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Matrimonio: incontro e sintesi di eros e agape

sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 3 febbraio 2007

dal sociologo al teologo, dall'eros all'agape: un itinerario complesso e a ostacoli

I due interventi dei precedenti incontri, quello della sociologa Carla Lunghi e quello del teologo Giannino Piana, in qualche modo costituiscono gli estremi del discorso.
Da una parte Carla Lunghi ha presentato la crisi dell'amore, dell'eros, della relazione di coppia. La relazione di coppia, la famiglia, sembra essere rimasta l'unica relazione veramente significativa e quindi molto agognata. Allo stesso tempo mai è apparsa così fragile.
Dall'altra Giannino Piana ha disegnato l'utopia dell'agape, della carità.
Tra eros e agape c'è una tensione, che non è solo quella intrinseca al loro rapporto (aspetto di cui oggi parleremo), ma anche una tensione legata ad una situazione epocale, a quello che noi stiamo vivendo, una tensione che si è acutizzata nella post modernità, negli ultimissimi decenni, nei cambiamenti ancor più vertiginosi degli ultimi 20 anni, di cui la famiglia è stata, a seconda della prospettiva, vittima o fruitrice.
Tra l'intervento della sociologa e l'intervento del teologo sembra essersi creato un abisso. In realtà non è un abisso, ma è certamente una tensione, che va affrontata sul piano esistenziale. Tuttavia non è questo il tema dell'incontro di oggi.
Dobbiamo guardare in profondità, per quanto è possibile, per capire che cosa è l'eros da un lato e che cosa è l'agape dall'altro. A partire dall'eros cammineremo verso l'agape, procedendo lentamente in una corsa ad ostacoli. Ciò che in un primo tempo vedremo in una prospettiva laica o filosofica sarà poi ripreso in chiave teologico-biblica.
Il nostro itinerario sarà dall'eros all'agape, ma non nel senso che l'eros purificandosi arriva all'agape: questa è la visione classica di Platone ripresa dalla tradizione filosofico-teologica cristiana e ultimamente da papa Benedetto XVI.
Mi sono sentito molto gratificato del fatto che un papa come prima enciclica abbia scelto come tema "Dio è la carità" (1 Gv 4). Ho accolto con gioia il messaggio, ma non posso non essere in dissenso sul sistema. Lo stesso papa ha detto che il suo prossimo libro che uscirà in primavera su Gesù potrà anche essere criticato, perché si tratta della sua visione su Gesù, della sua elaborazione teologica. Io ho la mia. Sono presuntuoso? Forse, non lo so. Di fronte al teologo Ratzinger c'è il teologo Armido Rizzi.
Nella enciclica Deus caritas est si afferma che l'agape è la forma superiore dell'eros, che in radice eros e agape si identificano. Io credo di no. Tutto quello che vado dicendo da trent'anni a questa parte si basa proprio sulla distinzione radicale tra eros e agape. Il che non vuol dire che eros ed agape non possano comporsi. Tuttavia di mezzo c'è un salto, ci sono radici diverse. Il percorso dall'eros all'agape è una corsa ad ostacoli.

1. il paradosso dell'eros.

Il punto di partenza può essere il titolo di un film di Carlo Verdone: L'amore è eterno finché dura, che esprime un paradosso che merita di essere meditato.

l'amore è eterno finché dura

Di questo titolo possono essere fatte due letture.

contraddizione tra ideologia religiosa e sociale e realtà

Il titolo può essere solo un bel gioco di parole, in quanto l'amore non è affatto eterno. L'amore eterno, il "ti amerò per sempre" è una ideologia, che ha preso corpo nella tradizione occidentale, attraverso il cristianesimo e che è durata a lungo, ma che ora sta crollando. La ragione del crollo è proprio l'attuale accentuazione del rapporto uomo-donna come rapporto erotico, come desiderio e ricerca di appagamento reciproco. È proprio dell'eros la fragilità, l'essere liquido, come diceva la sociologa Carla Lunghi rifacendosi a Zygmunt Bauman. Ecco allora il gioco di parole: eterno finché dura.

contraddizione interna alla stessa realtà dell'eros

È possibile fare una lettura più in profondità del titolo, probabilmente non quella a cui pensava Verdone (a ognuno il suo mestiere). All'interno dello stesso eros, c'è una tensione tra fragilità ed eternità.

fragilità dell'eros

Di natura sua l'eros è fugace. La contraddizione espressa da quel titolo è interna proprio all'eros e non solo fra la sua realtà (breve) da un lato e la sua ideologia (di eternità) dall'altro,
Perché la fragilità? Perché l'eros è qualcosa che ci invade, che non abbiamo tra le mani, di cui non possiamo disporre. È una forza della natura, o, secondo i greci, una forza del destino. L'essere innamorati non dipende da una nostra decisione.
Altre lingue europee mostrano meglio della nostra il carattere dell'eros, come qualcosa che ci invade, che non dipende da noi. In inglese innamorarsi si dice to fall in love, che significa cascare nell'amore. In francese ci sono le espressioni tomber amoureux, cioè cascare innamorati, e tombeur de femmes per indicare il seduttore di donne, che le fa cascare.
Si tratta quindi di un cascarci dentro, di qualcosa che ha origine non come frutto di una mia decisione, che io possa prendere in mano e di cui possa disporre.
È vero che l'innamoramento reciproco può anche durare a lungo per un insieme di ragioni che non dipendono da nostre decisioni, ma da come siamo stati fatti dalla natura e dalla cultura.
In realtà esso è intrinsecamente fragile, così come intrinsecamente fragile è la nostra vita, in ebraico "basar", l'uomo nella sua condizione di fragilità e brevità. Può anche durare a lungo, ma è intrinsecamente fragile. Basta un nulla perché appassisca, come un fiore.

desiderio che si fa promessa (per sempre)

Dentro questa realtà così fragile e fugace e che ci invade dal di fuori, per cui noi diventiamo suoi più di quanto essa diventi noi, c'è un qualche cosa che punta all'eternità, al "per sempre". Se due sono innamorati è impossibile pensare che un domani non lo saranno più.
La logica del desiderio ("desiderio" è la traduzione migliore in italiano di "eros" in tutte le sue modalità), in questo caso la logica del desiderio reciproco, del desiderio della presenza e del godimento dell'altro, che io possa godere dell'altro e al tempo stesso che l'altro possa godere di me, porta dentro di sé la dimensione dell'eternità, del "per sempre".
C'è una parola latina che unisce due significati, su cui gioco il mio svolgimento. La parola latina "votum" indica sia la promessa giurata (faccio un voto alla Madonna), sia il desiderio (faccio voti che, ti auguro che). Votum in latino vuol dire desiderio e vuol dire promessa. È un desiderio che addirittura produce la promessa.
Il dire "desidero stare sempre con te" fiorisce naturalmente nel dire "starò sempre con te, ti giuro amore eterno, non posso pensarmi senza di te". È un desiderio che diventa anche un dire all'altro: "e sarà così". Sono due cose ben diverse, ma che si coniugano, come ha mostrato Freud nell'analisi della religione come illusione, nel suo scritto L'analisi di un'illusione. Per Freud l'illusione non è un sogno diverso dalla realtà, ma un'affermazione sulla realtà: non perché la realtà è così, ma perché si vuole che sia così. Il fondamento della mia affermazione sulla realtà non deriva dallo studio della realtà, ma dal desiderio che le cose siano così. Non che siano così adesso, ma che le cose che adesso sono così vadano avanti per sempre. Il desiderio si sente certezza che così sarà.
Allora "l'amore è eterno finché dura" è una tensione e un paradosso, è una contraddizione interna all'eros stesso. Non è solo una contraddizione tra la realtà dell'eros fugace e una ideologia (sociale o religiosa) di permanenza, di "per sempre", ma è dentro l'eros stesso, è un suo desiderio, che diventa augurio per sé e diventa promessa per l'altro.

i grandi amori (letterari) sono quelli impossibili

I casi degli amori che durano, e che durano esclusivamente sotto il segno dell'eros, li conosciamo soprattutto attraverso la letteratura. L'amore incestuoso di Fedra con il figlio Ippolito, l'amore tra Giulietta e Romeo, l'amore tra Didone ed Enea... sono amori che non avevano la possibilità di raggiungere il loro oggetto. La condizione perché l'amore duri per sempre è che non possa mai realizzarsi. È la logica del desiderio.
Al contrario: appena raggiunta, la cosa desiderata diventa obsoleta, cessa di essere desiderabile. Non è solo obsolescenza degli oggetti, del loro usurarsi con il tempo e con l'utilizzo, ma è obsolescenza dei desideri stessi. L'ultimo prodotto, l'ultimo computer, l'ultimo cellulare brucia la desiderabilità di quello che si possiede. È la desiderabilità di quello che non si ha.
Il giorno successivo al mio ingresso in seminario, il 9 ottobre del 1943, a Pavia, il nostro prefetto di disciplina ci fece una breve meditazione sul motto latino: ab assuetis non fit passio: l'abitudine uccide la passione.
L'amore del dolce stil novo è basato sulla idealizzazione dell'immagine dell'altro, in questo caso della donna, vista come irraggiungibile. Ed è proprio l'irraggiungibilità che crea la poesia dell'amore eterno.
Ora l'amore che mi ha invaso, che mi ha preso, posso prenderlo e "gestirlo"? Credo che sia proprio questo il significato della promessa.
Lasciamo per un momento lo specifico dell'amore di coppia e vediamo cosa è in generale la promessa.

2. la promessa

Una riflessione sulla promessa si è sviluppata nel Novecento soprattutto ad opera della filosofia del linguaggio. Precedentemente, dalla tradizione greca alla Scolastica, il linguaggio era visto come un rispecchiamento della realtà, come un prendere atto della realtà. Il linguaggio cioè dice come stanno le cose, esprime all'esterno il linguaggio interiore della mente (le idee, i giudizi...). Nei giudizi si afferma che le cose stanno così o non stanno così.

linguaggio performativo: fa le cose che dice

A metà degli anni cinquanta del Novecento il filosofo inglese John Austin, nell'opera How to do things with words (Come fare cose con le parole), sostiene che non c'è solo il linguaggio che constata (il linguaggio constativo), che registra la realtà così come è, che dice come stanno le cose. C'è un altro linguaggio, quello performativo, che, al posto di registrare come stanno le cose, fa le cose che dice, intende produrre nuovi stati di cose. Il linguaggio performativo è quello dei contratti, delle leggi, delle costituzioni, così come quello dei riti (e specificamente quello dei sacramenti). Questo linguaggio non produce cose materiali, ma quel singolare "stato di cose" nelle relazioni umane che è l'impegno reciproco.
C'è un certo tipo di situazioni che nascono perché mi impegno a farle nascere.

la promessa

La principale modalità di questo linguaggio è la promessa. Io sono qui in questo momento perché ho promesso a Giancarlo, e attraverso di lui a voi, di essere qui. Potevo avere molte ragioni per non venire, ma dal momento che ho dato la parola due mesi fa a Giancarlo di essere qui per le tre, non potevo non venire.
Per tener fede a quella promessa ho programmato quello che dovevo fare. Ho consultato l'orario dei treni per il tratto Milano-Verbania, e poi Firenze-Milano. Quindi ho preso nota dell'orario degli autobus di sabato mattina tra Fiesole dove risiedo e la stazione di Firenze e dopo questo ho impostato la sveglia. Ho fatto così un progetto. E sappiamo che i progetti, al contrario delle loro realizzazioni, partono dalla fine e crescono procedendo a ritroso.
Ma tutto questo è stato comandato. A differenza di un progetto che faccio tra me e me ("mi riprometto domani di"), questo progetto è nato a partire da qualcosa che è prima di me. Non è un mio progetto che parte da me, ma è un progetto che nasce dalla richiesta che mi è stata rivolta a cui potevo dire di no. Dal momento in cui ho detto di sì, non posso più dire di no, per delle ragioni che siano soltanto mie. Nel frattempo potrebbero essere sorte ragioni più attraenti e più desiderabili (in questo senso più erotiche) rispetto alla prospettiva di venire tra voi.
(In realtà non ci sono molte cose che sollecitano il mio desiderio in misura maggiore rispetto a quella di venire a Pallanza, tra amici, per parlare di ciò che sta al centro dei miei interessi e delle mie riflessioni).

ogni promessa è debito

Se io sono qui è perché ho fatto una promessa. C'è qualcosa in questo che è da ripensare profondamente. Ho fatto una promessa e ogni promessa è debito. È vero, è filosoficamente vero. Ma come faccio ad essere in debito se nessuno mi ha prestato nulla? Anzi, non solo non mi hanno dato nulla, ma mi hanno chiesto qualcosa.
Io ho creato il debito nel momento in cui ho accettato di venire.
Quello che la promessa produce direttamente non è il venire qui, ma l'apertura del debito.
Prima la promessa, poi l'accettazione di venire, infine la decisione di venire. Mi sento in debito di venire qui. Sono legato. Il mio essere qui è l'effetto di tutto questo insieme.
"Debitum" in latino viene da "debere". È il dovuto: io dovevo a voi di venire qui. Questo è la cosa che ha fatto irruzione.
Noi non siamo solo dei soggetti che percepiscono la realtà, ma anche dei soggetti che nelle loro relazioni istituiscono la nuova realtà da cui sono vincolati.

la promessa instaura un debito reciproco

La promessa, una volta fatta, ci impegna: lo svincolarci da essa ferisce l'ordine delle relazioni del debito reciproco.
La promessa impegna non solo me che ho detto di sì alla richiesta, ma anche chi mi ha rivolto la richiesta, nell'attendermi e nello svolgere l'iniziativa alla quale sono stato invitato. La promessa diventa un vincolo reciproco
Questo vincolo lo abbiamo contratto perché lo abbiamo voluto noi, ma è un vero e proprio vincolo che ci lega, è un dover essere. Non è un dover essere che ci prende alle spalle, all'improvviso, come nel caso del buon samaritano che, mentre sta facendo la sua strada, improvvisamente deve fermarsi, perché la sua strada è diventata quel povero cristo.
Io potevo dire di no, ma dicendo di sì con la mia promessa ho aperto un'altra dimensione della realtà, quella che Kant chiama il regno dei fini in sé, la dimensione personale ed interpersonale, la dimensione etica.
Se io non devo restituire nulla, perché sono in debito? Perché innanzitutto ho creato nell'altro un'attesa. Ma non basta.
Le previsioni del tempo, che ascoltiamo o che leggiamo su di un quotidiano, creano un'attesa. La previsione di una giornata soleggiata ci spinge magari a programmare una gita. In caso di pioggia, non posso dire di essere stato tradito, ma che è stata tradita la mia attesa.
Quello che invece fa la promessa è aprire nell'altro la fiducia, la fede. Se si vuole si può dire che io ho un debito perché l'altro ha fatto credito alla mia parola.
Ma debito e credito non sono forse metafore di carattere economico e finanziario impiegate per parlare di rapporti interpersonali? Per nulla, è vero il contrario. È una delle grandi lezioni di Marx (feticismo delle merci). Il debito, il credito, la fidejussione riguardano originariamente le relazioni interpersonali e solo successivamente il credito è diventato la banca di credito e così via. Perché questa società è falsa secondo Marx? Perché ha sostituito alle relazioni personali e interpersonali, al legame reciproco, al legame etico, il giro delle merci, e il giro del denaro che è l'equivalente universale delle merci. La relazione tra persone è il luogo originario del linguaggio del debito e del credito. Io ho aperto nell'altro non solo un'attesa, ma anche una fiducia. Gli devo quel che si attende da me, in quanto ha avuto fiducia in me.

con la promessa creo attesa e ricevo fiducia

A questo punto possiamo tornare al discorso della coppia e del matrimonio. Ogni volta che noi facciamo una promessa di una qualche consistenza (un tempo si giurava sulla Bibbia, sulla Costituzione o sulla testa dei propri figli, su qualcosa di molto importante, di sacro) si apre la dimensione etica. Perché devo attenermi a quello che ho promesso? Perché sotto il mio fare la promessa c'è qualcosa che appartiene ad un ordine di realtà che io non posso prendere in mano.
Io posso prendere in mano i miei desideri e selezionarli. Posso fare una promessa o non farla, ma una volta fatta non è più mia, non perché mi sfugge di mano, ma perché non sono più libero di ritirarla (salvo casi che lo giustifichino...). Strutturalmente il vincolo è posto, il vincolo resta. E il fondamento di questo vincolo non è più la mia realtà, né quella dell'altro. Sotto c'è un altro fondamento.

3. il matrimonio - la famiglia

Dal dì che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d'altrui...
(U. Foscolo, I sepolcri, vv. 91-93)

le tre istituzioni: religione, giustizia, matrimonio

Sono qui indicati i tre vincoli (nozze, tribunali ed are) che Foscolo ritiene fondamentali. Sono vincoli istituzionali fondamentali, che non sono nelle mani dell'individuo. Neopagano, Foscolo non è certo sensibile alla dimensione sacramentale del rito matrimoniale, né al suo retroterra biblico. Ma sa che il sacro è più ampio della tradizione ebraico-cristiana e, soprattutto, che ad esso si deve la pietas come principio dell'umanizzazione dell'uomo.
Le tre istituzioni sono: "are" e quindi la religione in genere, non solo il cristianesimo; "tribunali", cioè l'amministrazione della giustizia (è giusto riconoscere il torto fatto e ristabilire la giustizia quando c'è stato il torto, o vedere quali siano i termini di ciò che è giusto in una determinata situazione e via dicendo); e infine "nozze", non solo a livello erotico, del desiderio, ma anche a livello della promessa reciproca, a quell'altro livello che fa parte dell'ambito del sacro.

dalla belva alla pietas

Foscolo sostiene che queste tre istituzioni "diero alle umane belve esser pietose/di se stesse e d'altrui". L'uomo cioè non nasce umano, non nasce dotato della pietas, ma nasce come una belva. Alle spalle c'è Hobbes, e la sua concezione dell'uomo lupo per l'altro uomo, anche se in maniera più "felpata". Mentre Hobbes vede il superamento della natura umana violenta nel contratto sociale che dà origine allo Stato moderno, Foscolo pensa a tre istituzioni, di cui una espressamente religiosa (le are). Pertanto le umane belve, più che l'uomo-lupo di Hobbes, indicano il bambino che non ha ancora la pietas, che vuole tutto, che dice continuamente "voglio". Certo, poi non ha la potenza per realizzare questo suo "voglio", non ha la potenza del lupo, ma interiormente lo è ancora di più, perché, a differenza del lupo che è così per natura, il bambino/uomo rivendica un diritto.
L'uomo non nasce dotato di pietas, cioè di quel legame con gli altri che non è semplicemente il legame di fatto che mi invade, mi investe, mi trovo dentro, come l'innamoramento o l'eros.
Si accede alla pietas, al legame davvero personale, quando faccio e accolgo una promessa, quando prometto - è la formula del matrimonio cattolico - di stare insieme nella buona e nella cattiva sorte, vale a dire sia quando le cose vanno bene, quando l'eros può funzionare e non c'è bisogno di altro, sia quando le cose funzionano meno bene.

le nozze spazio originale della pietas

Le nozze sono la forma di promessa per eccellenza. "Sposi" deriva dal latino "spondere", che vuol dire promettere. L'espressione "promessi sposi" è quindi una ripetizione, ma in italiano sta ad indicare che ognuno si è fatto nel suo cuore una specie di promessa che attende di diventare una promessa autenticamente sponsale, quella dove i due passano ad un altro piano.
Nella teologia cattolica ministri del matrimonio sono gli sposi e non il prete. Si riconosce che la nuzialità, la sponsalità, la sostanza del sacramento è il sì che si dicono i due. Non è la presenza né la benedizione del prete.
In occasione del mio matrimonio, per cercare di superare alcune difficoltà frapposte alla nostra intenzione di celebrarlo in forma non concordataria, mi sono recato alla Gregoriana di Roma per consultare un professore di teologia sacramentaria. Questo docente mi disse che avrei risolto il problema facilmente trovando un vescovo consenziente. In caso contrario, secondo una tesi teologica, anche se non la più seguita, avrei potuto celebrare il sacramento anche solo sposandomi in comune. E questo perché la sostanza della pietas, della unione tra i due, della relazione che appartiene ad un'altra dimensione rispetto all'eros (che non ha bisogno né di chiesa né di comune per esserci) è già dentro il matrimonio, comunque sia celebrato.
In questa relazione c'è l'eros, anzitutto nella sua dimensione naturale. Gli affetti nascono dentro di noi perché siamo colpiti da qualcosa che ci mette in relazione con l'esterno, provocando, se gradevole, desiderio o, se sgradevole, ripulsa.
L'uomo però non è solo natura, ma anche cultura. La cultura è quella capacità, che solo gli umani hanno, di intervenire sulla realtà esterna e di modificarla, sia creando strumenti di lavoro, sia creando costumi, leggi.
Ma dire che l'uomo è un essere culturale, non solo naturale, non basta.
C'è una dimensione che va al di là della capacità dell'uomo di produrre anche a livello sociale il tipo di relazioni che poi costituiscono l'ethos. È la dimensione che ci vincola e che chiamiamo normalmente l'etica o la morale.
Accanto alla realtà naturale e culturale, come intervento sulla natura, c'è la realtà etica.
La morale è il legame che non si dà perché ti salta addosso, ma che ti mette di fronte alla possibilità di accettarlo o di rifiutarlo. Nel caso della promessa, di rifiutarlo anche dopo che l'hai fatta. È un legame che una volta che l'ho costituito mi vincola al di là della mia libertà. La pietas creata dalla religione, dalle nozze, è una specie di amalgama tra l'eros e quest'altra cosa, cioè la volontà che, avendo detto di sì, prende in mano l'eros e lo plasma in modo che duri.

Aristotele versus Foscolo: la famiglia come società naturale?

Aristotele considera la famiglia come una società naturale e la distingue dalla polis, dalla città-stato. La famiglia in quanto società naturale è un fatto di sangue, un fatto di eros.
È un po' strano che Aristotele non veda nella famiglia quella stessa dimensione etica che attribuisce alla polis, mentre dagli studi etnologici e antropologici emerge che in tutte le culture la famiglia è molto regolamentata, proprio in quanto cellula della società civile. È vero comunque che quello che Aristotele chiamava polis, o città-stato, non è il nostro stato, ma si avvicina di più alla nostra società civile. Tra etica e politica c'è un intrico senza una netta linea di demarcazione. Non è che si possa dire che a un certo punto finisce l'etica e da lì comincia la politica, ma l'etica diventa a un certo punto necessariamente politica, quando non è più solo individuale, ma riguarda le relazioni. Allora, la famiglia è la cellula sociale, non semplicemente perché si danno delle relazioni, così come non basta dire che l'uomo non è un'isola o che l'uomo è un essere essenzialmente relazionale. Le relazioni erotiche infatti non costituiscono una vera dualità, ma solo una dualità simbiotica. Le relazioni veramente sociali, le relazioni nel senso più profondo e appropriato del termine, le relazioni veramente umane, interpersonali, sono quelle in cui io in prima persona mi metto in rapporto con te e tu in prima persona ti metti in rapporto con me. E questo è il regno dei fini, il regno della realtà morale, l'etica.

tolleranza e misericordia

Certo, non è che a partire dalla dimensione etica si possano dedurre tutte le regole. Se capita che i due non vadano d'accordo e che uno dei due vada via, restare fedeli alla promessa, alla famiglia può anche diventare un inferno. Si deve restare fedeli all'inferno? No. Diventerebbe immoralismo.
La dimensione etica è un orizzonte, o una struttura che in nuce contiene un'utopia che si è chiamati a realizzare. Se poi uno fallisce, come scrissi in un articolo per Servitium esattamente trent'anni fa, nel '77, rimane la misericordia. Quando la relazione tra due persone, che si sono dette di sì, che si sono giurate amore eterno nella buona e nella cattiva sorte, fallisce, e fallisce perché uno se ne va, l'altro cosa fa? Si inventa una vocazione celibataria? Oppure sta ad aspettare che l'altro ritorni, distruggendo magari la seconda famiglia per tornare alla prima? Credo che in questo caso lo stato debba ricorrere al principio della tolleranza, e la comunità cristiana al principio della misericordia.
Forse la tolleranza è un angolino della misericordia di Dio.

l'amore etico, comandato, è necessario per governare l'amore erotico

L'espressione "l'amore è eterno finché dura" si muove all'interno di dinamiche puramente erotiche. L'amore etico è necessario per governare l'amore erotico. L'amore etico può essere chiamato in termini più biblici "amore comandato".
Guido Ceronetti, in una intervista comparsa su "La Repubblica", sostiene che non bisogna far leggere I promessi sposi di Manzoni in quinta ginnasio, perché è un romanzo troppo impegnativo e serio, non adatto ad adolescenti. Dice poi che Lucia nel famoso brano di "Addio ai monti" (Addio chiesa [...] dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo, addio!) parla addirittura di amore "comandato". Come fa, si chiede Ceronetti, l'amore ad essere "comandato"? C'è da mettersi le mani nei capelli per un autore che è stato un traduttore di libri della bibbia! Nella bibbia si parla quasi esclusivamente di amore comandato: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore...". "Amerai il prossimo tuo come te stesso". "Amerai" è un futuro con valore di imperativo.
L'amore comandato non è semplicemente quello che ti investe e ti invade, ma quello che tu prendi in mano e che gestisci non a tuo capriccio - si resterebbe all'interno della logica dell'eros - ma secondo quell'altro ordine superiore delle relazioni liberamente vincolate.
Una volta che hai detto il sì, il vincolo del sì non può più essere, per principio, lasciato solo all'eros, alla forza che va e viene.
Quindi la famiglia non è una società puramente naturale, non è una relazione puramente naturale, ma una relazione veramente interpersonale, che accede alla dimensione etica, alla pietas. O meglio è l'insieme delle due dimensioni. Nel rapporto di coppia non si può dire che io amo il mio coniuge, il mio partner solo di amore etico. Sarebbe come dire, che io l'ho sposato, perché non lo voleva nessuno. Sarebbe un delirio di onnipotenza agapica. Il contenuto specifico di questa forma di rapporto etico è l'eros, il desiderio reciproco. Ma a comandare l'eros deve essere l'altro, deve essere l'agape.
Chiuderei allora questa prima parte.
Dopo aver visto da principio la fenomenologia dell'eros, la sua natura, e successivamente la natura della promessa in generale e quindi quella della coppia, adesso rivedremo le stesse cose alla luce della bibbia.

4. il simbolismo sponsale nella bibbia

Prenderò in considerazione anzitutto il simbolismo sponsale presente in alcuni brani dell'Antico Testamento, dove Dio è lo sposo e Israele la sposa.
il "cuore" dell'uomo come coscienza etica
Sulle 800 volte in cui la voce "cuore" compare nella bibbia, in circa 200 sta ad indicare, secondo l'accezione diffusa un po' in tutte le culture, il cuore come sede di affetti, sentimenti, passioni, emozioni. Nella maggioranza dei casi, invece, la voce "cuore" nella bibbia sta ad indicare quello che noi chiameremmo la "coscienza etica", la parte più profonda di noi stessi, così profonda da non far parte in un certo senso neppure della nostra natura. Non è l'anima, ma è il fondo dell'anima, qualcosa che rimarrebbe inattivo, se non fosse l'irruzione della parola di Dio ad accenderlo. È un'accezione propria dell'antropologia della bibbia.

amore di Dio come agape

Pochissimi invece sono i passi in cui si parla di cuore di Dio, credo proprio perché il cuore è una categoria antropologica.
Il Dio, che fa alleanza con Israele e poi con l'umanità intera, chiede reciprocità. Ma la reciprocità non è alla pari. L'amore etico, l'amore comandato che contrassegna l'amore umano ("Amerai...") è dato liberamente. È possibile anche non darlo. Non posso perciò usare lo stesso termine per parlare dell'amore di Dio. Ecco perché al posto di parlare di cuore di Dio la bibbia preferisce sottolineare ciò che sta dentro il cuore di Dio, preferisce parlare degli "affetti divini", delle "decisioni divine". Ci sono vari lemmi per dire l'amore di Dio dentro l'alleanza, come l'amore fedele, l'amore viscerale di Dio che lo ha portato a fare l'alleanza e poi a perdonare.
Tutte queste caratteristiche dell'amore di Dio nel Nuovo Testamento sono ricondotte ad un unico termine, "agape". Ma nel Nuovo Testamento "agape" è utilizzato sia per indicare l'amore di Dio per l'uomo, sia l'amore dell'uomo per Dio, in quanto amore del prossimo.
Tutto quello che finora in termini laici ho chiamato amore etico, amore legato alla promessa, amore in prima persona, amore comandato, amore come giustizia (giustizia non nel senso di dare a ognuno il suo, ma nel senso di dare a ognuno secondo il suo bisogno), tutto questo nel Nuovo Testamento diventa "agape".

Osea 2, 21-22

Nel testo di Osea Dio si presenta come lo sposo di Israele, con cui ha fatto alleanza. In altri passi della bibbia Dio viene chiamato padre, a volte madre, oppure pastore, ecc.. Quando si intende sottolineare il carattere di reciprocità viene usato il termine sposo.
un rapporto reciproco ma non paritario
Tra Dio e Israele c'è un rapporto di reciprocità anche se non paritario. Non si tratta di reciprocità organica, in cui nessuno dei due partner può esistere senza l'altro, ma di "elezione reciproca": Dio sceglie liberamente Israele (che non è popolo esclusivo, ma rappresentativo dell'intera umanità) e Israele è chiamato a scegliere liberamente Dio. "Non siamo marionette nelle mani di Dio" ha scritto giustamente un autore ebraico. Noi siamo chiamati a rispondergli liberamente di sì, proprio perché abbiamo la possibilità di dire anche di no.
In Osea il Dio sposo, tradito dalla sposa adultera (idolatra e ribelle) Israele, richiama a sé la sposa, la conduce nel deserto per parlare al suo cuore, la perdona e rinnova l'alleanza.
Prima c'è l'annuncio: "la riporterò nel deserto, e parlerò al suo cuore" (versetto 16); e poi c'è il contenuto del parlare al cuore: fare la seconda alleanza. Ai vv. 21-22, dice:
"ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò a me nella fedeltà, e tu conoscerai il Signore".
Cosa c'entra l'amore con la giustizia e il diritto? È l'amore comandato, è l'amore giusto, è l'amore a cui Dio ha diritto, perché è la risposta, obbligata cioè etica, al suo amore.
Come può l'amore essere comandato? Se si dice di sì, se vi si entra dentro, ad un certo punto non si percepirà più l'essere comandato. Potrei dire con Agostino: "Dilige et quod vis fac", cioè "ama e fa' quello che vuoi", perché io vorrò spontaneamente quello che prima potevo volere soltanto alla luce del comandamento di Dio. L'amore comandato diventa amore spontaneo, seppure mai in modo definitivo e quindi da rinnovare ogni giorno.
È quanto ci capita ad altri livelli, come quando guidiamo l'automobile e compiamo quasi automaticamente dei gesti. L'amore spontaneo è il punto di arrivo, mentre il punto di partenza è l'amore comandato, e i termini "giustizia" e "diritto" sottolineano questa dimensione.

la dote: un dono che diventa compito

C'è una bella nota nella bibbia di Gerusalemme che dice: "Nell'espressione "ti farò mia sposa nella giustizia" ciò che segue la preposizione "nella" designa la dote che il fidanzato offre alla promessa sposa. Ciò che Dio dà ad Israele in queste nuove nozze [...] sono le disposizioni interiori richieste affinché il popolo sia d'ora innanzi fedele all'alleanza" (nota al v. 2,21).
Dio porta in dote alla sua sposa adultera il dono della giustizia, del diritto, della fedeltà, della benevolenza. (Ezechiele ha un'altra immagine potente: è Dio che strappa il cuore di pietra e mette dentro il cuore di carne, cioè il cuore vero.) Ma questa dote, questo dono è anche un compito, è un seme che deve portare frutti. Il dono ("Gabe" in tedesco) diventa compito ("Aufgabe" sempre in tedesco).
È giusto dire che l'etica è laica, nel senso che non c'è bisogno di rifarsi esplicitamente né al Dio della bibbia né ad altri dei per coglierla, ma, per un credente, la dimensione etica può essere riletta alla luce delle Scritture, e in essa vi si può scorgere la dimensione di alleanza, la dimensione sponsale tra Dio e Israele, tra Dio e l'umanità.
Il testo di Osea non parla direttamente dell'amore nuziale tra umani, però costituisce lo sfondo, l'orizzonte teologale dentro il quale inserire tutti i discorsi fatti prima, che mantengono comunque il loro valore. L'impegno matrimoniale sta in piedi anche se non credo nel Dio della bibbia. Dovrò trovare qualcosa a cui appellarmi, che può essere la dea ragione della rivoluzione francese, o la dialettica storica del marxismo, o la Società con la "s" maiuscola, o la Natura con la "n" maiuscola.
Ci sono tanti modi per chiamare per nome (l'uomo è colui che chiama per nome) quel qualche cosa che è profondamente dentro di noi, e che al tempo stesso è come se venisse da un altrove. Questo qualcosa la bibbia lo chiama amore comandato.
L'alleanza di cui parla Osea è legata alla promessa da parte di Dio: "Se tu obbedirai ai miei comandamenti, ti darò la terra promessa".
La terra promessa ha anzitutto una dimensione naturale. In effetti, la terra di Israele da questo punto di vista non è un granché, data l'aridità del territorio. Tuttavia, per le tribù seminomadi che formeranno Israele, la sedentarizzazione costituirà un cambiamento significativo, talmente importante da indebolire la fede nel Dio dell'alleanza sinaitica a favore delle divinità agricole, delle forze vitalistiche della natura (vitello d'oro).
Vi è poi una dimensione culturale della terra promessa, legata al lavoro: è ciò che diciamo nell'offertorio: "frutto della terra e del nostro lavoro".
Ma la dimensione davvero costitutiva della terra promessa, quella da cui dipende il permanervi, è il vivere, giorno dopo giorno, su quella terra, il disegno di Dio, la sua legge, la sua volontà, il suo comandamento.
Cioè oltre la natura (il frumento, il vino, l'olio), e al lavoro per farla fruttificare, ci vuole la circolazione dei beni. Ci vuole il cuore attento all'amore comandato.
Ciò che mantiene la terra promessa è il cuore giusto. La natura e la cultura (nel senso del lavoro) sono come il corpo della terra promessa, ma la sua anima, quella cioè che la rende il luogo della felicità, il luogo dello shalom, della pienezza armonica, quella che realizza il sogno di Dio sul mondo, è l'alleanza vissuta nell'obbedienza al comandamento di giustizia, di solidarietà, di cura dell'altro e di circolazione dei beni.

salmo 128: l'etico fa sbocciare l'eros, la felicità

Il salmo 128, che parla della famiglia, è un piccolo capolavoro, è un idillio etico.
"Beato l'uomo giusto che cammina sulle vie del Signore... la sua sposa è come vite feconda... i suoi figli come virgulti d'ulivo..."
Nel testo c'è l'imprinting maschilista proprio delle scritture, in particolare di quelle ebraiche. Noi dobbiamo rileggerlo in chiave di reciprocità uomo-donna, e quindi anche "Beata la donna..."
Che cosa è l'uomo giusto? È l'uomo etico, e l'etico fa fiorire l'erotico. Dall'etica scaturisce la felicità, cioè l'eros, scaturisce la famiglia come cellula della terra promessa, scaturiscono la moglie come una vite e i figli come ulivi, scaturisce cioè il fiorire della terra. Dalla famiglia l'orizzonte si allarga a tutta la terra, a tutti i beni della terra.
Nella seconda parte del salmo si parla di Gerusalemme, che significa visione di pace. Lo shalom, la pace, la pienezza, la gioia, la fruizione si estendono dalla famiglia a tutta la polis. E sappiamo che shalom, pace, vuol dire non solo mancanza di conflitti, ma anche felicità, da intendersi non tanto come stato d'animo, ma come oggettiva pienezza di tutto quello che noi possiamo desiderare.

efesini 5, 25: il perdono

Nella lettera agli Efesini, al versetto 25, si dice: "Mariti, amate le mogli come Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei". Cristo si è dato per lei nella morte di croce. In questo testo c'è la novità del perdono. Non nel senso che il perdono come tale sia una novità tutta cristiana. Già in Osea Dio perdona (richiama a sé la sposa infedele Israele), come pure nel secondo Isaia. Ma credere che Dio, nella morte e risurrezione di Gesù, abbia perdonato l'umanità, rimettendo in circolazione il cuore, rimettendo quindi in circolazione le relazioni etiche, responsabili, cioè in prima persona, costituisce l'a-b-c della professione di fede cristiana.

l'agape salva l'eros

Finisco leggendo un testo tratto dal mio libro "Oltre l'erba voglio" dal capitolo l'agape salva l'eros (pp. 209- 212) e che sintetizza quanto ho cercato di dirvi.
"L'Agape salva l'Eros, anzitutto perché lo libera da quella infinitizzazione forzata che, ispirata al platonismo, vuole spingere l'eros verso Dio al di là di ogni - troppo piccola - creatura."
Secondo Platone si comincia dall'eros verso il bel giovinetto, verso il bel corpo, e poi si sale progressivamente verso la bellezza divina. L'eros stesso va alla bellezza divina.
Come scriveva nel carcere nazista il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer: «Per dirla franca, che un uomo tra le braccia di sua moglie debba bramare l'al di là è, a essere indulgenti, mancanza di gusto, e comunque non la volontà di Dio...»."
Devo davvero vivere l'eros, standovi dentro (non devo bramare l'al di là dentro l'eros), ma devo viverlo secondo il volere di Dio. Piuttosto che pensare a Dio mentre facciamo l'amore, sarebbe meglio ringraziarlo prima e dopo! L'agape non salva l'eros, spingendolo fin dove non può arrivare, fino alla contemplazione di Dio, creando un conflitto con l'eros per la creatura.
L'infinito è nell'agape stessa, nella trascendenza, religiosa o laica, che essa instaura; mentre l'eros non può trascendere quella sua identità autonutritiva che in ogni creatura succhia il nettare mondano, e che nel partner cerca il piacere di vivere. [...] L'Agape salva e custodisce l'Eros nella prosa del quotidiano, difendendolo o riscattandolo da quelle patologie o degradi o smottamenti, a cui, soprattutto nella relazione di coppia, il suo onnivoro infantilismo lo sollecita e lo abbandona. Si potrebbe dire: lo salva dal logorio della presenza. Che è l'assuefazione, la rapida obsolescenza della gioia del rapporto; che è l'emergere dei difetti del partner, prima coperti dall'abbaglio della passione; che è il divaricarsi di gusti e di progetti; che è l'insorgere risentito di "diritti" personali che il partner lederebbe. L'Agape, in quanto fedeltà, è la vittoria sul tempo e sulla sua capacità corrosiva; in quanto creatività nell'opera comune, ridimensiona l'intransigenza dei progetti individuali; in quanto disponibilità al perdono, non enfatizza né le proprie rivendicazioni né i difetti del partner. Se l'Eros inizia come geografia (il "bel corpo"), non può che mantenersi e svilupparsi come storia (la "bella persona"); ma il segreto di questa storia è nell'amore etico, nella sua capacità di fiducia, di attesa, di ascolto, di accoglienza di quello straniero che anche il partner in qualche misura sempre rimane.
Ciò che vale del rapporto di coppia vale, altrettanto, del rapporto verticale tra genitori e figli. La perspicacia psicologica che ha caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento, ha individuato due forme di amore parentale in cui si mimetizza un eros non maturato attraverso la responsabilità etica. Da un lato, l'affetto che crea dipendenza, lungo la gamma delle sue variegate figure: dal legame erotico - sensu strictu - tra madre e figlio alla proiezione intransigente e subdola dei propri ideali assoluti (secondo lo standard: politici da parte del padre, religiosi da parte della madre), fino ai casi estremi di una malattia del figlio/figlia coltivata dal genitore perché lo fa sentire necessario, gli dà una ragione di vita. Dall'altro lato, l'affetto che lascia spazi di libertà incontrollata, che cede ad ogni richiesta tentando anzi di anticiparla, che rifugge da parole d'autorità o d'autorevolezza, surrogandole con gesti di corriva amicizia alla pari. L'apparente antitesi tra le due forme non riesce a nascondere la loro comune matrice di immaturità del desiderio parentale.
Dovrebbe essere superfluo aggiungere che l'ampio deficit di autenticità di cui soffre la famiglia attuale non giustifica né il rimpianto acritico della famiglia di altri tempi né la destrutturazione dell'istituzione familiare nell'aggressiva critica anni '60 o nel variopinto ventaglio delle invenzioni alternative odierne. Se il rigore della dottrina cattolica classica e la rigidità nel riproporla da parte dei vertici ecclesiastici trovano ampi margini di riserva all'interno della stessa comunità cattolica (basti pensare all'esercizio della paternità/maternità responsabile mediante l'uso di anticoncezionali, all'ammissione del divorzio nella legislazione civile e alla pastorale per i credenti divorziati, alla presenza dei consultori cattolici per l'interruzione di gravidanza in Germania, all'emergere del problema di omosessuali seriamente credenti e praticanti...), tali riserve non vanno interpretate come una resa alla concezione e alla pratica liberistica della famiglia, bensì come la percezione della necessità di coniugare ad ambedue i livelli (etico e giuridico), l'utopia e la misericordia, l'altezza dell'amore etico familiare e le sconfitte di chi vi si avventura anche con matura consapevolezza.
La ricchezza di senso della famiglia sta nel suo essere il cosmo sociale in miniatura, il punto di connessione tra il biologico, l'affettivo e l'etico, la figura originaria della vita quotidiana come spazio esistenziale; spazio aperto, non fortunata sintonia e convergenza e clausura di egocentrismi, ma grembo di reciproca ospitalità.
Nel divieto dell'incesto, presente in tutte le culture, c'è almeno il presentimento di questa legge di apertura. L'eros, potenza biologico-affettiva, rinchiuderebbe coppia e figli nel caldo ventre dell'endogamia: madre con figlio, padre con figlia, fratello con sorella; il divieto dell'incesto è soltanto la formulazione negativa di quel positivo che è la reciprocità responsabile: "L'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno in una sola carne" (Genesi 2,24). Un positivo che l'eros non possiede, perché anche il suo eventuale andare oltre non è - non può essere - accoglienza dell'alterità, ma solo e sempre ritrovamento di sé nell'altro. L'amore incestuoso di Fedra per il figlio Ippolito e l'amore oltreconfine di Giulietta e Romeo sono estremi che si toccano, perché ambedue segnati dall'ananke, dalla passione necessaria e travolgente. L'esogamia qualitativa è appannaggio dell'amore etico."

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