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sintesi della relazione di Battista Borsato
Verbania Pallanza, 28 aprile 2007

premessa

Siamo arrivati all'ultima tappa dell'itinerario di quest'anno su "La buona notizia dell'amore nel matrimonio e nella relazione di coppia". Mai avremmo pensato nel programmare la serie di incontri che il tema della famiglia sarebbe diventato così centrale nel dibattito politico ed ecclesiale del nostro paese, coinvolgendo i temi della laicità, del rapporto tra cattolicesimo e democrazia, della responsabilità del laicato. Marginale nel dibattito purtroppo è rimasto il vangelo come "buona notizia", le cui esigenze non devono tanto fare riferimento alla costrizione delle leggi quanto alla educazione e formazione di coscienze libere e mature per mezzo della testimonianza.
Proprio a questo proposito i coniugi Benciolini nel precedente incontro sostenevano che la difficoltà a sposarsi da parte dei giovani dipende anche dal fatto che non abbiamo testimoniato la buona notizia dentro al nostro matrimonio, non abbiamo mostrato il matrimonio come una cosa bella, gioiosa, non abbiamo - come sottolineava Giannino Piana - accolto il matrimonio come vocazione a vivere il meraviglioso progetto della vita di coppia, nel donarsi continuamente rinnovato, nella comunione profonda, nella fedeltà creativa. Nel sì degli sposi - ricordava Armido Rizzi - non c'è solo il desiderio di amore eterno, ma anche l'assunzione di responsabilità nel realizzare il desiderio.
Davvero "là dove un uomo e una donna si amano traspare il volto di Dio". "E' la nostra esperienza quotidiana che ci dice - hanno sostenuto i Benciolini - che le persone che si vogliono bene, in qualunque tipo di relazione, comunicano un messaggio d'amore e sono immagine di Dio attraverso questa loro umanità".
Battista Borsato, direttore dell'Ufficio di pastorale familiare della Diocesi di Vicenza, introduce il tema corposo delle convivenze e quello dei divorziati risposati. Di lui dice Luigi Acattoli nel presentare un suo libro sui temi della famiglia: "Ecco un prete innamorato dell'amore umano ed ecco il suo libro... che unisce la lode per l'avventura umana più avvincente ed esuberante (la relazione uomo donna) con la consapevolezza della sua fragilità... Credo che i capitoli sulle convivenze e sui risposati costituiscano il meglio di quanto prodotto in Italia fino ad oggi e invito i vescovi a prenderne visione".
Una tappa del nostro percorso non è stata effettuata. E' improvvisamente mancato l'amico, il maestro, il biblista Giuseppe Barbaglio, che da più di trent'anni ci ha accompagnato nel nostro cammino di riflessione per mettere al centro della vita delle nostre comunità in modo serio la parola di Dio presente nelle Scritture. Al ricordo pieno di affetto e riconoscenza saranno dedicate future iniziative.
(g.m.)

Mi trovo pienamente in sintonia col percorso che avete fatto e che Giancarlo ha sintetizzato nell'introduzione. Le riflessioni che svolgerò vogliono essere più sollecitatrici di interrogazioni che non rassicuratrici e definitorie.
Il mio primo intervento sul tema che mi è stato proposto, di cui mi è piaciuto il titolo "fra fede, morali e legge: coppie di conviventi, di divorziati...", riguarderà le convivenze, mentre il secondo i divorziati risposati.
Sulle convivenze, ma anche sui divorziati risposati - temi che hanno aspetti comuni - vorrei fare due premesse o delineare due orizzonti.

il primato dell'uomo

Il primo orizzonte: il primato dell'uomo. La grande rivoluzione operata da Gesù è racchiusa nell'affermazione: "Il sabato è per l'uomo, non l'uomo per il sabato". Possiamo dire in maniera più graffiante: l'uomo non è per i principi, ma i principi sono per l'uomo. Con questo ci ricongiungiamo a Kant che sostiene che l'uomo, la persona umana, non è mai mezzo, ma sempre fine.
Per noi cristiani inoltre non soltanto l'uomo è il fine di un'azione, di una scelta, ma è anche il luogo interpretativo della Parola di Dio. L'amico Alberto Maggi dice: "Se non c'è nell'uomo come previa condizione un amore per gli uomini, per l'umanità, la Parola di Dio rimane incomprensibile." Per comprendere la Parola di Dio ci vuole un atteggiamento di benevolenza, di grande amore nei confronti dell'uomo.
Il rischio dell'uomo religioso è di considerare la religione come una realtà al di sopra l'uomo, una realtà a cui deve sottostare, quasi che obbedendo a questa realtà religiosa l'uomo dovrebbe perdere la sua soggettività.
Se prima c'è la realtà religiosa, se prima c'è il principio, l'uomo deve obbedire a questo principio e perde la sua soggettività. Non può derivare da Dio questa visione ed è profondamente nocivo preferire il bene della legge o della religione al bene dell'uomo.
Enzo Bianchi, in un intervento fatto ad Assisi qualche anno fa, diceva: "Abbiamo perso l'idea che la fede e il vangelo sono una chiamata a diventare uomini". La chiamata all'esistenza significa la chiamata a diventare uomini, è la vocazione alla umanizzazione. Nel Vangelo Gesù dice: "Vi farò pescatori di uomini", non di cristiani! Dio attraverso la sua Parola ci indica la strada per diventare uomini.
Ritengo che dovremmo pensare meno all'aldilà, alla vita eterna. La fede che Gesù ci propone non è per andare nell'aldilà, ma per vivere bene, con pienezza l'aldiquà.
Yves Congar, grande teologo e uno dei maggiori artefici e protagonisti del Vaticano II, (sono stati pubblicati lo scorso anno i due volumi del diario da lui tenuti negli anni 60, gli anni del Concilio e del postconcilio, fino al 65) nel giorno 10 di luglio del 63, quindi a un mese dalla morte di papa Giovanni, parlando anche di lui, scriveva: "La cosa più importante non sono le idee, ma il cuore. Certo le idee sono necessarie, ma senza il cuore non si ama l'uomo e di conseguenza non si ama Dio." Questo gigante della teologia, del pensiero, delle idee, diceva con chiarezza che il cuore vien prima delle idee. Allora se la chiesa, se noi cristiani vogliamo affrontare correttamente i problemi delle convivenze e dei divorziati risposati, dobbiamo avere come orizzonte la centralità dell'uomo, con il cuore appassionato d'amore per l'umanità.

liberarsi dagli assoluti

Secondo orizzonte: liberarsi dagli assoluti.
Oggi si dice che la verità è nomade, che sta sempre davanti a noi, e che nessuno mai può abbracciarla pienamente. Il credente, come ogni uomo che pensa, di per sé è un incessante e instancabile ricercatore della verità. E' un viandante del vero volto di Dio. Per camminare con libertà occorre non essere abitati da assoluti. Se uno possiede degli assoluti, questi assoluti, che sono in qualche modo invalicabili, impediscono di cercare la verità, impediscono all'uomo di pensare liberamente. L'unico assoluto è Dio, e l'altro assoluto è l'uomo, perché immagine di Dio. Liberarsi degli assoluti può dare il senso della vertigine. Il papa attuale chiama relativismo questa vertigine, questa mancanza di assoluti. Anche Nietzsche nella "Gaia scienza" dice che l'uomo che ha ucciso Dio, che ha perso Dio, si domanda "cosa accadrà quando ci saremo distaccati dal sole che ci illuminava?" e parla di vertigine, di sgomento. L'uomo disabitato dagli assoluti si disorienta, si sconvolge. Ma è l'unico modo per crescere, per imparare, per cercare. Ortensio da Spinetoli, in un suo articolo intitolato "Le religioni: la prepotenza degli assoluti", affermava che solo Dio è assoluto, che teologia e religioni sono strade che spingono ad avvicinarsi a Dio, ma non possono e non debbono mai diventare assolute. Anzi, esse devono lasciarsi scompigliare dai fatti dove Dio continua a parlare. L'intransigenza di certe teologie o di certi principi impediscono a Dio di parlare.
Questo atteggiamento può essere considerato relativismo, ma dipende che cosa vuol dire relativismo. Il cardinale Martini parla di relativismo cristiano. Anch'io ho scritto un articolo su questo tema nel quale sostengo che il relativismo in senso cristiano significa che la verità (Dio) esiste, ma è sempre da cercare, perché mai la si possiede interamente. Invece il relativismo negativo è quello che sostiene che non c'è niente di vero e ognuno fa quello che riesce a intravedere al di là del bene e del male, come direbbe Nietzsche.
Il relativismo in senso cristiano vuol dire affermare l'esistenza della giustizia, di cose vere e buone, ma da ricercare continuamente con fiducia e speranza, sapendo che non si arriva mai fino in fondo.

1. coppie di conviventi

Anzitutto vi propongo una prima lettura sommaria del fenomeno delle convivenze, per poi vedere in un secondo momento alcune possibili cause dell'espandersi del fenomeno. In un terzo momento vedremo le varie tipologie delle convivenze, che esprimono anche aspetti positivi. Infine vorrei proporvi quali atteggiamenti evangelici assumere con le coppie conviventi.

lettura sommaria del fenomeno

Le convivenze sono un fatto nuovo, apparso nel mondo occidentale in questi ultimi anni. In Italia ha preso consistenza 20-30 anni fa. Anche al tempo del 68 c'erano delle convivenze (cominciavano allora) ma con caratteristiche diverse rispetto a quelle di oggi.
Mentre negli anni attorno al 68 le convivenze avevano un piglio polemico, erano "contro", contro la chiesa, contro lo stato, oggi le convivenze sono realtà non "contro", ma "senza", non contro la chiesa e contro lo stato, ma senza la chiesa e senza lo stato. Cioè i giovani che convivono non si mettono contro, ma vogliono rivendicare un proprio modo di vivere l'amore.
Molti conviventi hanno un rapporto bellissimo, ci sono quelli che lavorano nella vita della parrocchia, che fanno anche la comunione. Tempo fa un parroco della diocesi di Vicenza mi diceva di avere una coppia di giovani animatrice, capace, coinvolgente, seria, amante della parola di Dio, che ha deciso di convivere. Questo parroco non vuole privarsi dell'attività di animazione fornita dalla coppia. Gli ho dato il mio appoggio, anche se la scelta può presentare aspetti rischiosi sia sul piano istituzionale che educativo. Ci sono pertanto coppie con densità etica, evangelica, biblica, che decidono di convivere.
La convivenza non va allora vista come nel passato in termini di peccaminosità. Mi diceva un prete di Treviso in un incontro di vicariato: ma come posso affrontare la realtà delle convivenze, quando il mio vescovo, che è poi un buon vescovo, ci dice di ricordarci che queste coppie sono in peccato mortale e che bisogna dirlo! Siamo dentro una realtà che ci interroga, ci interpella.
Dicono alcuni sociologi, fra cui Riccardo Prandini - qualche anno fa per la verità - che circa il 20% dei giovani convivono. Noi parroci potremmo dire, per quanto possiamo constatare visitando case e incontrando famiglie, che sono anche di più. C'è una crescita esponenziale delle convivenze, molte delle quali in seguito approdano al matrimonio. Soltanto il 3% rimarrebbe convivente. Infatti delle 45 coppie, che frequentavano lo scorso anno i nostri itinerari proposti ai fidanzati in preparazione al matrimonio, 22 erano conviventi. Quindi occorre dire che non tutte le convivenze rimangono convivenze, ma che approdano anche al matrimonio.
La convivenza non ha il piglio contestativo o aggressivo di una volta, ma certamente denota una privatizzazione dell'amore, spia di una privatizzazione che da secoli è stata alimentata dalla cultura occidentale (individualismo) ed anche dalla chiesa. La cultura teologica ha spesso presentato la salvezza come un fatto privato, come conquista individuale, come un pensare alla propria anima, al proprio Dio e non come una realtà comunionale. In un bellissimo articolo, "La verità di Cristo" del teologo ortodosso Christos Yannaras, si diceva: "Il fine del sacramento non è la santificazione delle persone ma la chiamata alla comunione di cui la chiesa è un segno". Noi abbiamo invece fatto dei sacramenti degli agenti individualistici di privatizzazione.
Quindi il fenomeno delle convivenze ci chiama, ci interpella, sia per capirne l'origine, sia per poterlo affrontare in maniera più giusta. Il vero problema non sono le convivenze ma la privatizzazione che una certa mentalità, una certa cultura, una certa teologia, una certa catechesi, una certa predicazione hanno diffuso.

Le cause

Oltre alla sotterranea tendenza individualista esistono altre cause.

Anzitutto la cultura antiistituzionale

Questa cultura certamente oggi è più diffusa rispetto al passato: circola sfiducia e diffidenza nei confronti di tutte le istituzioni, compresa la chiesa. Perché entrare a far parte di un'istituzione che non gode di buon nome? Perché entrarvi se non serve più di tanto?
Questa cultura antiistituzionale viene da lontano. Alcuni (Rousseau) ritengono che l'uomo nasce buono e viene successivamente reso malvagio dalla società, che è necessaria solo per la sopravvivenza e non per diventare persone. Molti condividono l'opinione attribuita a Seneca: "Ogni volta che sono andato tra gli uomini, ne sono uscito meno uomo".
Oggi sta rinascendo, lo dico con grande speranza, una cultura dell'alterità, per la quale l'uomo non si fa da solo, ma si fa con l'altro.

Una seconda causa è la cultura della reversibilità.

Ciò che oggi più spaventa nel matrimonio non è l'idea dell'amore per sempre, ma il fatto che obblighi due persone a stare insieme anche quando l'amore tra loro è finito. L'obiezione più pesante che si muove al matrimonio religioso, per la sua pretesa di indissolubilità, è che esso dovrebbe durare anche quando non ci fosse più amore.
Se io ho sbagliato, perché non posso tornare indietro, non posso riprendere la mia vita? perché devo stare insieme a una persona anche se non c'è più l'amore? L'uomo non può sbagliare, non è fallibile? Non può più rifarsi una vita affettiva? Sono domande molto impegnative. Uno psichiatra americano dice che l'innamoramento è un evento cieco che spinge la persona a sposarsi. Se la persona che sposa è quella giusta, va bene. Ma se fosse sbagliata? Questa irreversibilità crea problemi. Un legame così, che non ammette alcun errore o alcuna attenuante, sembra limitare la libertà di fare in futuro scelte che potrebbero scoprirsi migliori e più confacenti al proprio carattere e ai propri sentimenti.

Un terzo motivo è la cultura del provvisorio.

Oggi molti ritengono che la definitività possa provocare l'abitudine, la consuetudine, un modo di vivere i rapporti in maniera stanca.
Quando una cosa è definitiva sembra che venga meno l'interesse a coltivarla. Si dilegua il senso della ricerca e della meraviglia. Il posto sicuro e il ruolo definitivo hanno contribuito a spegnere persone e a frenare la passione della ricerca. Se invece il legame è provvisorio, devo continuamente tenerlo vivo. I rapporti provvisori sono alle volte più sollecitanti, più stimolanti, dei rapporti definitivi.
L'ideale sarebbe intraprendere una scelta definitiva con la mentalità del provvisorio.

vari tipi di convivenza

Detto questo vorrei distinguere tre tipi fondamentali di convivenza.

convivenza disimpegnata

Un primo tipo di convivenza lo individuo nella convivenza disimpegnata. Può essere ben descritta dall'espressione: "stiamo insieme finché stiamo bene". Quando non stiamo più bene insieme ci lasciamo. In termini più espliciti: "io sto con te finché sto bene con te, quando non sto più bene con te me ne vado. Tu sei innamorato/innamorata? Stai male? Non mi interessa!" Il centro è l'io, non è l'altro. E' una convivenza disimpegnata anche perché si presume che una coppia possa crescere senza la sofferenza, senza il conflitto, senza le incomprensioni. Quando c'è un conflitto, un non capirsi, potrebbe invece essere il momento per domandarsi, interrogarsi, capirsi e crescere. Mentre molti pensano che quando c'è un conflitto, quando c'è una difficoltà, una sofferenza, invece che leggerla e affrontarla, e affrontandola crescere, è bene abbandonare tutto. Non si riesce a capire che i conflitti sono tensioni creative.

maggiore conoscenza

Un secondo tipo di convivenza, quella più diffusa, è motivata dall'esigenza di una maggiore conoscenza. Molti giovani sostengono di non voler eliminare il matrimonio, ma di voler premettere un periodo di maggiore conoscenza, un periodo in cui, convivendo insieme, ci si possa conoscere meglio, capirsi... Cosa dire? Come prima cosa, la dico anche ai giovani, non è escluso che qualche convivenza possa comportare una maggiore maturazione della coppia stessa. Io escludo però che si possa pensare che, fatta una buona convivenza, ci sarà sicuramente anche un buon matrimonio. Nessuna convivenza dà garanzia del matrimonio. Ho conosciuto giovani che, dopo tre, quattro anni o più di convivenza, si sposano e poi si lasciano. Dipende anche da come si fa la convivenza, il fidanzamento. In alcuni casi a qualche coppia ho consigliato anch'io di convivere. Ricordo il caso di un'insegnante, che, alla sua prima esperienza affettiva, aveva iniziato una relazione con un egiziano (l'ho incontrata perché lo psicologo da cui si era recata, l'aveva mandata da me).
In questo specifico caso, nei confronti di una persona priva di esperienze affettive, mi sono assunto la mia responsabilità, consigliando un periodo di convivenza. Il discorso generale va sempre rapportato alle realtà concrete. Sono comunque convinto che la convivenza non è comunque garanzia di un buon matrimonio.
Un giovane fidanzato in aperta assemblea sosteneva in modo sicuro e risoluto che, come quando si va ad acquistare un paio di scarpe prima occorre provarle, così dovrebbe avvenire anche per i due che scelgono di sposarsi, rivendicando in questo modo il diritto e dovere di premettere un periodo di convivenza coniugale. E' una posizione che merita di essere attentamente vagliata, anche perché attira, per la sua immediata semplicità, maggiore consenso e adesione. Oggi tutti vogliono provare prima di fare scelte consapevoli. Nella Chiesa in realtà le opzioni fondamentali, quali quelle della vita religiosa e monacale, sono precedute dal noviziato, un periodo lungo di iniziazione, e poi i voti sono emessi ad tempus per un anno. Quelli definitivi (solenni) dopo sei anni. Quindi il discorso non è banale come a prima vista sembrerebbe.
Certamente occorre anzitutto far notare che paragonare una persona a un paio di scarpe è una cosa un po' sgradevole. Ma si può davvero provare una persona? Quando vado a comprare un paio di scarpe, le provo per controllare se corrispondono al mio piede. Quando cerco una persona la cerco perché corrisponda alle mie attese, alle mie esigenze o per rispondere alle sue? La cerco per amarla o per essere amato? In questo interrogativo sta la divaricazione del senso dell'amore. Non è certo negativo il bisogno di essere amati, ma quando questa esigenza è centrale o peggio unica, l'altro diventa un oggetto al mio servizio e allora sì che c'è necessità di provarlo. Amore non è servirsi dell'altro, ma accoglierlo nella sua reale e distante diversità.
Inoltre quando provo una scarpa e la compero, quella scarpa, con qualche leggero adattamento, sarà sempre la stessa. Invece quando "provo" una persona per capire se la relazione è possibile si deve tener conto che si tratta di un essere in continuo divenire, che non sarà sempre lo stesso. Non si può allora "provare" una persona, ma sperimentare la propria capacità di relazionarsi ad uno che può e deve cambiare. E' questa fedeltà dinamica all'altro che fa problema. L'amore autentico è essere disponibili ad accogliere il divenire dell'altro, il suo manifestarsi.
E' quello che dice Levinas: "Amare senza comprendere, amare prima di comprendere, amare senza voler comprendere, amare senza concupiscenza". Quindi non posso e non devo "provare" l'altro, ma devo provare, sperimentare la mia capacità ad ospitare il divenire dell'altro.

convivenza impegnata

Terzo tipo di convivenza, forse meno diffusa, ma comunque abbastanza presente, è la "convivenza impegnata".
Alcuni giovani sostengono di non sposarsi e di convivere, proprio perché vogliono impegnarsi a vivere il "per sempre". Sapere che la relazione è provvisoria suscita il timore di perderla e impegna a renderla stabile se interessa, ravvivandola continuamente attraverso il dialogo e l'ascolto. La legge e l'istituzione non farebbero che addormentare la relazione perché deresponsabilizzerebbero i due dal tenerla costantemente sveglia. La perennità dell'amore non deriverebbe dalla legge, ma dall'amore stesso. C'è sicuramente un lato positivo in questa visione e cioè che nessuna protezione all'amore è possibile dall'esterno, ma l'unica vera difesa viene dall'interno. Il limite è che non viene colto il valore della dimensione sociale, dell'importanza delle relazioni con gruppi e persone, dell'importanza della comunità di cui l'istituzione è segno.
Non bisogna però avere la presunzione di sentirsi tranquilli semplicemente perché si è sposati.
Direbbe l'amico Luigi Accattoli, giornalista del Corriere della Sera: "Giovani, sposatevi, ma restate fidanzati"; giovani sposatevi, ma restate conviventi!.
Dice "sposatevi", perché è giusto prendere ufficialmente un impegno, fare una scelta nella vita (non si può sempre giocare sulla precarietà), però con l'animo del fidanzato, del continuo corteggiare, del rinnovato conquistare, del sempre nuovo stupirsi dell'altro e del meravigliarsi. Ritengo che il fidanzamento non sia una stagione prima del matrimonio, ma un modo di viverlo.

quali atteggiamenti nei confronti delle coppie conviventi

1. Aiutare queste coppie a vivere sempre meglio l'amore.

E' importante dire alle coppie non "sposatevi", ma "amatevi". L'importante non è che le coppie si sposino, ma che le coppie si amino. Questo vale per qualsiasi coppia. Dio all'uomo non si rivela attraverso il matrimonio, ma attraverso l'amore dell'uomo e della donna, che può essere convalidato dal matrimonio.
E quando fu ribadito il carattere sacro del Cantico dei Cantici, nel 90 circa dopo Cristo, nella assemblea di Jamnia, superando le resistenze e i dubbi di molti rabbini, per la presenza nel testo di canti erotici, alcuni dei quali erano cantati anche nelle taverne e durante i banchetti nuziali, rabbi Aqiba ne fece un celebre elogio: "Tutte le scritture sono sante, ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei santi". Il Santo dei santi era il luogo dove entrava una volta all'anno il sommo sacerdote, era il luogo dove abitava Dio per gli Ebrei. Rabbi Aqiba dice che il luogo dove abita Dio è l'amore dell'uomo e della donna, è il Santo dei santi. E' lì. Se c'è l'amore, anche senza matrimonio, lì Dio si rivela.
Allora è importante che alle coppie per prima cosa non diciamo: "sposatevi", ma "amatevi", cioè date spazio al vostro amore, vivete il vostro amore, un amore che può essere celebrato, a volte riscoperto, e diventare non soltanto privato, ma anche pubblico, sociale.
Una comunità cristiana, prima di essere troppo frettolosa nel domandare a queste coppie la "legalizzazione" del loro amore, deve offrire loro occasioni e opportunità perché siano stimolate a riflettere sulla loro relazione, per renderla più adulta.
Olivier Clément, uno dei testimoni più stimati dell'Ortodossia in Occidente, dice: "chissà quanta gioia nel cielo quando un uomo e una donna si amano veramente". Non dice "quando si sposano". Tra parentesi, ricordiamoci che la liturgia del matrimonio è nata nella nostra chiesa dopo il IV secolo, forse anche dopo il VII secolo. Prima i cristiani si sposavano secondo i riti civili, perché l'importante non era la cerimonia, ma l'amore. Il sacramento è l'amore. O. Clément afferma: "Non c'è bisogno di una sanzione ecclesiastica e sociale per riconoscere una profondità religiosa. Il religioso infatti non è uno scompartimento della cultura, ma la pienezza e l'intensità di ogni vita". Si è religiosi quando si vive pienamente, quando si ama pienamente.

2. Fare riscoprire la dimensione sociale dell'amore.

Questo vale non solo per le coppie che convivono ma anche per le coppie che si sposano in chiesa, perché molte volte si sposano in chiesa in maniera privatistica, tanto quanto chi non si sposa. La dimensione sociale è importante da riscoprire, non soltanto quando parliamo dell'amore, ma anche della fede. La cultura moderna imperniata sull'io ha accentuato il valore dell'individuo, svuotandolo della sua dimensione sociale e politica. Gli "altri" sono visti come pericoli per la libertà del singolo e non come possibili stimoli. Dovrebbe imporsi invece una cultura della relazione. Come l'uomo non si fa senza la relazione con la donna, così la coppia non cresce senza la relazione con il mondo, con le varie istituzioni civili e religiose. Il piccolo mondo della coppia non può svilupparsi senza il grande mondo esterno. La coppia, per uscire dalla sua chiusura, deve avvertire la "ricchezza" che può arrivarle dall'esterno, percepito non come pericolo ma come ricco di stimoli e di provocazioni.
La coppia deve superare non l'intimità, ma l'intimismo, cioè l'atteggiamento di chiusura su se stessi, allargando lo sguardo su situazioni di sofferenza e di ingiustizia. Di fatto molte coppie vivono dentro gli stretti e mortificanti confini del proprio lavoro, dei propri interessi, dei bisogni dei propri figli. Se una coppia ama i figli, non deve semplicemente pensare a loro, è necessario che si impegni perché trovino lavoro, casa, aria e ambiente sano. Questo è possibile se le coppie guardano anche all'esterno e si impegnano per migliorarlo e cambiarlo.
Dimensione sociale dell'amore vuol dire che la coppia non si fa da sola, ma si fa con altre coppie, che l'amore che tu hai è un dono che Dio ti dà non per tenerlo per te, ma per spartirlo con gli altri. Don Germano Pattaro, mio grande maestro, con cui ho lavorato per sette anni nella rivista "matrimonio", diceva che "l'amore dell'uomo e della donna è una Parola di Dio rivolta all'umanità". Cioè Dio dà questo amore perché da questo amore gli uomini imparino a vivere da uomini. Quindi due si sposano non per se stessi, ma per la comunità, per l'umanità. L'amore dei due va vissuto in maniera intensa, va profondamente gustato, per poi poterlo esportare e condividere. Dio ci dà questo amore perché gli uomini e le donne imparino ad amarsi con lo stesso amore di parità, di rispetto della diversità. La chiesa ha bisogno di questo amore perché sia meno ecclesiastica, e più sponsale. E sponsale vuol dire pensare insieme, decidere insieme, far comunione, vivere nella parità. Questa dimensione sponsale è poco presente nella chiesa di oggi, con l'eccezione di qualche comunità. Ma non soltanto la chiesa deve diventare un luogo sponsale, ma anche i partiti, i sindacati, dove non ci deve essere uno che comanda e gli altri che ubbidiscono.

3. Essere un po' più comprensivi con queste coppie.

Comprensivi non vuol dire permissivi. Ogni coppia arriva a questa scelta per vari motivi, vari percorsi, vari vissuti, per ragioni di carattere sociale, politico, economico, familiare o culturale. Occorre avere un atteggiamento non di giudizio, ma di attenzione e di comprensione di questa realtà. Si tratta di maturare insieme un cammino di riscoperta del senso sociale dell'amore. Questo esige accompagnamento, fatto di comprensione e benevolenza. Non può essere improvvisato, non basta un colloquio o un'ingiunzione.
Non si possono escludere queste coppie da certi benefici o diritti per obbligarle a sposarsi (non ti do l'appartamento perché non sei sposato), per sostenere e difendere così la famiglia fondata sul matrimonio. Questo non è l'annuncio del matrimonio come dono, come valore. Non è imponendo a tutti i costi il matrimonio che si può fare apprezzare il senso comunitario dell'amore e della scelta istituzionale.
Qui si apre il discorso dei Dico, della regolamentazione delle convivenze.

4. La celebrazione del matrimonio è l'approdo verso cui tendere.

La comunità accompagnerà queste coppie perché possano approdare anche alla celebrazione del matrimonio. Prima c'è l'amore e poi la celebrazione. Ma la celebrazione significa dare spazio all'amore. Il ringraziare, il lodare, l'invocare, il riconoscere, sono atteggiamenti che, celebrandoli, fanno maggiormente risaltare l'amore, non sono contro l'amore. Si tratta di un cammino progressivo e non tutte le coppie arriveranno alla celebrazione allo stesso modo e con gli stessi tempi. E anche nel caso non approdassero al matrimonio non dobbiamo dimenticare che non possono essere considerate lontane dal Regno di Dio, se vivono l'amore. "La grazia - come ci ricordano i padri - non è incatenata ai sacramenti". Il matrimonio ecclesiale ha il carattere di esemplarità di come vivere la relazione uomo-donna, ma non di esclusività.
Quindi anche se queste coppie non arrivassero al matrimonio, vanno amate così come sono perché le persone sono più grandi dei nostri ideali e delle nostre mete. E l'amore per le persone è prima di tutto, anche prima dei valori.

2. I divorziati risposati

A proposito dei divorziati risposati, come già si ricordava nell'introduzione all'incontro di oggi, le attuali prese di posizione del magistero della Chiesa non presentano novità, anzi addirittura segnano qualche regresso, nel senso che nella esortazione apostolica postsinodale sull'eucaristia Sacramentum Caritatis si parla della "piaga" del divorzio, indice di un atteggiamento giudicante e negativo.
In un primo momento farò tre premesse, utili per inquadrare correttamente il tema, per poi illustrare la grande svolta che si è operata nella Chiesa cattolica su questo problema.
I punti da affrontare sono: gli obiettivi della pastorale sui (o dei) divorziati risposati, il nodo dell'eucaristia e le prospettive per il futuro, al di là del contingente.
Dobbiamo tentare di ragionare su una lunghezza d'onda che va oltre il presente. Diceva La Pira negli anni 56-57 ad un padre Balducci deluso dell'atteggiamento ecclesiastico e papale del suo tempo: "Ma guarda che muoiono anche i papi!". Per quanto mi riguarda, cerco di ragionare in termini evangelici, non in termini puramente umani (anche se l'umano fa parte del vangelo).
Possiamo pensare che forse abbiamo interpretato Dio con le nostre categorie e che forse Dio è diverso.

Premesse

Anzitutto tre premesse

1. il fenomeno dei divorziati risposati è un fatto nuovo e inquietante.

E' un fenomeno nuovo perché fino al 74 in Italia non c'era il divorzio, L'indissolubilità del vincolo matrimoniale vigeva anche in campo civile.
A quel tempo si fece una grande confusione non distinguendo tra divorzio e legge sul divorzio e in seguito tra aborto e legge sull'aborto. Sono due cose diverse: si può essere contro il divorzio e a favore di una legge sul divorzio.
Fino al 74 la legge imponeva il dovere di stare insieme anche con il sacrificio della persona sempre e comunque. Anche se non c'era più amore e anche se uno o una, più frequentemente una, subiva vessazioni, violenza, offese. Ora, è evidente che in nome della nuova cultura che viviamo e respiriamo (la cultura del soggetto, della persona, dell'autonomia, della libertà, della dignità della persona, della parità) le persone non accettano di essere sacrificate per un principio giudicato disumanizzante.
Innanzitutto, ci possiamo chiedere se il sacrificarsi in nome di una legge o di un dovere sia secondo il vangelo. Non voglio dar la risposta, ma certamente il problema esiste. Nel Concilio Vaticano II, nella Gaudium et Spes, si dice che il peccato è una disumanità, è una privazione di umanità. Se uno è meno uomo, c'è il peccato. Se la persona, per difendere un principio, si sacrifica e diventa disumana, vive secondo il vangelo?
In secondo luogo ci domandiamo se l'indissolubilità sia una legge oppure un valore, una legge o un progetto. Se è legge è certamente implacabile, inflessibile; se invece è un progetto verso cui tendere, ammette anche la possibilità di ripensare il discorso.
E' poi un fenomeno inquietante perché i divorzi creano fiumi di sofferenze. Il divorzio è vissuto come fallimento o comunque come lacerazione, che crea sofferenza. E non solo per i figli, ma anche per i coniugi, perché di solito un coniuge rimane innamorato dell'altro. Ma è spesso fonte di sofferenza anche per il coniuge non più innamorato, dato che rompe una relazione che magari dura da diversi anni e con figli. Educare ed educarci allora alla stabilità, al valore dell'indissolubilità e della fedeltà è qualcosa di molto importante.

2. Ascoltare le domande e gli interrogativi delle persone che hanno problemi di coppia e che magari arrivano anche alla separazione e al divorzio.

Molte volte sono persone impegnate nella chiesa.
Nella nostra diocesi di Vicenza da 10 anni abbiamo un gruppo di divorziati risposati. Credo che sia il primo gruppo in Italia promosso da una diocesi. L'Ufficio diocesano della pastorale del matrimonio e della famiglia (ndr.: Borsato è il direttore) ha promosso una serie di incontri per queste coppie. Avevamo fatto un documento, che ha avuto anche una risonanza nazionale, per un'accoglienza dei divorziati risposati e contemporaneamente avevamo rivolto un appello, attraverso il settimanale della diocesi, a chi voleva, di potersi ritrovare per quattro incontri.
Questi incontri volevano essere l'espressione di una chiesa attenta alle sofferenze di queste persone, e che si mette in ascolto delle loro domande, dei loro interrogativi, di una chiesa che contribuisce a creare un ambiente anche di preghiera, visto che queste coppie non hanno molte occasioni di pregare, di confrontarsi, di leggere la Parola di Dio insieme. E il gruppo che si è formato (naturalmente con ricambi, nuovi innesti, ecc.) non si è fermato ai primi quattro incontri, ma ha voluto continuare, e dura ormai da dieci anni. E il nostro vescovo attuale, quando è venuto a trovare questo gruppo, è rimasto meravigliato, per il fatto che è un gruppo che riflette, che parla apertamente, ma in maniera attenta, non offensiva. Forse è uno dei gruppi più impegnati nel campo della lettura della Parola di Dio.
Il nostro documento dice: "Il divorzio non toglie la fede. Esso esprime la debolezza della persona, che non sempre, per vari motivi, riesce a raggiungere l'ideale proposto dalla fede cristiana, però esso rimane in loro anche dentro l'esperienza della propria povertà. Uno sbaglio non interrompe il rapporto con Dio. Le persone, dunque, devono coltivarlo attraverso l'ascolto della Parola, gli incontri di catechesi, la preghiera personale, di coppia e di comunità."

3. Il problema della coscienza.

In un recente passato si è molto discusso di questo problema. Si voleva che in questo ambito ci fosse la possibilità per la coscienza di giudicare se il matrimonio contratto in precedenza fosse valido o meno. Molte volte, soggettivamente, una persona sente che il matrimonio precedente, per come è nato, per come è vissuto, per come si è sviluppato, non è un vero matrimonio. Ma non potendo documentarlo in termini giuridici, rimane legata al vincolo contratto. Perché una coscienza illuminata e aperta al confronto, che giunge ad avere motivi validi per ritenere nullo il primo matrimonio, pur non potendo dimostrarlo canonicamente, non potrebbe vivere la separazione, il divorzio come un fatto che rescinde il primo vincolo?
Questo discorso era già presente al Sinodo dei vescovi dell'80 sulla famiglia. Famosa, anche se oggi dimenticata, una proposizione di quel sinodo che suona così: "Il Sinodo nella sua preoccupazione pastorale per questi fedeli (i divorziati risposati sono chiamati fedeli!), auspica che si apra una nuova e più profonda ricerca su questo argomento, tenendo conto anche della pratica dei Vescovi d'Oriente, in modo da mettere in evidenza la misericordia pastorale".
Sono tre le accentuazioni. La prima è che sono chiamati "fedeli" e non "scomunicati" (è la grande svolta). La seconda è che ci sia ricerca su questo argomento per aprirsi maggiormente a queste persone. La terza cosa è che ci si confronti con la pratica dei Vescovi d'Oriente, in cui questa realtà del divorzio è vista diversamente. E tutto questo per esprimere meglio la misericordia di Dio.
Nel luglio del 1993 tre vescovi tedeschi (O. Saier di Freiburg, K. Lehmam di Meinz e W. Kasper di Rottenburg-Stuttgart), teologi di spessore, hanno fatto un documento umanissimo e bellissimo di attenzione a queste persone. Questi vescovi hanno affermato che se una persona divorziata ha in coscienza motivi validi per ritenere il proprio matrimonio nullo, però non dimostrabili canonicamente, può accedere all'eucaristia dopo una verifica con un confessore saggio.
A quel tempo il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, che si chiamava Ratzinger, rispose di no, dicendo che la coscienza è importante, ma che non può valere per un fatto pubblico come il matrimonio.
Ma vedremo che esistono contraddizioni anche in questa posizione. Ratzinger diceva che pur non potendo fare la comunione eucaristica, il divorziato può fare la comunione spirituale. Ma se uno fa la comunione spirituale di intimità con Dio, di intesa con Dio, perché non può fare anche quella eucaristica? Se uno è in rapporto con Dio, perché non può rapportarsi anche nel segno sacramentale?
La diocesi di Bressanone e di Bolzano ha fatto un documento, che mi è stato inviato in bozze per avere un mio parere personale. Ho risposto che si trattava di un documento coraggiosissimo, nel quale si era impegnato il vescovo Ecker in persona. In quel documento si diceva che, dopo un percorso fatto con operatori sociali, con psicologi, dopo cioè un laboratorio di discernimento interiore, se alla fine si approda alla conclusione, anche non documentabile sul piano giuridico, che il matrimonio precedente era nullo, la coscienza può validamente dire di poter vivere la fede con la comunione eucaristica. Questo documento non è mai stato condannato apertamente. Ho saputo che Ratzinger ha scritto personalmente a Ecker, suo amico, prendendo le distanze, ma nulla è risultato pubblicamente.

la grande svolta

Perché parlo di grande svolta? Bisogna saper cogliere le novità, anche se permane il divieto di accedere alla comunione, alla riconciliazione sacramentale.

obiettivi della pastorale familiare

Nella Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Familiaris Consortio del 1981 si dice
che "i divorziati e risposati non si considerino separati dalla chiesa, potendo, anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita."
Si pensi che fino all'83, il vecchio codice di diritto canonico considerava i divorziati risposati "pubblici peccatori", quindi scomunicati, ed esclusi anche dalla sepoltura ecclesiastica. La passata prassi pastorale non ammetteva la benedizione delle case. Le parole del papa segnano una svolta: i divorziati risposati sono fedeli, sono cristiani, che fanno parte della chiesa, che sono chiesa.
E non solo sono chiesa come oggetti di attenzione, ma come soggetti di partecipazione. Vi sono funzioni nella vita della chiesa (opportunità non sempre sfruttata), che possono essere svolte anche dai divorziati risposati. Nel documento che abbiamo fatto come diocesi di Vicenza indichiamo anche alcuni ambiti: far parte della commissione economica, del volontariato, del tempo libero degli oratori, dei gruppi Giustizia e Pace. In alcune parrocchie sono operanti anche nel Consiglio Pastorale.
Si tratta di una svolta, anche se non è tutto. Il non poter accedere alla eucaristia è percepito da molti come una fonte di grande emarginazione. E questo è vero.
Una coppia di divorziati risposati, però, in un incontro diceva che bisogna evitare di fare dell'eucaristia un mito, un idolo. Molti accedono all'eucaristia, ma poi non hanno comunione con le persone, non partecipano alla vita ecclesiale, non partecipano alla vita politica, sociale, per la giustizia. La vera eucaristia - diceva questa coppia - è vivere insieme la comunione, è condividere con i più poveri, con tutti, la giustizia, la pace... Noi potremmo essere segni di gente che non fa l'eucaristia, ma che la vive operando.
Però è vero che molte coppie che hanno alle spalle una intensa vita ecclesiale, sentono l'esclusione dall'eucaristia come uno strappo.
E' contraddittorio affermare che è l'eucaristia che fa la chiesa, che i divorziati sono chiesa, ma che costoro non possono partecipare all'eucaristia. Come si può partecipare alla mensa eucaristica senza la comunione? Sarebbe come invitare uno a pranzo e non farlo mangiare.
Ma detto questo, c'è una bomba nella Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Familiaris Consortio, che dovrà esplodere, perché dice il papa, sempre al n. 84: " (i divorziati) Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della messa" (Anche il termine sacrificio dovrebbe essere corretto. L'eucaristia è una convivialità, una mensa) "a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia e a educare i figli nella fede cristiana." E dopo dice: "Per implorare così di giorno in giorno la grazia di Dio".
Se possono implorare la grazia di Dio, se sono in grazia di Dio, perché non possono far la comunione? Si tratta allora di un'esclusione non di ordine teologico, ma disciplinare come vedremo poi.

il nodo dell'eucaristia

Sappiamo che ciò che ferisce di più i divorziati risposati è l'esclusione dall'eucaristia. Sentono oggi una maggiore accoglienza, ma, mancando la possibilità di accostarsi all'eucaristia, la sentono ancora troppo debole. Riconoscono il disgelo che si è operato in questi anni, ma avvertono anche il freddo che li circonda. Se l'eucaristia è il centro della fede, della vita cristiana, come possono vivere la loro fede senza la forza che scaturisce da essa? Nel campo della riflessione teologica ci si domanda se questa esclusione sia un fatto teologico (un fatto in sé), oppure un fatto disciplinare.
I documenti del magistero di ieri, e di oggi in modo particolare, dicono che la chiesa non può modificare questa realtà perché i sacramenti non appartengono alla chiesa, ma sono un fatto in sé. La chiesa non è proprietaria dei sacramenti. Questa affermazione può essere molto discussa sul piano teologico, dato che i sacramenti nascono dentro la vita della chiesa, come segni della fede, della comunione, dell'impegno per l'altro, con la presenza dello Spirito Santo. Certamente la chiesa non può fare ciò che vuole, ma può modificare, reinterpretare, rivedere.
S. Tommaso ricorda che due diverse cause impediscono l'accesso all'eucaristia: il peccato mortale e i motivi disciplinari.
L'esclusione disciplinare indica che la Chiesa può porre delle condizioni per l'accesso all'eucaristia (per es. il digiuno eucaristico...) e stabilire che un certo comportamento esclude dall'eucaristia.
Per esempio attorno agli anni 50 il vescovo di Treviso di quel tempo aveva stabilito che chi scriveva una lettera anonima non poteva accedere alla comunione. Era un fatto disciplinare, educativo, temporaneo.
L'altro motivo di esclusione è il peccato mortale (il problema è complesso, dato che l'eucaristia non è tanto per chi è puro, ma per chi vuole purificarsi).
Chi è consapevole del peccato mortale, dice San Tommaso, non può comunicarsi perché il peccato è rottura di comunione con Cristo e con la chiesa. Però a emettere un giudizio in proposito è solo la coscienza, debitamente informata e illuminata. Nessuno cioè può dirmi di essere in peccato mortale, ma solo la coscienza debitamente informata. Di conseguenza può accedere alla comunione chi giudica, in base alla propria coscienza illuminata, di non essere in peccato mortale.
In conclusione la comunione eucaristica, a mio parere, può essere negata solo per motivi disciplinari. E se la disciplina è della chiesa, la chiesa potrebbe cambiarla. Siccome però la chiesa afferma che questa esclusione non è per motivi disciplinari, ma per motivi sacramentali, allora dovrà essere la ricerca teologica a far cogliere che non si tratta di un "discorso" in sé, in qualche modo teologicamente immodificabile, ma soltanto un "discorso" disciplinare.

Prassi ecclesiali a confronto

La proposizione 14 del Sinodo dei Vescovi dell'80, prima citata, invitava ad aprirsi ad una nuova ricerca "tenuto conto anche della pratica dei vescovi di Oriente", che hanno una prassi diversa nei riguardi del matrimonio e dei divorziati risposati.
La dottrina della Chiesa ortodossa è molto vicina a quella della chiesa cattolica per quanto riguarda la sacramentalità del matrimonio, segno dell'alleanza di Dio con il suo popolo e di Cristo con la sua Chiesa, un segno irrevocabile. Tuttavia tenuto conto delle circostanze (soprattutto del coniuge abbandonato o danneggiato) la Chiesa ortodossa accoglie i divorziati risposati.
Questa differente prassi si esprime a due livelli. Anzitutto è presente nella Chiesa ortodossa la cosiddetta "oikonomia", che designa il rapporto di Dio con il mondo, con la casa del mondo, che si rende manifesto nel mistero d'amore dell'incarnazione. Ciò che è primario nel cristianesimo non è una valutazione di tipo giuridico che faccia riferimento ad una legislazione, bensì il mistero della misericordia, dell'amore rivelatoci in Cristo. La rivoluzione evangelica è consistita nel privilegiare la persona al diritto, nell'anteporla ai principi.
In questa concezione il vescovo, con la propria sapienza, potrebbe valutare se in quel caso determinato alla persona è consentito l'accesso non solo all'eucaristia, ma anche a un secondo matrimonio. In morale si parla di epicheia, di sospensione dell'applicazione di un certo principio in uno specifico caso. Non è negato il valore del principio, ma la sua applicazione in un caso concreto in nome della coscienza. Meglio sarebbe che l'epicheia fosse esercitata dal singolo vescovo nel giudicare che per quella coppia, in quella concreta situazione, non vale il principio, non vale l'imposizione. E' un atteggiamento di una saggezza pastorale che va al di là dei principi e che guarda alle persone, pur non scartando i principi.
In secondo luogo per la chiesa ortodossa sono previste tre cause di scioglimento del vincolo coniugale.
La prima causa è la porneia, che è la morte dell'amore interpersonale. La parola porneia la incontriamo nei vangeli, in Matteo 5,32 e 19,9 in cui si dice che uno non può lasciare il coniuge
eccetto in caso di porneia.... Porneia è la riduzione della sessualità ad oggetto. Da un punto di vista cristiano non si dovrebbe mai parlare semplicemente di esercizio della sessualità nel matrimonio, bensì di incontro tra un uomo e una donna nella tenerezza e nella veemenza dell'amore. Porneia è la morte dell'amore interpersonale. Gli ortodossi ammettono che l'amore possa morire. E se c'è la morte dell'amore, muore anche l'indissolubilità, che - secondo loro - nasce dall'amore. Un amore crea indissolubilità, ma non ci può essere indissolubilità tra le persone se manca l'amore. Mentre per noi nella chiesa cattolica, anche se non c'è più l'amore, questa legge dell'indissolubilità permane anche per le persone che non si amano più.
Una seconda causa di scioglimento è l'apostasia. Gli ortodossi dicono che quando in una coppia uno o una diventa apostata, cioè rifiuta la fede, o diventa persecutore della chiesa, si può ritenere che il matrimonio non esista più. Rientrerebbe questo nel privilegio paolino. Per Paolo se in una coppia di persone sposate una diventa cristiana e l'altra è di ostacolo o di danno per la fede, il coniuge cristiano può separarsi, perché prima c'è la fede e poi il matrimonio. Significa che il principio non è assoluto. Se vogliamo confrontarci con la chiesa ortodossa relativamente a questo punto dell'apostasia della fede, in quante coppie sposate sacramentalmente un coniuge può essere danneggiato dalla vita dell'altro?
Una terza causa è la scomparsa del coniuge. Quando il coniuge è scomparso, cioè non ci sono più segni della sua esistenza, se dopo cinque anni non si hanno più sue notizie, il matrimonio può considerarsi annullato e il coniuge abbandonato può risposarsi. Una pratica analoga c'è stata anche nella chiesa cattolica nel 1500-1600.

Prospettive

Il teologo moralista Basilio Petrà ha scritto un libro "Il matrimonio può morire?", molto documentato, molto onesto e anche molto umile. Ipotizza una nuova soluzione subordinandola al giudizio della Chiesa.
Per quanto riguarda i fallimenti matrimoniali, teorizza due vie di soluzione: la "via indolore" e quella "dolorosa" .

la via "indolore"

La via indolore è quella che non modifica la dottrina cattolica sull'indissolubilità per non ingenerare scandalo nella comunità, ma cerca di allargare le maglie del codice di diritto canonico in modo che le coppie possano aver maggiori possibilità di risposarsi. Dopo il Vaticano II è accresciuta la possibilità di ottenere la dichiarazione di nullità del matrimonio. E' possibile ottenerla oltre che per i tradizionali motivi del matrimonio rato e non consumato, o della volontà espressa prima del matrimonio di non volere figli, anche per quello, non facilmente documentabile, dell'immaturità al momento della celebrazione del matrimonio.
Rientra in questa via anche la soluzione proposta dai vescovi teologi Kasper, Lehman, Saier, che affidano alla coscienza illuminata la valutazione della nullità del precedente matrimonio. Rimane il principio dell'indissolubilità, però si giudica se in quel caso matrimonio era ancora valido.
Anche l'applicazione della virtù dell'epicheia, dell'eccezione di un caso concreto ad una legge generale, rientra in questa prospettiva.

la via "dolorosa"

La via dolorosa è quella che conduce a rivedere la dottrina cattolica sul matrimonio. Questa via si basa sull'ammettere che un matrimonio, per quanto valido, possa fallire e quindi finire. I sostenitori si basano sul principio di realtà e sull'umana debolezza e fallibilità. "Come per ogni peccato, anche nel caso del matrimonio fallito non deve mancare la possibilità di ricominciare una vita diversa, attraverso una nuova unione riconosciuta in qualche modo dalla Chiesa".
Si tratta di rivedere la dottrina dell'indissolubilità. Se l'indissolubilità è una legge, come dicevo prima, è implacabile, inflessibile, se invece è un valore, si deve cercare di viverlo. Nel caso in cui non si riesca a viverlo, per vari motivi, per la debolezza umana, si può accedere ad un altro matrimonio.
La tesi centrale del libro è che l'amore può morire. Dice Petrà che la Chiesa cattolica ha sempre ammesso che la morte fisica della persona scioglie il vincolo matrimoniale, e consente al vedovo di accedere ad un nuovo matrimonio. E' San Paolo ad affermare che "la moglie è vincolata per tutto il tempo in cui vive il marito, ma se il marito muore è libera di sposare chi vuole" (1Cor 7,39).
Non c'è, secondo Petrà, una dottrina coerente nella Chiesa cattolica, perché da una parte si afferma che l'amore dei coniugi contiene l'esigenza dell'indissolubilità e non può finire con la morte, dall'altra che l'amore tra i coniugi finisce con la morte.
La chiesa cattolica (anche Paolo VI) si barcamena su due fronti: il fronte di ammettere il matrimonio dei vedovi, e quello di mettere in rilievo l'attesa di queste persone vedove verso un finale compimento della comunione sponsale.
La tesi di Petrà è che se sono possibili seconde nozze in caso di morte fisica, che cosa può impedire alla chiesa di accettare seconde nozze in casi paragonabili alla morte fisica, come la morte affettiva?
Anzi la morte affettiva è ancora più radicale della morte fisica, che non distrugge la comunione contrariamente a quella affettiva.
Quindi come la chiesa ha concesso con san Paolo di poter iniziare una nuova vita matrimoniale dopo la morte fisica del coniuge, la chiesa potrebbe, ammettendo la morte affettiva, consentire una nuova possibilità di matrimonio per il futuro. Questa è la tesi, per il momento non accolta.
Ravasi, voce molto ascoltata, anche dai vescovi, parlando del matrimonio nel vangelo, dice che gli evangelisti presentano un "modello" (non una legge) di matrimonio. Quindi il modello del matrimonio indissolubile è un modello a cui dobbiamo ispirarci, perché la fedeltà è motivo di crescita delle persone, perché l'amore cresce nella stabilità. Ma è un modello a cui ispirarsi, non da cui essere schiacciati. Occorre pertanto stabilire se il matrimonio indissolubile è un modello cui ispirarsi, un progetto a cui tendere, o una disposizione di legge implacabile.

quali atteggiamenti assumere

Concludendo, propongo tre atteggiamenti con cui vivere l'attuale situazione matrimoniale e familiare.

1. La speranza.

Siamo tutti portati, quando pensiamo alla realtà matrimoniale, a gridare allo sconquasso, alla fine della famiglia e del matrimonio. Ricordo un incontro conviviale con il mio vescovo di Vicenza (non l'attuale, ma il predecessore) per parlare del documento sulla pastorale dei divorziati risposati, in cui fui investito da una serie di giudizi negativi sulla famiglia. Gli chiesi se si era mai domandato quante coppie vivono in modo pieno la loro vita di relazione, nella parità, nel rispetto della diversità, nell'affettività, nel rapporto con i figli, di cogliere quindi anche tutto quello che c'è di positivo in queste coppie! Mi ha risposto di non avere mai visto suo papà e sua mamma darsi un bacio, farsi una carezza.
Bisogna avere speranza, saper vedere le coppie di sposi che oggi vivono la loro vita matrimoniale con un'intensità di affetto, di amore, di stima, di dialogo, di riflessione comune, un tempo inesistente. Lo dice anche Accattoli: "Oggi la famiglia sta vivendo una stagione estremamente nuova e positiva, perché si è affermata la parità tra l'uomo e la donna. E questa parità rende esaltante l'avventura sponsale."
Se non c'è parità, non c'è coniugalità, non c'è sponsalità. Se un coniuge è subalterno, non c'è una vicenda sponsale esaltante.
Il sociologo Pierpaolo Donati afferma che la famiglia italiana non va disintegrandosi, nonostante le cronache parlino di single e di divorzi. La famiglia italiana mantiene sempre un grande valore. C'è un'inversione di tendenza dall'individualismo degli anni 80 che si manifesta nella ricerca e nel recupero del valore della relazione di coppia. Nelle sue analisi Donati sostiene che oggi i giovani considerano la famiglia la cosa più importante della loro vita, anche più del lavoro e dei soldi. La crisi della famiglia esiste, ma non sta portando alla sua estinzione, ma alla sua trasformazione. E' in atto un rinnovamento. Si tratta di accompagnare questa famiglia nella sua trasformazione, perché diventi sempre più luogo di amore autentico e di umanizzazione.

2. Occorre imparare dall'attuale situazione.

Siamo stati educati ad aderire ai nostri principi, e se la realtà non corrisponde ai nostri principi, o a quelli della chiesa, diciamo che la società è malata. La Chiesa da sempre, ha contrastato tutti i movimenti che mettevano in discussione i suoi rigidi principi. Invece di mettersi in discussione ha costantemente cercato di mettere in discussione il mondo. Si pensi al tema della emancipazione e liberazione femminile, al tema della democrazia, al tema della scienza, per indicarne alcuni. Il Concilio ha messo in rilievo che Dio parla attraverso i tempi, e Giovanni XXIII diceva che occorre leggere i segni dei tempi, in quanto Dio parla ancora oggi. Occorre sì avere dei principi, ma non assoluti, altrimenti impediamo a Dio di parlare. Occorre sentirsi discepoli del mondo, che è un luogo teologico, in modo da vivere la nostra fede, occorre avere simpatia verso il nostro tempo.

3. Si deve distinguere fra Chiesa e Regno.

Le coppie che convivono e in cui ci sia l'amore di comunione, di condivisione, di complicità (e non solo di sentimenti) non faranno parte della chiesa, dato che la chiesa, come ogni altra realtà umana, ha delle regole. Queste coppie però, che vivono l'amore, fanno parte del Regno, non sono lontane da Dio che è amore. Questo vale anche per i divorziati risposati. Ci sono coppie di divorziati che vivono un amore, e alle volte anche la fede - ve lo posso garantire - molto più intensamente di quanto non lo vivessero nel primo matrimonio. Allora, possono essere lontani dalla chiesa, ma non dal regno. E' necessario allora l'assunzione di un nuovo atteggiamento verso le famiglie che noi diciamo "irregolari". Irregolari secondo la chiesa o secondo il regno? La domanda è imperiosa, forse impertinente, ma doverosa. Occorre trattare queste coppie e queste famiglie con simpatia, aiutandole a vivere l'amore e accompagnandole a vivere la vita della chiesa per quanto è possibile, ma sempre con rispetto del mistero che è in loro, quel mistero che è l'amore.

dibattito

un canone del concilio di Toledo

''D.:In un articolo di Giancarlo Caselli (L'Unità, 24.02.07) si riporta il canone 17 del Concilio di Toledo dell'anno 400 d.C., in cui si dice:
"Si quis habens uxorem fidelis concubinam habeat, non communicet: ceterum is qui non habet uxorem et pro uxore concubinam ha
beat, a communione non repellatur, tantum ut unius mulieris, aut uxoris aut concubinae, ut ei placuerit, sit conjunctione contentus; alias vero vivens abijciatur donec desinat et per poenitentiam revertatur". ("Se un cristiano sposato ha una concubina, sia privato della comunione. Invece chi non è sposato e tiene al posto della moglie una concubina, non sia tenuto lontano dalla comunione; soltanto si limiti all'unione con una sola donna, o moglie o concubina, come più gli piace. Chi invece vive nell'altra condizione sia cacciato finché non smetta e ritorni facendo penitenza").
Si riconosce in questo canone con molta semplicità l'unicità della coppia, dando minore importanza al fatto di essere moglie o concubina e si afferma la possibilità di accesso all'eucarestia.''

R.: Il canone 17 del Concilio di Toledo certamente va interpretato e collocato nel suo contesto, ma l'idea fondamentale è il riconoscimento dell'amore prima del matrimonio, prima dell'istituzione. Si parla di un rapporto di amore, fra una concubina, cioè una donna evidentemente non sposata, e un uomo non sposato, che vivono insieme, e che possono accedere alla comunione. Questo ci fa capire che la chiesa non può estromettere chi fa parte del regno. Io ammetto che la chiesa, come istituzione, abbia delle regole, esiga anche delle appartenenze visibili, ma non accetto che queste regole diventino assolute, discriminanti, fino a giungere ad affermare che in un caso c'è amore e nell'altro no.
Mi dicevano recentemente che un giovane parroco di un'importante parrocchia della provincia di Vicenza aveva detto pubblicamente che fra due omosessuali non ci può essere mai l'amore. Chi lo dice? Nella comunità dove io sono parroco, prima che io arrivassi c'erano due parrucchieri, omosessuali, due brave persone, che vivevano insieme in una villetta, in buoni rapporti con la gente. Erano persone stimate, benvolute, che facevano anche delle offerte per la sagra, ecc. Sono morti di AIDS, e la gente li ricorda ancora oggi, perché si aiutavano reciprocamente ed erano complici l'uno con l'altro della loro vita.

matrimonio civile e religioso e regolamentazione convivenze

''D.: In Svizzera dal 1912 il codice ha imposto il matrimonio civile come requisito per fare anche il matrimonio religioso. Ci sono sempre stati i matrimoni di coscienza, però il prete, che celebrava il matrimonio religioso senza che ci fosse stato prima il matrimonio civile, era multato. Questa disposizione, nella società cattolica ticinese, ma praticamente in tutto lo stato, era tranquillamente accettata.
Una delle richieste del Sinodo svizzero del 72 era che la chiesa riconoscesse come matrimonio indissolubile anche quello civile, perché faceva scandalo che una persona potesse celebrare un nuovo matrimonio in chiesa, dopo aver divorziato in seguito ad un matrimonio solo civile. Il discorso non ha avuto sviluppi perché la chiesa, specialmente quella italiana, continua a difendere il matrimonio religioso. Ora il matrimonio religioso si è largamente diffuso solo dopo il concilio di Trento.
Arriviamo alla situazione attuale. In Svizzera è stata fatta la legge che regolamenta le convivenze tra gli omosessuali. Questa legge non è stata estesa alle convivenze tra eterosessuali, perché si ritiene che il matrimonio civile, per la facilità del divorzio consensuale, è sufficientemente duttile per soddisfare tutte le esigenze. In Francia invece utilizzano molto di più questo "patto civile" persone di diverso sesso piuttosto che gli omosessuali.
Potrebbe essere una soluzione quella di staccare di più il matrimonio religioso, cioè l'aspetto sacramentale, dal matrimonio di tipo civile, contrattuale?''
R.: Per quanto riguarda il problema dei Dico, anch'io sono d'accordo nel dire che la regolamentazione ivi contenuta interessa soprattutto le coppie omosessuali, le quali, a differenza di quelle eterosessuali non hanno nessun altro possibile approdo. Non parlo di matrimonio, ma di patti sociali, di patti civili, di diritti dei conviventi. Al contrario, succede che il magistero sarebbe anche disposto ad ammettere qualche diritto per i conviventi eterosessuali, ma in nessun modo per quelli omosessuali. Ricordo che il mio vescovo attuale, nonostante un mio diverso parere, si è opposto in maniera decisa ad un progetto che prevedeva un registro delle coppie conviventi. E la sua opposizione era proprio dovuta al rifiuto di un possibile utilizzo della registrazione da parte delle coppie conviventi omosessuali.
Personalmente sono per una chiesa umana, cioè che rispetta le persone così come sono. Anche Tettamanzi in un'intervista lo scorso anno diceva che non si era ancora pronunciato sul tema della legislazione dei Dico, ma che dal Vangelo vedeva che Gesù aveva amato le persone così com'erano. Il problema va posto allora in termini evangelici.
Per quanto riguarda i due tipi di matrimonio, io sono tra quelli che vorrebbero distinguere il matrimonio civile dal matrimonio religioso, come scelta. Una scelta di vita e di responsabilità in campo sociale, civile, e una scelta di vita in campo di fede, e di comunione ecclesiale.
Per quanto riguarda il riconoscimento dei matrimoni civili, è vero che, mentre i protestanti considerano il matrimonio civile come un vero matrimonio, valutato allo stesso modo del matrimonio religioso, da tenere in considerazione in caso di separazione, i cattolici permettono a chi si separa dopo avere contratto solo il matrimonio civile, di risposarsi in chiesa. Il matrimonio civile non viene considerato perché c'è un canone che dice che per i battezzati l'unico matrimonio è quello sacramentale: qui sta il problema.

il peso della tradizione

D.: Non ritieni che una delle maggiori difficoltà a rivedere la disciplina sul tema dei divorziati risposati, un po' anche come era successo per l'Humanae Vitae, riguardi il modo di intendere la fedeltà alla tradizione? A volte si ha l'impressione che la tradizione diventi un feticcio. Un vero, autentico rapporto con il passato è sempre creativo, e consiste nella capacità di cogliere quello che è il nucleo fondamentale del passato per viverlo in forme nuove oggi.

R.: Come dicevo all'inizio, se noi assolutizziamo la tradizione e vi restiamo inchiodati, impediamo di poter cogliere o di inventare il nuovo. Non si tratta di inventare in maniera spontaneistica, ma di innovare in nome del vangelo. A questo proposito la cosa più grave oggi riguarda il problema del sacerdozio delle donne, perché, a parte i tanti motivi di scarsa consistenza teologica, il motivo più "naturale" è che la tradizione cattolica cristiana non ha mai avuto donne prete e quindi non ne avrà mai. Questo però non è un discorso logico!
Molti teologi fanno riflessioni diverse sul sacerdozio. Dobbiamo veramente domandarci cosa è il sacerdozio, qual è il suo significato. Se il sacerdozio è l'idea di un carisma che fa comunione, questo carisma di comunione può essere sia dell'uomo sia della donna. Luigi Sartori, fra i teologi italiani più intuitivi, diceva che il carisma del prete, dell'autorità religiosa, è un carisma vuoto, perché deve riempirsi dei carismi della comunità. Il prete non deve guidare la comunità col suo carisma, ma in qualche modo lasciarsi possedere, abitare, dai carismi della comunità.

un breve riassunto

Se vogliamo affrontare correttamente il problema delle convivenze e dei divorziati risposati dobbiamo anzitutto avere come orizzonte la centralità dell'uomo, la convinzione che l'uomo non è per i principi, ma i principi sono per l'uomo e che la fede è una chiamata a diventare uomini. Inoltre dobbiamo liberaci dagli assoluti, perché la verità assoluta, che esiste, non la si possiede ed è sempre da ricercare.

Le convivenze

Le convivenze sono un fenomeno relativamente recente e oggi abbastanza diffuso, probabilmente più di quanto non dicano le statistiche. Pur senza avere il carattere contestativo del passato sono una spia del processo di privatizzazione che domina l'Occidente, alimentato anche da una visione individualistica della salvezza.
Tra le molteplici cause all'origine del fenomeno c'è sicuramente la dilagante cultura anti istituzionale (sfiducia nei confronti di tutte le istituzioni, compresa la chiesa), la cultura della reversibilità (spaventa non l'ideale dell'amore "per sempre", ma l'obbligo di dovere stare assieme anche se l'amore viene meno) e la cultura del provvisorio (la sicurezza e la definitività spengono la passione).
Non tutte le convivenze sono dello stesso tipo. C'è la convivenza disimpegnata ("stiamo insieme finché sto bene con te"), la convivenza motivata dall'esigenza di una maggiore conoscenza (come periodo di prova) e la convivenza impegnata (solo sapendo che la relazione è provvisoria sono stimolato ad impegnarmi per viverla e alimentarla).
Quali atteggiamenti da assumere nei confronti delle coppie conviventi? Occorre anzitutto aiutare queste coppie a vivere sempre meglio l'amore (al primo posto non "sposatevi", ma "amatevi", date spazio al vostro amore), facendo riscoprire la dimensione sociale dell'amore (la coppia non cresce senza la relazione con il mondo, senza percepirne la ricchezza). Bisogna poi essere un po' più comprensivi con queste coppie (non è imponendo il matrimonio che si riesce a far apprezzare il senso comunitario dell'amore e della scelta istituzionale, ma accompagnandole con comprensione e benevolenza) con la consapevolezza che la celebrazione del matrimonio è l'approdo verso cui tendere (sempre ricordando che le persone sono più grandi dei nostri ideali).

I divorziati risposati

Il fenomeno dei divorziati risposati è un fatto nuovo (fino al 74 l'indissolubilità del matrimonio era in vigore anche sul piano civile) ed inquietante (il divorzio produce lacerazioni e sofferenze). E' necessario che la comunità cristiana sappia ascoltare le domande e gli interrogativi delle persone che hanno problemi di coppia e che magari arrivano anche alla separazione e al divorzio.
Si è cercato, in un recente passato, di dare una soluzione al problema dando la possibilità alla coscienza illuminata del singolo di giudicare della nullità del precedente matrimonio, quando si è in presenza di motivi non dimostrabili sul piano giuridico. Tutte le proposte in questo senso sino ad oggi non sono state accolte, con motivazioni non prive di contraddizioni.
Una grande svolta si è avuta con la Familiaris Consortio del 1981 di Giovanni Paolo II: i divorziati risposati non sono più ritenuti pubblici peccatori, scomunicati, ma fedeli cristiani, che fanno parte della chiesa, alla cui vita devono partecipare.
Certamente il non poter partecipare all'eucaristia è percepito da molti come una fonte di grande emarginazione. Come si può partecipare alla mensa eucaristica senza la comunione? Sarebbe come invitare uno a pranzo e non farlo mangiare. Sempre la Familiaris Consortio afferma che i divorziati risposati possono implorare la grazia di Dio. Se sono in grazia di Dio perché non possono accedere all'eucaristia?
Il problema è il nodo dell'eucaristia. Se l'eucaristia è al centro della vita cristiana, come possono vivere pienamente la loro fede rimanendone lontani? Per molto teologi l'esclusione è un fatto disciplinare (la Chiesa può porre delle condizioni per l'accesso all'eucaristia) e quindi modificabile. Illuminante potrebbe essere il confronto con la Chiesa di Oriente, che ha una concezione sacramentale del matrimonio molto simile a quella della Chiesa cattolica. Ora la Chiesa ortodossa in alcuni casi accoglie i divorziati risposati (in caso di "porneia", quando cioè viene meno l'amore interpersonale, in caso di apostasia e quando il coniuge scompare).
Per uscire da queste difficoltà (secondo Petrà) è possibile percorrere una via indolore (allargare le maglie del codice di diritto canonico perché le coppie abbiano maggiori possibilità di risposarsi) o la via "dolorosa" della revisione della dottrina cattolica sul matrimonio. Se l'indissolubilità non è una legge ma un valore che devo cercare di vivere, nel caso di fallimento per i più svariati motivi devo avere la possibilità di accedere ad un altro matrimonio.
Se con la morte fisica sono possibili nuove nozze per il vedovo, perché non accettare seconde nozze in casi paragonabili alla morte fisica come la morte affettiva? Per ora il magistero della Chiesa non accoglie questa prospettiva.
Occorre comunque avere uno sguardo colmo di speranza nell'osservare le coppie e le famiglie di oggi, che non vanno scomparendo ma si stanno trasformando, cogliendo anzitutto quanto di bello e di positivo c'è e sapendo imparare dalla attuale situazione. Bisogna saper distinguere tra Chiesa e Regno: le coppie conviventi, come quelle dei divorziati risposati, in cui c'è l'amore, saranno pur lontane dalla chiesa, ma non dal Regno di Dio, che è amore.

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