Problemi di vita in un cristiano d'oggi
Il popolo di Dio nelle realtà terrestri
sintesi della relazione di Giannino Piana
Verbania Pallanza, 10 aprile 1970
Come il popolo di Dio può vivere in rapporto di profonda comunione con le realtà terrestri?
Discorso della povertà cristiana.
IL POPOLO DI DIO IN CAMMINO NELLE REALTÀ TERRESTRI
di Giannino Piana
Il tema che questa sera propongo alla vostra riflessione è un tema molto interessante anche se difficile e complesso. E mi sembra che, per chiarirne un po' il senso, sia necessario in primo luogo cercare di individuare qual è il rapporto che sussiste tra la Chiesa e il mondo, per fermare poi, in un secondo momento l'attenzione su quello che deve essere l'atteggiamento del cristiano di fronte alle realtà terrestri.
Io vi offrirò soltanto alcune indicazioni volutamente schematiche e, spero anche, sufficientemente chiare, che vi consentano poi di riflettere in gruppo.
1) IL RAPPORTO CHIESA-MONDO NELLA STORIA
Devo dire che l'affrontare il problema del rapporto Chiesa-mondo non è cosa facile, soprattutto perché ci si imbatte in due ordini di difficoltà. Anzitutto una difficoltà che potrebbe sembrare banale ma che è invece abbastanza rilevante, di carattere terminologico, per la varietà dei significati che, nel corso dei secoli, i termini "Chiesa" e "mondo" sono venuti assumendo; in secondo luogo una difficoltà di carattere storico: mi sembra impossibile valutare il problema del rapporto Chiesa-mondo senza tener conto della sua evoluzione storica.
Quindi, premetterò all'analisi biblico-teologica, che costituirà il centro della nostra riflessione di questa sera, un tentativo di chiarificazione dei termini Chiesa-mondo e poi un tentativo di interpretazione del cammino storico di questa problematica.
a) - Il significato dei termini
Per quanto riguarda il significato dei termini, mi pare sia anzitutto difficile tentare di dare una definizione univoca di "Chiesa", perché il termine "Chiesa" comporta, a mio avviso, almeno due aspetti che sono tra di loro complementari, come giustamente il Vaticano II ha rilevato. Leggendo la costituzione del Vaticano II "Lumen Gentium" sulla Chiesa, si ha l'impressione di imbattersi in due definizioni non dico contrastanti ma certo non del tutto coerenti di "Chiesa". La prima e più fondamentale è quella secondo cui la Chiesa è la convocazione che Dio fa in Cristo di tutti gli uomini alla salvezza. In questo senso Chiesa e mondo si identificano: la Chiesa è la chiamata universale dei popoli alla salvezza che si è realizzata attraverso il Cristo e che continua mediante quei segni che
egli ci ha lasciato.
La seconda vede invece la Chiesa come quell'insieme di mezzi, di elementi istituiti da Dio per costituire gli uomini in suo popolo, in popolo di Dio. Questi elementi, sottolineano molti teologi, non sono propriamente del mondo, pur essendo stati posti nella storia e perciò nel mondo.
Nasce, mi pare, di qui quella ambiguità che non è soltanto terminologica ma anche reale, per cui per un certo aspetto sembra sussistere un'unità profonda tra Chiesa e mondo, per
un altro aspetto sembra invece sussistere una emergenza della Chieda sul mondo.
La Chiesa è il mondo in quanto convocato da Dio alla salvezza che si è realizzata nel Cristo; però la Chiesa è anche un dono che viene dall'alto, che non è soltanto storico;
è, come alcuni dicono, un fatto metastorico.
Voi capite come questi due aspetti della Chiesa sono tra di loro complementari. Forse non si è giunti ancora ad una chiarificazione o forse, è meglio dire, la chiarificazione
è impossibile perché siamo di fronte ad una realtà che è di sua natura misteriosa.
Difficile è pure definire il termine "mondo", perché nella teologia, e prima ancora nella rivelazione, questo termine è venuto assumendo significati diversi. Troviamo nella rivelazione almeno tre significati che vengono dati al termine "mondo".
Secondo una prima linea che è senza dubbio presente nella rivelazione neotestamentaria, il mondo è la realtà in quanto ostile alla salvezza: quel mondo per cui Cristo non ha
pregato, per il quale ha detto ai suoi discepoli "Voi non siete del mondo". S.Giovanni insiste molto su questo concetto di mondo inteso come mondo del peccato, come mondo corrotto, come presenza del male; addirittura egli personifica questo mondo: è il maligno in quanto è presente nella storia dell'uomo.
C'è poi una seconda accezione nella rivelazione del termine "mondo", ed è il mondo in quanto complesso della realtà creata. I Padri hanno spesso celebrato il mondo; essi parlano con entusiasmo, direi quasi con enfasi, di questo mondo creato che già la letteratura vetero-testamentaria ci faceva ammirare: "I cieli narrano la gloria di Dio".
Questo è un secondo aspetto, una seconda dimensione del termine "mondo" che pure è presente nella rivelazione.
Finalmente c'è una terza accezione del termine "mondo" che troviamo nella rivelazione e nella teologia. Il mondo è inteso molte volte come la storia umana vissuta in solidarietà con il cosmo, cioè la storia in quanto riceve nell'uomo e dall'uomo la sua esatta mediazione.
È in quest'ultimo senso che ovviamente io prendo questa sera, in questa conversazione, il termine "mondo", cioè il mondo in quanto storia umana vissuta in solidarietà con tutte le realtà create, che sono state, come diremo poi, nel Cristo redente e che quindi vanno verso quel punto "Omega", come direbbe Theilard de Chardin, che è la convergenza di tutte le cose in Cristo.
Questo mondo è totalmente immerso nella redenzione di Cristo, cioè è il mondo che tende verso la pienezza della salvezza; tuttavia è un mondo ancora confuso, è un mondo in cui sussiste la lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre, per usare delle immagini che sono bibliche; è, se volete, e qui potremmo rifarci a diverse immagini evangeliche, il campo in cui convivono il buon grano e la zizzania, la rete entro la quale si trovano pesci buoni e pesci cattivi.
b) - Analisi storica
Più importante senza dubbio il discorso storico dei rapporti Chiesa-mondo. Io so che voi avete sentito delle lezioni di storia della Chiesa che senza dubbio, hanno evidenziato moltissimi di questi aspetti; io semplicemente questa sera mi accontenterò di farvi riflettere su alcuni punti in modo estremamente schematico.
Mi pare che analizzando in chiave storica il problema dei rapporti Chiesa-mondo sia opportuno distinguere grosso modo tre periodi.
Il primo periodo è quello della Chiesa primitiva.
Questo periodo è fondamentalmente caratterizzato da una visione negativa del mondo e spiegherò le ragioni di questa visione.
Anzitutto la Chiesa si trovava a dover fronteggiare in quel tempo un particolare mondo, il mondo greco-romano, che era in antitesi alla Chiesa; ricordiamo tutta una letteratura della Chiesa primitiva che contrappone apologeticamente il Cristianesimo alla concezione dei valori che è tipica del mondo greco-romano, che aveva una fisionomia evidentemente pagana. La Chiesa, secondo molti Padri dei primi secoli, è un mondo accanto al mondo; il cristiano è una razza a parte, separata.
Il discorso evangelico si contrappone radicalmente ai piani di valori del mondo pagano.
Oltre a questo primo motivo, ce ne sono altri e, mi pare, i principali sono la novità assoluta del cristianesimo e, se volete, l'attesa della fine dei tempi come di un fatto imminente. Si aveva l'impressione, nella Chiesa primitiva, che fosse vicina la fine dei tempi e quindi le preoccupazioni erano prevalentemente di tipo spirituale.
L'esaltazione del martirio e della verginità che caratterizzano questo periodo della Chiesa oltre a derivare dal fatto che si era agli inizi del Cristianesimo e che quindi si sentiva più vivamente l'urgenza di certi valori, era anche dovuta all'attesa della fine dei tempi come imminente.
Questo sottolineare la dimensione escatologica dell'esistenza cristiana indubbiamente si ripercuoteva anche sul modo di concepire i rapporti Chiesa-mondo.
Tuttavia è da notare come accanto a questa visione negativa del mondo, esistevano anche in molti Padri delle prospettive estremamente positive. Molti pensavano al mondo nella visione paolina, e cioè pensavano al mondo come al complesso delle realtà che il Cristo ha unificato, ha redento, e che vanno incontro al giorno finale quando la purificazione avverrà in modo radicale e definitiva.
D'altra parte, anche la visione negativa che troviamo presente in molti Padri, e per certi aspetti in un certo atteggiamento delle comunità cristiane (pensate al rifiuto da parte di molti cristiani di collaborare coi pagani, di entrare nella vita sociale, politica), non esprimeva un rifiuto del mondo ma piuttosto l'esigenza di rinnovare profondamente il mondo. Ci si era accorti che quel mondo di fronte al quale ci si trovava non era certamente un mondo che viveva secondo prospettive cristiane. Di qui l'esigenza di rinnovarlo profondamente, al punto che alcuni autori e, primo fra tutti, l'autore della lettera a Diogneto, che la costituzione "Lumen Gentium" sulla Chiesa riporta, parlano del cristiano come anima del mondo: come l'anima è nel corpo ciò che dà la vita, così il cristiano deve essere nel mondo colui che lo vivifica, che lo trasforma, che dà al mondo un nuovo impulso, un nuovo orientamento.
Questi sono, in modo estremamente schematico, i caratteri di questo primo periodo della Chiesa a proposito del problema dei rapporti Chiesa-mondo.
Nel periodo successivo, medioevale, questa visione negativa o, almeno, inadeguata del mondo tende ad accentuarsi; e qui dobbiamo fare un'analisi seria delle motivazioni, perché mi pare che alcune motivazioni medioevali, relative alla concezione dei rapporti Chiesa-mondo, persistano tutt'oggi, abbiano cioè lasciato nella teologia, nel costume cristiano, nella vita della Chiesa, una traccia determinante che giunge fino ai nostri giorni.
Una prima ragione di questa visione inadeguata dei rapporti chiesa-mondo deriva senza dubbio dalla assolutizzazione della spiritualità monastica come unica forma di spiritualità.
La spiritualità monastica, ovviamente, portava i cristiani a disprezzare i valori terrestri.
Pensiamo, per fare degli esempi, alla concezione negativa della sessualità e all'esaltazione della verginità in contrapposizione allo stato matrimoniale; pensiamo alla svalutazione dell'amore nel matrimonio e alla elaborazione della dottrina per cui il fine vero, primario, del matrimonio,è la procreazione, in quanto l'amore è considerato, soprattutto nella sua dimensione sessuale, come qualcosa di non confacente ad una visione autenticamente cristiana dei rapporti umani; pensiamo al tema della "fuga mundi" che si è venuto sviluppando in questo tempo e che ha portato a colorire la spiritualità di certe tonalità disumanizzanti che ancora oggi sono presenti e dalle quali difficilmente riusciamo a liberarci.
Una seconda ragione mi pare sia da ricercarsi nella lotta che viene progressivamente a svilupparsi tra i cosiddetti due poteri: il potere temporale e il potere ecclesiale. I rapporti in questo periodo sono estremamente confusi (qui l'analisi storica dovrebbe essere condotta avanti a lungo per giungere ad una chiarificazione); tuttavia mi pare di poter dire almeno questo, che cioè il problema ecclesiale veniva spesso identificato con un problema di poteri e di autorità: la Chiesa in fondo si sentiva come una cittadella all'interno del mondo, contrapposta al mondo; il potere religioso si contrapponeva tanto radicalmente al potere politico, al punto che la stessa autorità ecclesiastica ricalcava i modelli di quella civile: lo stesso stile di obbedienza, di rapporti con la comunità con i cosiddetti sudditi (la parola è brutta ma veniva purtroppo usata), gli stessi modelli autoritari di comportamento. La ecclesiologia, in conseguenza di ciò, è diventata un capitolo di diritto pubblico. Pensiamo alla concezione che, fino a prima del concilio era abbastanza diffusa, della Chiesa come società perfetta: essa deriva direttamente da questa impostazione del discorso per cui la Chiesa fa sua una certa struttura politica, sociologica tipica del modo di essere della società di allora, e quindi diventa un potere contrapposto ad un altro potere.
Questa visione della Chiesa "società perfetta" è giunta fino ai nostri giorni e, probabilmente, ancora oggi è difficile liberarsene totalmente.
Molte tracce di tale visione si ritrovano in atteggiamenti che la Chiesa di oggi assume; nonostante il Concilio abbia molto aperto sul piano dottrinale il discorso sulla Chiesa, tuttavia sul terreno concreto, operativo, certe prese di posizione della Chiesa, ad esempio le forme di concordato con gli Stati o ingerenze anche molto recenti nei confronti della politica italiana, recano il segno di questa concezione della Chiesa come società perfetta che si contrappone ad un'altra società perfetta. Esse non tengono sufficientemente conto del fatto che la Chiesa è immersa totalmente nella realtà del mondo e non può definirsi come società nel senso preciso della parola e soprattutto come società perfetta.
Naturalmente ha giocato moltissimo su questa concezione della Chiesa il diritto romano che è entrato a far da padrone nella ecclesiologia.
In fondo, i trattati di ecclesiologia preconciliari erano ancora, grosso modo, dei trattati di diritto. È stata per prima la "Mistici Corporis", sia pure con tutti i limiti che le sono inerenti, a dare una svolta decisiva alla visione della Chiesa ed a condurci così da una visione prevalentemente giuridica ad una visione prevalentemente teologica della Chiesa.
Terza ragione, il dualismo natura-grazia: ricordate tutta la polemica anti-pelagiana e la influenza che questa polemica ha avuto nella storia della Chiesa e quindi nella concezione dell'esistenza cristiana.
Sostanzialmente è prevalsa una visione pessimistica della natura; visione che è entrata nella stessa ascetica della vita cristiana.
Un esempio classico di questa visione negativa della natura e di questa contrapposizione natura-grazia è l'Imitazione di Cristo, che segna un momento culminante della "devotio moderna" essa è senza dubbio un'espressione caratteristica di questa mentalità pessimistica, negatrice dei valori umani, che fonda la vita religiosa soltanto su presupposti di carattere soprannaturale, contrapponendosi ai valori umani che invece devono giustamente essere integrati.
La penultima ragione è la frattura che si è venuta progressivamente determinando fra religione e morale o, se volete, tra religione e vita. Il pessimismo morale che ha poi trovato il suo sbocco nel protestantesimo (anche se il protestantesimo ha esaltato potentemente l'uomo in una prospettiva religiosa, non risolvendo però il problema dei rapporti natura-grazia) ha portato ad una concezione negativa del mondo e dell'impegno cristiano.
La religione si veniva sempre più assolutizzando come un insieme di principi, di verità astratte e, in altro campo, come un coacervo di pratiche cultuali. Il culto si distaccava sempre più dalla vita; e questo distacco ha portato con sé quella dilacerazione profonda tra religione e vita di cui ancora portiamo le conseguenze. C'è tutta una mentalità cristiana, in questo senso, da rifare!
La religione per molti è soltanto una cornice o un abito che si porta addosso, ma che non si inserisce profondamente nella vita, che non sostanzia di sé la vita.
È proprio da questa frattura fra religione e vita che sorgono moltissimi problemi di oggi, tra i più gravi, per esempio, quello di un culto sempre più disincarnato che è rimasto come momento magico e, dall'altra parte, di una vita che è sempre meno impegnata a far maturare i valori cristiani
Ultima ragione, l'assenza della dimensione storico-cosmica della salvezza. Il cristianesimo diventa sempre più astratta speculazione metafisica. La religione cristiana si fa religione delle verità astratte, delle verità da conservare senza discutere, soprattutto delle verità che non devono essere incarnate nella vita ma piuttosto contemplate, in modo alienante e acritico. Questo è dipeso moltissimo dal fatto che la teologia, mentre nei primi tempi della Chiesa veniva fatta all'interno del mistero cristiano celebrato nella liturgia, progressivamente si è distaccata da questo ambiente naturale ed è diventata semplicemente una sorta di elucubrazione fatta nelle scuole.
I diversi ambienti in cui per esempio la teologia morale è venuta elaborandosi, sono facilmente determinabili nella storia ed hanno un'influenza notevole sul modo di concepire la teologia morale stessa.
In un primo tempo la teologia morale veniva fatta quasi interamente nella predicazione, cioè nell'omiletica e nella catechesi preparatoria ai sacramenti, e allora naturalmente si sviluppava un contatto immediato tra vita e riflessione, tra vita e pensiero cristiano: pensate alle omelie dei Padri della Chiesa primitiva che sono intessute di esempi concreti e sono contemporaneamente di una profondità ineguagliabile. Se le omelie che S. Agostino faceva ai cristiani della sua Chiesa africana venissero oggi proposte a certi pubblici delle nostre Chiese, probabilmente suonerebbero totalmente incomprensibili; allora invece erano comprensibili perché c'era questo legame stretto tra la vita e la riflessione, e la riflessione nasceva spontanea dalla vita. In un secondo momento, invece, questa riflessione passa dalla liturgia che è un ambiente vitale, esistenziale (intendo per liturgia non il momento cultuale, ma la liturgia della vita) all'ambiente della scuola. Naturalmente in questo momento la teologia guadagna in scientificità. (la sistemazione teologica dei medioevali è senza dubbio molto ricca), però comincia a perdere il contatto con l'esistenza.
In un terzo momento, addirittura, si scinde quell'unità tra dogma e morale che nella scolastica migliore ancora esisteva e si arriva così alla dilacerazione completa della vita e della riflessione cristiana; per cui da una parte la dogmatica diventa un'astratta presentazione della verità, dall'altra la morale diventa sempre più casistica giuridica elaborata sotto l'influsso del diritto romano.
I valori di fondo vengono progressivamente banditi e si riduce la realtà cristiana ad una, serie di norme, che schematizzano l'uomo.
Di qui la nascita di una religione sempre più lontana dal mondo e dall'altra parte il sorgere di un cosmismo e di un umanesimo senza Dio.
Tutta la cultura post-medioevale, la cultura moderna, è fortemente viziata da questa frattura che ormai si è operata tra religione e vita.
Finalmente arriviamo al terzo periodo, il periodo contemporaneo che è caratterizzato da una situazione molto fluida, Infatti se da una parte si manifestano con una certa chiarezza i segni del superamento della visione medioevale, dall'altra permangano ancora, purtroppo drammaticamente, certi elementi della concezione medioevale del rapporto Chiesa-mondo, con tutte le conseguenze negative che questi elementi portano con sé. Tra queste, la più importante è proprio lo scarso interesse che ancora oggi la fede manifesta (e la teologia come riflessione sulla fede) per la vita terrestre; cioè la fede è ,ancora troppo spesso concepita come evasione dal mondo, mentre è viva l'esigenza degli uomini del nostro tempo di collocarsi nel mondo e nella storia. Pensate a come, le filosofie, le culture moderne, la stessa vita di oggi con tutti i suoi dinamismi, siano sensibili alla dimensione storica dell'uomo, del destino umano. E pensate a come, per tanto tempo, abbiamo elaborato una teologia che era invece totalmente avulsa da queste realtà, che ci prospettava delle soluzioni di problemi che erano esclusivamente metastorici.
Oggi poi questo stato di cose si è venuto aggravando anche a causa del fenomeno della secolarizzazione. Essa è per un verso lo scotto che paghiamo di un lungo processo di evasione della Chiesa dagli impegni del mondo; per altro verso è un fenomeno positivo perché rappresenta una riscoperta del valore delle realtà profane, che vengono man mano assumendo la loro autonomia dal fatto religioso, e che pretendono di essere rispettate intuito il loro valore.
La secolarizzazione è il risultato di un lungo processo storico. Si è partiti dalla autonomia della politica, dalla rottura cioè di quel rapporto stretto che nel medioevo legava lo Stato alla Chiesa.
In un secondo momento è la scienza a rivendicare i suoi diritti di libertà di ricerca e ciò avviene in contrasto con la Chiesa. In un terzo momento, soprattutto nel secolo scorso, è la cultura che si secolarizza e cioè rivendica i suoi diritti di autonomia e invita la Chiesa al rispetto di quei valori che non le appartengono direttamente anche se devono trovare la loro collocazione ultima in una visione cristiana, piena, dell'uomo e della storia umana. Fortunatamente il Vaticano II ha superato la tradizionale visione negativa dei rapporti Chiesa-mondo e ci ha invitato a recuperare l'unità della Chiesa con il mondo; quella unità che, d'altra parte, alcuni avevano già prima prospettato(qui si può ricordare la teologia di Teilhard de Chardin che, indubbiamente, ha segnato una grossissima svolta nel pensiero della Chiesa. Si può ricordare soprattutto perché a noi più vicina, la teologia di Chenu che non è stata minimamente scavalcata dal Concilio; anzi direi che è ancora al di là del Concilio).
2 )LA RIFLESSIONE BIBLICO-TEOLOGICA
Fatta questa premessa di carattere storico, vorrei tentare di individuare i punti fondamentali che la rivelazione e la riflessione teologica ci offrono per una soluzione di questo problema. Sono punti decisamente evidenziati dalla teologia attuale anche se, spesso, in modo confuso; si è infatti ancora in fase di ricerca e lo sforzo è quello di elaborare delle sintesi provvisorie di una realtà che è difficilmente componibile in unità.
a) - L'unità della creazione
Mi pare che sia anzitutto fondamentale un primo elemento che la rivelazione ci offre e che la teologia di oggi ha ricuperato: l'unità della creazione.
Il mondo, nella prospettiva della creazione, è l'universo creato per l'uomo; esso viene da Dio e ritorna a Lui.
Dio ha creato tutte le cose e le ha create buone, ci dice il testo di Genesi. Ha posto l'uomo al centro dell'universo perché dominasse le cose, cioè perché le portasse a compimento, aiutandole nella loro evoluzione. Il punto di unità e di convergenza di tutto il piano creativo è senza dubbio il Cristo.
S.Paolo dice: "In Lui tutto è stato creato, da Lui tutto è stato redento, a Lui tutto ritorna". Teilhard de Chardin osserva essere Cristo il punto alfa e il punto omega di tutta la realtà da Lui tutta la realtà ha assunto origine, a Lui tutta la realtà converge.
Qual é la posizione della Chiesa all'interno di questa unità fondamentale del piano creativo? La Chiesa è al servizio di questo disegno, cioè la Chiesa è la creazione sulla strada del ritorno; è il segno che ci indica che la creazione torna a Dio, che sta lentamente procedendo verso il suo compimento. In questo senso, quindi, la Chiesa non differisce dal mondo, ma assume su di sé tutta la realtà del mondo; è perfettamente identificabile con il mondo, intendendo per mondo la realtà creata che è uscita dalle mani di Dio ed è stata finalizzata all'uomo perché la riportasse al suo creatore.
Questo mi pare il primo elemento di una seria riflessione sul mistero del rapporto Chiesa-mondo.
b) - L'unità della redenzione
In secondo luogo l'unità della redenzione dopo il peccato. Notate che anche qui schematizzo il discorso, perché il piano creativo e il piano redentivo sono un'unica realtà nella storia della salvezza.
In fondo che cosa è stata la redenzione iniziatasi con il mistero dell'incarnazione? È stata, da parte di Cristo, l'assunzione di tutto l'umano e oserei dire di tutto il mondano.
La prospettiva paolina in questo senso è estremamente illuminante. S.Paolo parla della creazione che, dopo il peccato, ha sofferto come le doglie del parto e ora ancora soffre perché attende e prepara misteriosamente il ritorno del Cristo, la sua seconda venuta.
Il mondo e la storia sono totalmente coinvolti in questo disegno di salvezza, che ha come scopo fondamentale quello di ricapitolare tutte le cose in Cristo, secondo quanto dice Paolo; "Tutto è nostro, noi siamo di Cristo, Cristo è di Dio." È questo il senso della storia, l'interpretazione più profonda della storia in chiave cristiana. Tutto è nostro, cioè tutta la realtà creata ci è stata data perché noi la adoperassimo, meglio ancora perché noi facessimo comunione con lei, in questo cammino del ritorno che essa realizza passando attraverso Cristo; Cristo diviene così il mediatore di ogni cosa in quanto incorpora a sè tutta la realtà.
In questo disegno della redenzione si capisce meglio qual è la posizione della Chiesa; essa è lo strumento di questa ricapitolazione.
Proprio per questo la Chiesa è totalmente al servizio del mondo per la realizzazione del regno di Dio; è uno strumento, la Chiesa, non va vista quindi come fine. Quante volte abbiamo fatto questa confusione di intendere la Chiesa come il fine ultimo di tutta la realtà, il fine del nostro agire cristiano.
Se la Chiesa è uno strumento, lo strumento del Regno, allora occorre porre l'accento prima su questo regno che edifichiamo nella misura in cui costruiamo il mondo, la storia, in una certa prospettiva di valori; e soltanto secondariamente deve essere posto l'accento sulla Chiesa. La Chiesa infatti ad un certo punto scomparirà, sarà il regno di Dio che prenderà forma, e nel quale tutti saremo in Cristo consumati.
c) - L'unità della vocazione umana
Finalmente, ultimo punto di riflessione, l'unità della vocazione umana. Se c'è questa unità profonda tra Chiesa e mondo, indubbiamente la vocazione del cristiano sarà una sola, cioè sarà quella di rispondere alla chiamata che Dio fa all'uomo in Cristo; all'uomo inteso come l'uomo di questo tempo, l'uomo inserito in questa storia, cioè in questa realtà mondana. Perciò la vocazione del cristiano non può essere collocata come su due piani: su di un piano c'è la vocazione di me in quanto cristiano, su un altro piano c'è la vocazione di me in quanto uomo. Io sono insieme cristiano e uomo e realizzo pienamente il mio disegno di salvezza nella misura in cui mi inserisco nel mondo, e faccio progredire il mondo realizzando la storia degli uomini.
Ecco perché, in questa visione, l'impegno del cristiano nel mondo diviene impegno essenziale; ecco perché non si può realizzare il cristianesimo se non con il mondo e nel mondo, secondo le leggi dell'incarnazione. D'altra parte il Cristo ci offre l'esempio più bello e significativo; egli si è immerso totalmente nella condizione umana, ha accettato tutto l'umano fino in fondo, perfino la morte.
La Chiesa, inserita in questo contesto della vocazione autentica dell'uomo visto come partecipe del mistero della creazione e della redenzione, dovrà abbracciare tutto il destino dell'uomo, dovrà per così dire prendere carne nelle vicende umane, immergersi continuamente nel mondo, l'essere dentro fino in fondo. Non c'è niente di umano, di mondano che possa essere estraneo alla Chiesa o ai cristiani; non c'è niente di umano o di mondano cui il cristiano debba contrapporsi, non c'è niente di umano o di mondano che il cristiano debba in qualche modo rifiutare, perché Cristo ha redento tutto, ha assunto tutto, perché la storia dell'uomo è diventata la storia del cristiano; una storia che abbraccia, quindi, tutto il destino dell'uomo.
Il compito della Chiesa sarà allora quello di leggere nel cammino del mondo e della storia il paziente emergere del progetto di Dio.
Mi pare che in questo senso si possa comprendere quella che normalmente viene definita dai teologi, con una parola che non so fino a che punto valga come tutte le parole dei teologi, la emergenza della Chiesa sul mondo. È emergente la Chiesa sul mondo in quanto fa emergere nel mondo il progetto di Dio, segnala il progetto di Dio. Proprio secondo questa indicazione la Chiesa viene definita dalla costituzione "Lumen Gentium" il "sacramento" cioè il segno visibile di ciò che lo Spirito realizza per condurre l'umanità alla pienezza; il segno percepibile di questo cammino dell'umanità che va incontro alla salvezza.
In questo senso allora si può parlare, e alcuni hanno utilizzato questo tipo di linguaggio, di funzione interpretativa della Chiesa rispetto al mondo; non però nel senso di una condanna del mondo (almeno del mondo inteso come la storia dell'uomo e del cosmo) ma nel senso di una interpretazione del significato profondo della storia, di un immergersi più profondamente nella realtà del mondo per coglierne il progetto di Dio.
Certo questa concezione della Chiesa che ho tentato di offrirvi attraverso questi tre punti conserva un'ambiguità permanente; rimaniamo di fronte ad un mistero che noi ci sforziamo con parole umane di accostare ma che è, nella sua natura più profonda, impenetrabile. L'ambiguità mi pare sia soprattutto in questo: da una parte la Chiesa è il mondo che va verso la pienezza della glorificazione finale, quella pienezza che si realizzerà nel Cristo, dall'altra parte la Chiesa si diversifica dal mondo nel senso che è il frutto di un intervento dall'alto, di un dono di Dio, che, pur calandosi totalmente nella storia, è però al di là della storia ed è il senso ultimo della storia, la sua interpretazione profonda.
Per una parte, quindi, la Chiesa impara dal mondo: la teologia dei segni dei tempi che il Vaticano II ci ha presentato ha questo valore essenziale. Ricordo di aver sentito una conferenza di Mario Gozzini che diceva, nel periodo del concilio, quasi con commozione che finalmente i segni dei tempi erano diventati una "categoria teologica", cioè la realtà profana, mondana, era diventata un elemento di interpretazione del messaggio cristiano, essenziale all'interpretazione del messaggio; per cui - aggiungeva - non si può fare teologia oggi, se non si tiene conto di questa realtà. Non si può dire: "abbiamo la parola di Dio". Sì, la parola di Dio scritta è una grandissima cosa; ci illumina, ci giudica, ci aiuta a leggere la realtà; però questa parola di Dio la dobbiamo continuamente mettere a confronto con l'altra parola viva di Dio che sono le realtà quotidiane, i segni dei tempi, la storia del mondo, la storia dell'umanità.
Per un altro verso c'è una diversificazione della Chiesa rispetto al mondo; la Chiesa è "altra", cioè si pone in mezzo al mondo come una realtà a parte. È una tensione che indubbiamente esiste, quella tensione per cui il Cristo dirà: "Voi siete nel mondo, ma non siete del mondo". Permangono ancora certi segni indelebili che il peccato ha lasciato nella realtà e sono proprio questi segni a determinare l'ambiguità della situazione.
Sappiamo che la Chiesa continua e ripete il mistero di Cristo. Se voi analizzate storicamente l'evolversi delle dottrine cristologiche nella Chiesa primitiva vi imbattete in questo continuo sforzo che veniva fatto, da parte dei diversi teologi, sconfessati magari più tardi dai concili, di comporre in unità le due dimensioni del Cristo: Cristo uomo e Cristo Dio. E abbiamo così da una parte l'eresia dei Doceti che mettono più fortemente l'accento sulla divinità di Cristo, e proprio per l'impossibilità di conciliare questa divinità di Cristo con la sua umanità, arrivano a negargli la natura umana, dall'altra parte abbiamo invece gli Ariani che sottolineano marcatamente la presenza della natura umana nel Cristo, ma concludono allora: Cristo non è Dio come il Padre.
Questa tensione si riproduce un po' in tutta la storia della Chiesa ed è la tensione oggi presente quando si tenta di interpretare il mistero della Chiesa, che è mistero di convivenza del divino e dell'umano.
È questa la fondamentale ambiguità o tensione che nessuna teologia riuscirà mai a risolvere e che comunque non va risolta, né nel senso di una negazione dell'umano, né nel senso di una negazione del divino, ma soltanto in una linea interpretativa che ci faccia cogliere la possibilità di compenetrazione profonda dell'umano e del divino.
3) L'ATTEGGIAMENTO DEL CRISTIANO
Due parole, allora, per delineare quale deve essere l'atteggiamento del cristiano di fronte alle realtà terrestri.
L'ambiguità che abbiamo riscontrato presente nella delineazione del mistero della Chiesa si fa ancora più acuta quando si esamina l'atteggiamento del cristiano di fronte alla realtà del mondo. Egli deve vivere secondo il valore assoluto, escatologico, di una salvezza che già si è realizzata, ma deve contemporaneamente vivere nelle condizioni relative della storia. In fondo qual è l'unico assoluto cui il cristiano può fare riferimento? È il Cristo venuto e che viene, è la realtà del regno di Dio presente e che deve ancora venire; questo è il vero, l'autentico assoluto cristiano, quello a cui devono fare riferimento tutte le norme morali, tutti gli atteggiamenti della Chiesa nel mondo. Tuttavia questo assoluto cristiano, questo valore ultimo della escatologia, noi lo dobbiamo vivere passando attraverso l'esperienza del tempo, nelle condizioni mutevoli della storia.
Quale dovrà essere l'atteggiamento cristiano di fronte a questa realtà? Io lo riassumerei in una parola forse abusata ma che ha indubbiamente un profondo valore cristiano: povertà.
Povero, per Cristo, è colui che possiede come se non possedesse, è colui che può seguirlo dovunque senza preoccuparsi di ciò che lascia a casa, è colui che non volta le spalle indietro ma che procede, è colui che si sente così insignificante da non avere neppure il coraggio di avvicinare il Cristo. Povero è l'uomo itinerante, l'uomo alla ricerca, l'uomo che non possiede e che sa soltanto di essere posseduto da un dono, il dono di Dio, e per questo va incontro gioiosamente al futuro con una preoccupazione sola: quella di conservare il dono e di farlo fruttificare. Ecco chi è il povero, che è allora totalmente disponibile, è uomo fino in fondo, perché è insicuro; e forse ciò che caratterizza più profondamente l'uomo è proprio questo stato di insicurezza, questo non sapere rispondere da solo ai problemi della vita. Il catechismo olandese ha una bellissima pagina introduttiva proprio su questo senso della vita umana e ci richiama a questa disponibilità totale che infondo è un avere coscienza, che non sappiamo da soli risolvere i nostri problemi.
Si fa sentire quindi il bisogno di un altro che ci aiuti, che dia un'interpretazione alla nostra storia di miseria, di debolezza, di peccato.
Ovviamente qui parlo di povertà in senso spirituale, come atteggiamento interiore, cioè di povertà come questa continua ricerca, questa continua disponibilità, questo continuo stato di insicurezza.
Questa povertà si deve anzitutto esplicitare nei rapporti con Dio. Essa diventa la coscienza della totale dipendenza da Lui e nello stesso tempo la coscienza dell'assoluta gratuità del continuo dono suo. È il senso della totale dipendenza: non posso pretendere nulla, non merito nulla, dipendo soltanto.
Devo fare il vuoto di me dentro me stesso (questo è il mio compito) per poter ricevere in misura sempre maggiore l'amore che il Padre continuamente mi riserva. Questa povertà forse oggi la dobbiamo anzitutto ricuperare nel concepire Dio come altro; in fondo la teologia radicale, la teologia della secolarizzazione di cui oggi tanto si parla, e che deve essere, secondo me, tenuta in molta considerazione ci aiuta a fare la scoperta del Dio
come altro, che è la scoperta della nostra insufficienza umana, del nostro limite, della relatività di tutte le cose; dico tutte includendo la stessa rivelazione. La Bibbia è relativa, il magistero è relativo, le posizioni che la Chiesa assume sono relative, perché c'è un unico assoluto che è appunto il dato escatologico, il Cristo che ritorna, di fronte al quale tutto il resto è mezzo. Ci serve, indubbiamente, lo dobbiamo utilizzare; però è soltanto la parola di Dio incarnata, detta una volta per tutte, che rimane eternamente e che costituisce il punto di orientamento di tutta la nostra storia umana. Ecco che cosa significa essere -poveri: significa fare questo vuoto; essere totalmente aperti a ricevere l'amore di Dio, a ricevere il dono, che Dio continuamente ci elargisce.
Questo può essere un primo aspetto della pratica della povertà che però non tocca il nostro problema in modo così diretto come è necessario. Non basta realizzare la povertà nei confronti di Dio ma occorre realizzare la povertà soprattutto nel rapporto con gli altri, col mondo, con le cose.
Qui entriamo nel tema del nostro discorso: che cos'é la povertà?
È anzitutto, mi pare, non possedere le cose, non nel senso che non ne possiamo usare, che non ne dobbiamo avere (prima ho sottolineato l'esigenza di essere presenti nel mondo e di vivere intensamente, fino in fondo, la vita degli uomini), ma nel senso che non dobbiamo appropriarci degli uomini e delle cose perché appropriarsene vuol dire sentirli come esclusivamente nostri, significa sfruttarli, utilizzarli per acquistare prestigio, potere, fama e ricchezza. Quando avviene nei confronti degli uomini è una cosa terribile ma lo è anche quando avviene per le cose, perché in questo modo si diventa schiavi delle cose cioè condizionati da esse, mentre Dio ci chiama a godere della piena libertà dei figli di Dio, vuole che portiamo a compimento quella liberazione che ci ha lasciato come dono. Quindi povertà non significa possesso e tuttavia non significa neppure rinuncia. Dio ha creato le cose perché l'uomo godesse della creazione e la completasse attraverso la sua opera trasformatrice e il suo dominio sulla natura. In questo senso Dio ci ha lasciato autonomi e perciò vale l'analisi che la secolarizzazione ci ha costretti a compiere del rapporto Chiesa-mondo che ha portato ad un riscatto di autonomia delle realtà terrene. Queste cose infatti Dio ce le ha lasciate perché fossimo noi a trasformarle, a scoprirne le leggi profonde, fossimo noi in piena libertà a utilizzarle fino in fondo.
Dio, inoltre, ha creato non soltanto le cose ma ha creato la donna, interpretando il bisogno di appoggio che l'uomo ha, l'esigenza di aiuto e soprattutto di amicizia. Tutte queste realtà sono per l'uomo che non deve rinunciarvi.
Se quindi l'atteggiamento di autentica povertà non è possesso delle cose e non è neppure rinuncia, nel senso di rifiuto delle cose, ma è un entrare nelle cose fino in fondo, quale sarà l'atteggiamento cristiano? Non potrà che essere un atteggiamento di comunione: comunione da intendere come dono di sé con la consapevolezza che soltanto donandosi si riceve e si riceve per donare di più. È profondamente evangelica questa espressione "chi perde la sua anima la trova, chi invece cerca la sua anima la perde".