Ripensare le cose ultime: morte, giudizio, inferno e paradiso
sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 6 marzo 1999
I novissimi sono le realtà ultime sul piano individuale. Nell'ottica antropocentrica della tradizione ebraico-cristiana al centro c'è il destino della persona umana. Tutto il resto deve essere letto in funzione del destino dei soggetti umani. La religione, in quanto parola di salvezza, che svela un senso e la strada per realizzarlo, ha a che fare con il destino delle persone.
la morte
Quando parliamo di realtà umane dobbiamo sempre distinguere tra dati e significati. La morte è un dato certo, ma che è stato caricato lungo i secoli di significati molto diversi.
Nella visione organicistica la morte dell'individuo non fa problema, essendo il soggetto fondamentale la comunità. La morte dell'individuo fa parte del ciclo della vita
Nella concezione meccanicista la morte, come la vita, è un semplice dato di fatto, sprovvisto di significato.
La visione trascendente mette al centro la dignità e grandezza dell'individuo umano. Sorge in occidente con la cultura ebraica, nella visione di alcuni profeti. Ogni individuo è qualcosa di unico e di irripetibile. Proprio questa concezione rende più difficile risolvere il problema della morte. Non può più bastare la concezione che il tutto continua a vivere. Questa visione porterà all'affermazione che la morte non è l'ultima parola e alla accentuazione del suo carattere drammatico.
Bisogna ritrovare il senso buono della morte come dato naturale. Come una melodia deve a un certo punto finire così la vita deve avere un suo compimento. È il senso della compiutezza.
Questo discorso vale per la morte di chi è sazio di giorni, non per la morte violenta.
il giudizio
Gesù non ha predicato solo la bontà e il perdono, ma anche e con insistenza il giudizio. Ora il giudizio è il senso del carattere decisivo di ogni istante della nostra vita. Ogni istante del tempo ci è dato per fare qualcosa, o adesso omai più. Qui sta il giudizio.
E mentre il giudizio immanente ad ogni istante non impedisce che si possa modificare il corso della nostra vita nei momenti successivi, il giudizio che segue la morte è irrevocabile e disvela il pieno o il vuoto che ciascuno ha fatto dentro di sé.
l'inferno
Poiché il Dio della bibbia è un Dio giusto, allora dà ai giusti la felicità e la morte agli empi. Se Dio è giusto l'inferno deve esistere.
Però l'inferno, come sofferenza eterna inflitta all'empio perché paghi, non ha più a che fare con un Dio giusto, ma con un Dio vendicativo che infligge una sofferenza eterna, che, in quanto eterna, non serve a nulla.
L'inferno è il morire, il non esserci più, è il fallire il senso della vita, è perdere la realizzazione piena.
il paradiso
L'abc di tutte le scritture ebraiche è che il rapporto tra Dio e Israele, tra Dio è l'umanità, è l'alleanza, che in termini biblici vuol dire la connessione tra giustizia (il fare ciò che è giusto) e la pace, come pienezza di vita, come benedizione, come, potremmo dire oggi, felicità.
Dio si è rivelato come colui che chiama l'umanità a vivere dentro un orizzonte di giustizia, promettendo a chi vive in questo modo la piena realizzazione.
Inizialmente la realizzazione, per Israele, è tutta collocata in questa vita. L'orizzonte è integralmente terrestre. Israele condivide la visione organicistica degli altri popoli antichi e il sentimento collettivo predomina.
Progressivamente matura il sentimento della coscienza individuale e la consapevolezza che ognuno riceve secondo il modo in cui vive, non secondo il modo in cui hanno vissuto i padri. E qui scoppia la crisi, a partire dall'esperienza del giusto infelice. Il libro di Giobbe è l'esempio più famoso di questa crisi. Dio chiede a Giobbe non di rinunciare ad una presunta arroganza nel ritenersi giusto ma nell'avere fiducia in lui. Ed è in questo spazio di fiducia che si apre la soluzione al problema del fallimento del giusto.
Proprio il restar fedeli alla parola di Dio, alla sua promessa, che non può essere smentita, fa sorgere la fede nell'aldilà, dato che in questa vita è smentita.
Kant dirà la stessa cosa partendo dalla coscienza etica, dal fare il bene per l'amore del bene, affermando, come un postulato, che deve esserci una condizione di esistenza in cui il giusto è felice. L'ultima parola della realtà non può essere l'ingiustizia.
Anche la risurrezione viene letta spesso dal Nuovo Testamento come la risposta di Dio alla giustizia di Gesù: il risorto è il giusto che fiorisce come una palma.
L'aldilà è allora la piena corrispondenza tra il quanto sono giusto e il quanto sono felice.
Questa corrispondenza è per sempre, "in saecula saeculorum", ma non a causa di un'anima immortale secondo la concezione platonica-aristotelica. L'antropologia biblica parla di pneuma, che potremmo tradurre con coscienza etica, con voce della coscienza, con qualcosa che non ci appartiene, ma ci chiama, con quello che la bibbia chiama il cuore o lo spirito di Dio che ci ridona un cuore nuovo.
Con la morte viene alla luce la nostra vera identità, quello che noi siamo in profondità nel nostro essere di fronte allo sguardo di Dio.
La concezione tradizionale di derivazione greca dell'anima immortale comporta tutta una cultura e coltura che invita a disattendere non solo il proprio corpo, ma anche quello degli altri, a disattendere la storia.
Se invece per anima intendiamo la nostra vera identità, come libertà eticamente responsabile, allora quest'anima, il biblico pneuma, si forgia aprendosi a tutte le relazioni di cui deve farsi carico.
Secondo Giovanni, Gesù non muore e poi risorge, ma nella morte è già il risorto. Nella sua morte tutto è compiuto, in quel momento c'è Gesù tutto intero. Gesù è la verità dell'uomo perché realizza l'uomo pieno, cioè ciò che il Padre vuole che egli sia (la cristologia è il fondamento della antropologia).
In questa concezione che fine fanno "i cieli nuovi e le terre nuove"? Il mondo vivrà dentro di noi nella misura in cui avremo vissuto il mondo nella luce dell'essere giusti, nella misura in cui, ad esempio, l'avremo condiviso con gli altri.