzioni dei singoli.
Si tratta perciò di una vera rivoluzione copernicana, perché si tratta di non parlare più di Chiesa prima come gerarchia o come Chiesa docente e poi di Chiesa come Chiesa discente, ma di parlare di Chiesa come di comunità di tutti i credenti al­l'interno della quale si specificano le diverse mansioni, i diversi uffici e i diversi carismi.
Secondo elemento è la rivalutazione del laicato, conseguente naturalmente al primo, in posizione attiva e responsabile nella Chiesa; nella Chiesa tutti siamo corresponsabili della salvezza. Questa salvezza non è solo compito dei preti o della gerarchia o del Papa ma è compito della Chiesa in quanto co­munità dei credenti cioè è compito di tutti i membri della Chiesa, che devono per questo sentirsi apostoli perché sono annunciatori della salvezza, perché sono corresponsabili del­la salvezza per tutti.
Terzo elemento è la dottrina dei carismi come doni particolari che Dio fa a tutti i membri della Chiesa. Anche questa dottrina ha una portata rivoluzionaria perché mentre si credeva, un tempo, che i carismi fossero soltanto dei doni particolari e straordinari dati a persone eminenti nella Chiesa, il "Vaticano II" invece sottolinea come tutti hanno una vocazione cari­smatica e ciascuno ha un suo carisma da sviluppare, da portare a compimento all'interno della Chiesa.
Finalmente l'ultimo elemento è la concezione dell'autorità co­me uno dei carismi all'interno del popolo di Dio, cioè l'autorità non viene più vista come sopra o come fuori dal popolo di Dio, ma come un carisma di servizio all'interno del popolo di Dio, come una particolare funzione o un particolare ministero che viene affidato ad una persona perché abbia ad unificare il popolo di Dio.

2) RIFLESSIONE TEOLOGICA

Mi pare importante affrontare il secondo momento di questa riflessione, cioè tentare una chiarificazione del problema del rapporto autorità-obbedienza nella comunità cristiana a livello teologico. Questa chiarificazione, a mio avviso, può essere operata a due livelli. Anzitutto è necessario chiarire il senso evange­lico dell'obbedienza cristiana e, in secondo luogo, è opportuno esaminare come questa obbedienza va' vissuta all'interno della Chiesa intesa come comunità di salvezza.

a) Il senso evangelico dell'obbedienza cristiana

L'obbedienza cristiana deve essere anzitutto considerata come una mediazione dell'amore, dell'amore verso il Padre.
Il senso ultimo dell'esistenza cristiana è vivere l'amore, vivere la carità di Dio, questo mistero insondabile nel quale tutti siamo inseriti. Ora l'obbedienza non può che essere una mediazione di questo amore verso il Padre, amore che nel vangelo ci è presentato proprio con la caratteristica di amo­re obbediente. Il vangelo ci ricorda che il Padre nostro che è nei Cieli non ama colui che dice: "Signore, Signore", ma ama colui che fa la volontà sua.
Ancora il vangelo ci ricorda come Cristo, che il modello a cui dobbiamo ispirare tutta la nostra attività, tutto il no­stro modo di essere, è Colui che è stato obbediente e obbediente fino al dono totale di sé.
"Non sono venuto per fare la mia volontà, ma sono venuto per fare la volontà del Padre mio che è nei Cieli".
La morte di Cristo in croce è il compimento perfetto della volontà del Padre che si esercita, si esplicita nel dono totale che Cristo fa di se stesso, di tutta la sua persona.
Ora questa volontà del Padre che ha trovato in Cristo il suo modello e che è il senso profondo della vita cristiana, quale oggetto ha, quale contenuto ha?
Noi sappiamo dalla rivelazione che l'oggetto della volontà del Padre è il compimento della salvezza per il mondo. Ce lo ricorda ripetutamente Cristo: "Sono venuto affinché abbiano la vita e l'abbiano in sovrabbondanza; non sono venuto per i giusti ma per i peccatori; sono venuto a cercare la centesima pecorella smarrita".
Il Cristo è venuto per portare la salvezza al mondo, all'intera umanità, soprattutto a coloro che sono lontani, a coloro che ancora non hanno udito questo messaggio di salvezza, questo evangelo, questo annuncio profondo di salvezza che Dio vuole recare al mondo.
Vista in questa chiave, che cosa sarà l'obbedienza cristiana così come ce la descrive il vangelo? Tenterei una prima, approssimativa definizione. L'obbedienza cristiana mi sembra essere l'impegno solidale, cioè l'impegno di tutti, dell'inte­ra comunità cristiana, a realizzare la salvezza per il mondo nell'amore del Padre a imitazione di Cristo che ha dato tutto se stesso. In questa definizione un po' schematica troviamo presenti i tre elementi fondamentali dell'obbedienza cristia­na.
Anzitutto troviamo presente la corresponsabilità di tutti nel disegno di salvezza cioè l'obbedienza come un essere tutti corresponsabili nell'unico disegno di salvezza. Tutti siamo sottomessi all'unico disegno di salvezza che Dio ha manifestato all'umanità e tutti dobbiamo aderire a questo disegno e portarlo a compimento.
In secondo luogo troviamo presente il senso profondo di questo disegno che è risposta di amore al Padre, cioè obbedienza co­me amore. L'obbedienza è corresponsabilità nel disegno di salvezza in quanto realizzazione della risposta di amore al Padre che ci ha chiamati tutti alla salvezza.
In terzo luogo troviamo presente nella definizione il modo concreto con cui dobbiamo vivere questo disegno, esemplificato dal Cristo: la donazione totale di noi stessi.
Cristo si è dato totalmente, si è dato fino alla morte, cioè si è dato in modo integrale non rifiutando nulla, non rinun­ciando a nulla di se stesso. Il senso evangelico dell'obbe­dienza è allora insieme corresponsabilità nel disegno di sal­vezza, risposta di amore al Padre e risposta totale cioè amore oblativo nel senso più vero della parola.
Obbedire significa fare la volontà del Padre realizzando corresponsabilmente il suo disegno di salvezza per il mondo a imitazione di Cristo, cioè nel dono totale di noi stessi.
Questo è il significato profondo dell'obbedienza così come ce la delineano gli scritti evangelici. Il problema che si pone a questo punto è: come e soprattutto dove noi realizziamo concretamente questo piano di salvezza del Padre? Come e do­ve si esercita questa nostra obbedienza come corresponsabili­tà nella salvezza, come donazione di noi stessi a questa sal­vezza, come amore che si esplicita in quanto è risposta di noi al Padre che ci chiama?

b) Come vivere l'obbedienza all'interno della Chiesa

Noi sappiamo che il piano di salvezza di Dio si realizza per espressa volontà nel mondo perché il mondo è il luogo della salvezza attraverso la Chiesa in quanto comunità dei figli di Dio, in quanto segno portatore di questa salvezza, in quanto indicazione, orientamento, guida a questa salvezza.
Evidentemente allora l'obbedienza troverà il suo luogo concreto entro il quale realizzarsi nella Chiesa, cioè l'obbedienza diventerà corresponsabilità ecclesiale nella realizzazione del piano di salvezza voluto da Dio.
E' allora necessario, per collocare esattamente l'obbedienza, aprire il discorso sulla Chiesa, cioè chiederci come questa Chiesa è stata voluta da Cristo e soprattutto come questa Chiesa attraverso la manifestazione della volontà di Cristo deve essere realizzata oggi alla luce degli orientamenti che la teologia attuale e soprattutto il Vaticano II ci offrono. Devo fare riferimento ad alcuni elementi essenziali di definizione della realtà della Chiesa per poter cogliere come si colloca all'interno di essa l'obbedienza cristiana.
Una definizione o un concetto di Chiesa che mi sembra essere prevalso nel Vaticano II è il concetto di Chiesa come comunione. Dobbiamo allora chiarire il significato che ha questa parola. Secondo me comunione significa anzitutto unità profonda di persone; unità che si realizza perché tutti nella Chiesa sono fondamentalmente uguali perché soprattutto tutti nella Chiesa sono corresponsabili dello stesso piano di salvezza, cioè perché l'apostolato, che è una delle dimensioni essenziali della Chiesa, non è una dimensione della Chiesa in quanto gerar­chia ma è una dimensione della Chiesa in quanto comunità di credenti.
Allora parlare di Chiesa come comunione vuol dire stabilire anzitutto questa unità fondamentale di tutti nella Chiesa, anche se questa unità non va concepita come uniformi­tà. E' un grosso equivoco, che purtroppo si è perpetuato per tanto tempo, il ritenere che l'unità della Chiesa consista nella sua uniformità, che cioè la Chiesa fosse una fino a quando, per esempio, tutti parlavano latino nella liturgia ecclesiale, che la Chiesa fosse una fino a quando tutte le preghiere liturgiche erano identiche, fino a quando tutti i paramenti liturgici erano pianificati; che la Chiesa fosse una fino a quando i teologi si esprimessero allo stesso modo e non si accettava il pluralismo teologico; che la Chiesa fosse una fino a quando tutti nella Chiesa sul piano politico si esprimessero nello stesso modo e allora non si accettava più il pluralismo delle concezioni politiche nella Chiesa.
Questa unità della Chiesa non va concepita come uniformità, cioè come unità indifferenziata, monolitica, monocorde, ma piuttosto come unità articolata, pluralistica, differenziata, nel senso che una è la Fede ma diversi sono i modi di viverla; uno è lo Spirito ma diversi sono i carismi che lo Spirito dà a ciascuno, diversi sono i ministeri; uno è il piano pastora­le, l'obbiettivo, il traguardo che è la salvezza, da portare al mondo, ma diverse sono le funzioni, i ministeri che ciascuno è chiamato ad esercitare all'interno della Chiesa.
La comunione non si realizza pianificando le cose ma favoren­do, alimentando la libera circolazione dei carismi, delle funzioni, la scoperta che ciascuno deve fare della sua vocazione all'interno della Chiesa, la scoperta che ciascuno deve fare del dono che ha ricevuto da Dio, del talento che è chiamato a far fruttificare.
Ecco allora che la comunione come unità pluralistica si svi­luppa, quanto più vengono potenziate, valorizzate le funzioni, le capacità, i doni di ciascuno.
È abbastanza chiara l'immagine della Chiesa che S. Paolo ci ha lasciato, la Chiesa come corpo mistico. Che cosa c'è di più unitario di un corpo e contemporaneamente che cosa c'è di più articolato, di più pluralistico di un corpo?
Nel nostro corpo c'è una così profonda unità, che, se anche soltanto un membro di questo nostro corpo soffre, come dice Paolo sviluppando l' immagine, tutte le altre membra soffrono e c'è una così profonda differenziazione che, avendo ciascun membro una sua funzione se la mano volesse fare il piede, tutto il corpo ne risentirebbe negativamente.
Questa immagine può illuminarci sulla realtà della Chiesa, su questa unità che nasce dalla pluralità delle funzioni e che è tanto più unità quanto più è esercitata la pluralità delle. funzioni, quanto più è sottolineata marcatamente la diversità dei compiti, degli ambiti, delle prospettive, dei modi di pen sare e di vedere.
Questa concezione di Chiesa in quanto comunione in cui l'unità è da intendere non in nodo uniforme ma in modo pluralistico, differenziato, ci illumina sul significato che ha l'auto­rità nella Chiesa, come uno dei carismi all'interno della Chiesa, che perciò non deve porsi né sopra né fuori la Chiesa. Chiunque possiede autorità nella Chiesa prima di tutto è un battezzato e in quanto battezzato, ha la pari dignità, egua­glianza e corresponsabilità di tutti gli altri e dovrebbe ri­cordarsi, prima ancora di essere vescovo, prete o anche papa, di essere un battezzato e di fare comunione con tutti gli altri prima di tutto sullo stesso piano.
La diversità nasce dalla diversità delle funzioni legata a quel carisma particolare che colui che è sacerdote, o vescovo o papa possiede, mediante il quale esercita un servizio all'interno della comunità.
Il carisma dell'autorità è stato istituito da Cristo con lo scopo fondamentale di realizzare l'unità nella molteplicità, l'unità dei diversi, la comunione differenziata, pluralistica, articolata. Deve anzitutto realizzare l'unità nella fede at­traverso diversi modi di vivere la fede che esprimono la ric­chezza delle diverse comunità cristiane o dei diversi membri di queste comunità. Abbiamo qui il primo compito dell'autorità nella Chiesa che viene normalmente definito come compito magisteriale.
Deve fare l'unità nello spirito attraverso la funzione sacra­mentale, ma senza mutilare le singole esperienze bensì unifi­candole, portandole a compimento, facendo vedere che la Chiesa
si arricchisce soltanto dalla molteplicità di queste esperienze e non dalla mortificazione che diventa uniformità.
Deve realizzare l'unità anche sul piano pastorale attraverso il compito di governo dell'autorità, che consiste nel fare da collegamento, da luogo di unificazione, da luogo di incontro delle diverse esperienze per far sì che queste esperienze arricchiscano tutti.
Quando il Vaticano II definisce le funzioni dei vescovi dice che essi sono insieme sacerdoti, maestri e pastori. Essere sacerdote significa fare l'unità nello spirito, significa esercitare la funzione santificante che viene al sacerdote dal potere sacramentale. Essere maestro significa esercitare la funzione di unificazione della fede, compito magisteriale per eccellenza. Essere pastori significa realizzare l'unità nel­l'azione pastorale, l'unificazione la più ampia possibile dei carismi individuali, dei carismi delle singole comunità in modo tale che possano arricchire di una pluralità di esperienze l'unità.
Il carisma dell'autorità è un carisma di servizio, nasce cioè all'interno della comunità e opera in favore della comunità anche se costitutivamente è un dono di Dio. Quando diciamo carisma diciamo già dono di Dio, quindi il carisma dell'auto­rità viene da Dio; ma viene da Dio non nel senso che è da Dio imposto o perché è il Papa che lo trasmette, ma nel senso che risponde ad un carisma cioè a un dono che Dio ha elargito a quella persona e che viene riconosciuto poi dalla comunità.
Riassumendo il costitutivo proprio del servizio che l'autori­tà è chiamata a rendere all'interno della comunità è fare l'unità pluralistica del popolo di Dio nel senso di favorire e promuovere il libero sviluppo dei carismi e delle vocazioni personali, e di unificare questi carismi perché tendano omogeneamente all'unico fine sceverandoli nel loro valore e nel loro significato e quindi facendo sì che questi carismi possano servire a quel piano di salvezza per il quale sono stati da Dio voluti.
Allora obbedire, all'interno di questa visione dell'autorità nella Chiesa, significherà fare la volontà di Dio nel senso di accettare il suo disegno di salvezza che passa attraverso la Chiesa come comunità di credenti unificata dallo Spirito attraverso i legittimi pastori (sono parole del Vaticano II), dove però l'unificazione dello Spirito prevale su questa unificazione dei legittimi pastori che non è nient'altro che un servizio che essi rendono a questa unificazione nello Spirito.

3) ORIENTAMENTI PASTORALI

Se sono riuscito da un punto di vista teologico a chiarire un po' il discorso allora diventano evidenti queste conclusioni brevissime che io faccio sul piano pastorale. Osservando la situazione della Chiesa d'oggi attraverso una partecipazione il più possibi­le attenta e viva, mi pare che molte delle crisi che dilacerano oggi la Chiesa verrebbero superate se si affrontasse in questo modo il problema dell'autorità e soprattutto se lo si testimoniasse nella pratica, nella realtà, nella vita quotidiana.
Io credo che la crisi attuale del rapporto autorità-obbedienza nella Chiesa non è né crisi di autorità, né crisi di obbedienza. Mi sembra che sia in primo luogo, rifacendomi ad una riflessione molto interessante fatta da Mario Gozzini su la "Rivista di teologia morale", una crisi di comunità o di comunione, cioè una crisi di quella concezione della Chiesa che vi ho presentata nella quale ciascuno trova il meglio di sé e tutti si trovano insieme uniti a edificare, a promuovere un'unica realtà che è la salvezza di tutti.
Proprio per risolvere questa crisi di comunità di cui è affetta oggi la Chiesa credo sia necessario uno sforzo congiunto, cioè uno sforzo che veda insieme convergere le due dimensioni del pro­blema da una parte, coloro che detengono l'autorità e dall'altra coloro che sentono nell'autorità un servizio indispensabile alla Chiesa. Questa convergenza si realizza nella misura in cui chi ha -l'autorità la senta come profondamente inserita nella comunità e come un servizio alla comune corresponsabilità del popolo di Dio, e chi non ha l'autorità riesca a riscoprire il ruolo essen­ziale di unificazione che l'autorità gioca all'interno della co­munità cristiana. Soltanto se veramente si stabilisce una con­vergenza tra questi due poli che oggi sembrano per molti aspetti antitetici si realizza quell'incontro tra autorità e obbedienza che costituisce uno dei motivi fondamentali della crisi della Chiesa odierna. Questo sforzo deve essere fatto attraverso una lunga riflessione, ma soprattutto deve avvenire attraverso la creazione della comunità, cioè attraverso un impegno costante, diuturno a costruire la comunità cristiana, senza la presunzione di volere semplicemente dare alla comunità cristiana delle strutture perfette, perché essa si costruisce soltanto nella misura in cui veramente si vive insieme un'esperienza di fede. Certamente nonostante tutto una tensione tra autorità e libertà sussisterà sempre; sarebbe utopistico, platonico pensare a una conciliazione perfetta. Ma io credo che questa tensione che, d'altra parte, è fruttuosa, tenderà a sfumarsi e soprattutto a diventare cristiana quanto più il discorso sull'autorità e sul­l'obbedienza verrà chiarificandosi e soprattutto quanto più sul piano esistenziale i rapporti tra colui che detiene l'autorità e colui che invece ha il compito di obbedire all'autorità diventeranno sempre più semplici, sempre più realistici, sempre pii spontanei, sempre più chiari; in una parola quanto più divente­ranno autentici rapporti di amore che si potranno instaurare soltanto nella misura in cui davvero si vive si crede e si aderisce totalmente a una comunità di fede.

Login

Valid XHTML 1.0 Transitional Valid CSS!