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La giustizia nel messaggio di Gesù

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 11-12 gennaio 1992

Nel messaggio di Gesù il termine giustizia non indica tanto la giustizia sociale, significato preponderante nella tradizione profetica. La parola giustizia si trova due volte nelle beatitudini di Matteo, "beati gli affamati e gli assetati di giustizia" (Mt 10,6) e "beati i perseguitati a causa della giustizia" (Mt10,10). Giustizia in questo caso vuol dire: fare la volontà di Dio. Essere giusto di fronte a Dio indica fare la sua volontà ed osservare la legge (in contrasto col filone paolino che sostiene invece che giusto davanti a Dio è il credente, non chi fa le opere dell'alleanza).
In Matteo 3,15 nel dialogo fra Gesù ed il Battista che gli aveva rifiutato il battesimo, Gesù dice: "mi devi battezzare perché noi due dobbiamo fare la giustizia" cioè fare la volontà di Dio. E' una giustizia in senso morale e teologico, propria dell'uomo fedele, osservante, obbediente. Il tema dell'uomo giusto al cospetto di Dio è però tipicamente matteano, piuttosto che di Gesù. Non appare infatti in altri vangeli.
Il tema della giustizia in Gesù si trova senza il soccorso del termine immediatamente evidente ed è presente come giustizia da rendere agli uomini, soprattutto in un simbolo religioso di carattere sociopolitico: la regalità. Nella tradizione biblica appare la figura del re terreno, quella del re divino celeste che è Dio e poi la figura del Messia; Messia significa unto, ed unto era appunto il re. Vi sono quindi nella Bibbia tre figure regali. Il Messia era anche chiamato figlio di Davide. La regalità esprime l'esigenza di giustizia in un senso ideale. Rinvenire il tema della giustizia sulla pista del simbolo religioso della regalità dà ad esso una configurazione molto precisa: è la giustizia di Dio. Gesù si è preoccupato soprattutto della giustizia di Dio, non della giustizia degli uomini. E' la giustizia che Dio fa agli uomini, al suo mondo, alla storia in quanto Dio è il soggetto creativo, responsabile, primario. La specificazione principale del tema della giustizia è rinvenibile dentro il simbolo della regalità.

1. Differenti prospettive sulla giustizia nei profeti e in Gesù

Per precisare l'orientamento in cui ci collochiamo è importante mostrare la diversità fra i Profeti e Gesù in questo ambito.

i profeti si rivolgono ad Israele, contro l'ingiustizia sociale

I profeti avevano di mira, da questo punto di vista, la società israelitica del tempo. Amos è stato il primo profeta, nella metà del secolo ottavo, la cui predicazione è stata messa per iscritto ed è giunta fino a noi; poi ci sono Osea, Isaia, Geremia. I profeti attaccano la società israelitica, caratterizzata da sperequazioni.
La prima grande predicazione incentrata sulla giustizia da rendere agli uomini, in Amos, avviene quando nella società israelitica di Samaria attraverso alcuni processi di sviluppo economico, si attua un processo di monopolizzazione delle proprietà terriere in mano a pochi, con un forte depauperamento del coltivatori ridotti a servi della gleba. In questa precisa situazione socioeconomica del Regno del Nord, sorge la voce di Amos a denunciare la situazione di ingiustizia, di oppressione dei poveri; nasce la critica profetica alla società. La denuncia dei profeti è fatta in nome del Dio del patto del Sinai, alle cui clausole il popolo israelitico è legato. Una delle clausole fondamentali è il rapporto di uguaglianza sul piano socioeconomico. I profeti non sono agitatori sociali perché la motivazione che muove la loro critica e il loro invito a creare assetti economici sociali e politici di giustizia, è data dal problema della fedeltà al patto: Dio vuole la giustizia sociale nel suo popolo.
Amos, suscitato da Dio, come dice lui stesso, per dire no alla società ingiusta, ha parole di radicalità assoluta. Afferma che il popolo di Dio non è più tale perché è venuto meno alle clausole del patto che contemplano leggi di solidarietà e fraternità all'interno della configurazione socioeconomica. Amos afferma che Israele è diventato per Dio come il popolo cuscita, un popolo nero dell'Africa che risaliva il Nilo: "voi non siete diversi davanti a me".
La predicazione profetica in questo campo è di attualità immediata; il carattere della denuncia dei profeti è teologico nel senso che la giustizia socioeconomica è vista come una clausola che Dio impone al patto.

Gesù, sguardo universale, aperto al futuro e incentrato su Dio

L'orientamento di Gesù, il suo sguardo, è diversissimo. Gesù non prende in considerazione la società del suo tempo, le sperequazioni economiche che pure erano gravissime. Ai tempi di Gesù la gente meno protetta nella società era taglieggiata da tasse esorbitanti, tasse per il dominatore romano, tasse da pagare al tempio, ai sacerdoti, per cui i contadini, i pescatori, i piccoli artigiani vivevano al limite della sussistenza. Ciononostante Gesù non è un critico della società del suo tempo, perché il suo è uno sguardo più universale. Gesù subisce l'influsso di un'altra corrente vetero-testamentaria, la corrente apocalittica che aveva uno sguardo sul mondo, sull'umanità, mentre la corrente profetica si limitava ad uno sguardo su Israele. Gesù guarda ai destini del mondo e dell'umanità.
Le sua seconda caratteristica è che, mentre i profeti sono inseriti su problematiche del presente, Gesù sogna il futuro, un futuro diverso.
Terza caratteristica, lo sguardo di Gesù è incentrato su Dio. Le grandi attese di Gesù sono fissate su Dio, in cui ha una fiducia enorme. La causa è quella del mondo, dell'umanità, ma Gesù si aspetta da Dio l'iniziativa. Ha una fortissima sensibilità religiosa e perciò il suo sguardo non si limita alla giustizia sociale come quello dei profeti e dello stesso Giovanni Battista.
Nel testo di Luca la predicazione di Giovanni Battista appare nel suo risvolto sociale; quando i soldati si rivolgono a lui chiedendogli cosa devono fare, risponde: accontentatevi della vostra paga, della vostra professione senza darvi a ruberie. Nel cap. 3 di Luca al v. 10 e seguenti si dice: "le folle lo interrogavano dicendo: che cosa noi dunque dovremmo fare? Egli rispondendo diceva loro: chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha".
Questo aspetto non appare in Gesù che invece punta tutto sulla giustizia che Dio deve fare. È una giustizia attesa dal futuro. Gesù non ha solo fiducia in Dio, ma anche speranza che Dio intervenga a rendere giustizia nella storia ai poveri, che sono i diseredati del tempo, gli oppressi, i vinti, i disprezzati, coloro che nella società, per mille motivi, giustizia non hanno.
Gesù condivide con Giovanni Battista la convinzione che il suo popolo vive una condizione di peccato, di perdizione e che c'è bisogno di una svolta. Il Battista diceva che i figli di Abramo sono in stato di perdizione e quindi la dinamica del patto non ha effetti salvifici. In Gesù il tema dell'alleanza non esiste perché Gesù, come il Battista, considera tutto questo passato, il patto del Sinai, la legge che è stata data, come una realtà sterile. Gesù ed il Battista non hanno fiducia nelle istituzioni sacre, la storia gloriosa di elezione del popolo non condiziona positivamente il presente. Il presente del popolo di Dio è un presente di perdizione.
La soluzione del Battista è che il popolo si converta. La conversione è la possibilità estrema che resta per salvarsi, per sfuggire alla perdizione eterna. Giovanni Battista usava due immagini: "già l'accetta è alle radici dell'albero" e "il contadino sull'aia sta ripulendo il grano dalla pula e la pula verrà bruciata". Per il Battista l'unica via di uscita è la conversione e il popolo non può più appellarsi alla storia sacra dicendo: noi siamo i figli di Abramo.
Gesù è stato un discepolo del Battista e questo spiega i punti di contatto, soprattutto il pessimismo con cui entrambi guardano la situazione di rovina del popolo. La soluzione di Gesù è però diversa. L'unica soluzione è una iniziativa nuova e ultima di grazia di Dio. Anche per Gesù gli uomini sono responsabilizzati, non nel compiere un gesto di conversione, ma nell'avere fiducia nel gesto estremo di grazia e salvezza di Dio che interviene nella storia a rendere giustizia. Gesù attende da Dio una giustizia globale, un rendere giustizia agli uomini e al mondo.
Nei Profeti abbiamo visto che il tema ha un carattere più moralistico cioè si proclama una giustizia che il popolo deve creare al suo interno per essere fedele al patto perché il volere di Dio è che siano vinte le ingiustizie, le sopraffazioni e sia instaurata una società di fratelli. L'alleanza non è solo un rapporto fra gli uomini e Dio, ma è un rapporto anche all'interno del popolo, e un popolo che ha Jahvé come suo Dio deve vivere secondo una legge di fraternità. Invece per Gesù il tema della giustizia è propriamente teologico, riguarda Dio, ciò che Dio è per il mondo e per la storia.
Quest'ottica spiazza noi, oggi, che ci interroghiamo sulla presenza dei credenti nella storia. E' vero che Gesù ha posto al centro l'attesa della giustizia operata da Dio, ma spetta a noi cogliere quali rapporti ha la giustizia di Dio con la giustizia che gli uomini devono creare nella storia. Per noi il problema è confrontarci con la giustizia di Dio che sta al centro della vita di Gesù e scoprire come ci sollecita, ci provoca e ci esorta. Il tema a livello del messaggio di Gesù è la giustizia che Dio rende al mondo.

2. la giustizia di Dio nella parola di Gesù

Il tema centrale della parola di Gesù è la regalità di Dio. L'espressione italiana "il regno dei cieli" che traduce il greco "basileia ton ouranon", e l'ebraico "malcutà", non rende il senso di "regalità", la caratteristica per cui Dio è re. Regno non va inteso come luogo o insieme di persone. La definizione di Dio è la regalità. Questo argomento è trattato nel volume di Joachim Jeremias "La teologia del Nuovo Testamento" - La predicazione di Gesù - vol. I, Ed. Paideia, Brescia.
Gesù si capisce solo come figlio del suo tempo, del suo popolo. Gesù nella sua predicazione non ha inventato un tema nuovo, ma ha dato accentuazioni molto forti ad un tema antico, al simbolo della regalità di Dio. Simbolo è anche la paternità di Dio per cui si può dire che Dio è padre o che Dio è madre, infatti la bibbia parla delle viscere di Dio. Il valore significativo infatti non è il maschile o il femminile, ma è altro.
Regalità è un simbolo religioso e simbolo è ciò che fa pensare; attraverso il simbolo l'uomo esprime il suo rapporto con Dio, perché, dice Giovanni, Dio nessuno l'ha mai visto, ce ne ha parlato il Figlio. L'uomo che parla di Dio necessariamente ricorre ai simboli. I simboli, materialmente presi, sono esperienze, categorie umane, però ad essi riconosciamo una ulteriorità di significato. Dire che Dio è re non vuol dire che si fa riferimento ad una monarchia, cioè ad una esperienza originariamente politica, entrando in conflitto coi sentimenti repubblicani, ma esprime una ulteriorità; ci sono analogie, ma anche differenze. Dire che Dio è re non significa sapere immediatamente chi è Dio, ma incominciare a pensare che cosa sia. Questo simbolo è provocatorio, mette la mente in attività.
Il re, nell'esperienza socio-politica non solo di Israele, ma dei popoli mesopotamici, non era soltanto al vertice dello stato, autorità somma, incarnazione del potere, ma era l'artefice della giustizia. Al re era riconosciuto un tipo particolare di giustizia, accanto alla giustizia normale dei magistrati. Presso questi popoli la giustizia regale era di tipo molto particolare, era una giustizia partigiana. Il criterio che doveva seguire il magistrato, allora come in ogni tempo, era l'equanimità, il riconoscimento imparziale del diritto di ciascuna delle parti in contesa; invece la giustizia del re era solo a favore di una parte contro l'altra, e la parte favorita erano gli oppressi contro gli oppressori. La giustizia del re veniva come ultima istanza per quelli che nella società non riuscivano a far valere la giusta causa perché la parte contraria aveva un peso politico, economico e sociale maggiore. Costoro che non riuscivano ad avere giustizia dai tribunali erano tantissimi e costituivano la massa dei poveri, conculcata da coloro che avevano un rilievo sociale superiore e che potevano manovrare la magistratura. La giustizia del re era a senso unico, la giustizia liberatrice.
In queste società il re, che doveva essere il grande garante, difensore di quelli che difesa non avevano, in realtà non si era dimostrato all'altezza del compito; anzi spesso i re facevano combutta con la classe più forte e diventavano elemento di maggiore oppressione. Il caso emblematico che viene riportato nell'A.T. è il caso di Nabot che aveva una vigna, eredità dei suoi avi; il re Acab e la regina Gezabele volevano quella vigna, ma Nabot aveva il culto dei suoi padri e considerava un tradimento alla memoria cedere la vigna. Nabot aveva in questo il suo buon diritto, ma il re e la regina, tramite un tribunale corrotto e falsi accusatori lo fecero condannare a morte. Quando Acab e Gezabele si trovavano nella vigna per prenderne possesso il profeta Elia rivolgendosi alla regina dice "in questa stessa vigna il tuo sangue sarà leccato dai cani" e così avvenne. E' la denuncia violentissima della ingiustizia del re.
Il popolo dei poveri però, tradito dal re, non rinuncia alla speranza di ottenere giustizia e proietta in Dio il proprio desiderio: Dio diventerà un giorno re. Il simbolo del re non ha più nessun significato politico; nella sua ulteriorità significa che, a differenza dei re terreni che non esercitano la giustizia, Dio eserciterà la giustizia partigiana a favore dei poveri.
Esercitando la critica del sospetto si può dire che il Dio re non è altro che la proiezione al di fuori di sé del desiderio e dell'esigenza dei poveri di ottenere giustizia; sul piano razionale non possiamo dire che sia una spiegazione errata, ma la fede ci dice che questo Dio, invocato e costruito come Dio della giustizia, da parte dei poveri, corrisponde alla realtà obiettiva di Dio. L'oggetto del desiderio dei poveri è per la fede l'oggetto della realtà di Dio. Nel processo di creazione del simbolo religioso, dell'aspettare da Dio la giustizia partigiana, secondo la fede, noi crediamo che sia presente la rivelazione di Dio: Dio si rivela nell'oggetto del desiderio dei poveri. Il desiderio di giustizia è stato acuito dalla disillusione storica; dapprima il desiderio era incarnato nella figura del re, ma al venir meno di questa possibilità, il desiderio si verticalizza e si indirizza a Dio come il re che renderà giustizia. Nasce la speranza della regalità di Dio, prima di Gesù: Dio farà giustizia in un futuro indeterminato. Se fosse solo questo, la critica di Feuerbach che la religione sia la proiezione all'esterno dei desideri frustrati, avrebbe un buon margine di comprova, però l'oggetto del desiderio dei poveri non si è solamente verticalizzato, nell'attesa di Dio re, ma ha camminato ancora sulla via della terra. Nonostante la disillusione provocata dai re storici, i poveri aspettano un re terreno giusto: nasce la speranza messianica. L'oggetto del desiderio è sulla verticale del trascendente verso Dio e il messianismo è sull'orizzonte dello storico, dell'umano. E interessante che questi due filoni non si siano coordinati: gruppi di poveri hanno privilegiato la verticale trascendente, altri gruppi hanno privilegiato l'attesa di un re terreno.
In Gesù e nel Nuovo Testamento queste due tendenze vengono articolate; in Gesù da una parte c'è ancora la speranza in Dio re, dall'altra parte Gesù ha coscienza di essere colui che rende incarnata la regalità di Dio. Dio non diventa re immediatamente, saltando la storia, con un intervento dall'esterno di deus ex machina, ma Dio diventa re attraverso le mediazioni storiche: l'azione, la parola e la presenza di Gesù, che è il re terreno. Il simbolo religioso di Dio re ed il simbolo sociopolitico del messia sono distinti, ma con Gesù avviene un coordinamento perché si precisa che Dio rende giustizia nella storia attraverso Gesù. Da questo punto di vista Gesù non è più un apocalittico, perché gli apocalittici avevano scartato tutte le mediazioni storiche e ritenevano la storia corrotta in modo irrimediabile e non potevano dare positività alla storia. Invece Gesù media l'attività di Dio re rendendola operativamente storica. La giustizia di Dio filtra e si incarna nella storia attraverso la giustizia di altri, Gesù e i suoi discepoli.

peculiarità di Gesù

Gesù si colloca in un filone di attese e di speranze, perché è un ebreo a tutti gli effetti. Non è un cristiano, ma sta prima della fede cristiana che nasce invece nella risurrezione del Crocifisso.
Gesù ha avuto alcune originalità.

evangelista di Dio re

Innanzitutto l'annuncio di Gesù, il Vangelo; Gesù è stato l'evangelista di Dio re. La testimonianza è in Marco 1,15 ove viene riassunto il tema della predicazione di Gesù (ripresa anche in Matteo e in Luca): "dopo che Giovanni fu consegnato alla prigione, venne Gesù in Galilea, proclamando la lieta notizia di Dio e dicendo: è compiuto il tempo, e si è fatta vicina la regalità di Dio". "Fatta vicino" è reso in greco col perfetto che indica un momento preciso nella storia in cui l'evento si colloca e così resta; invece per indicare un evento che si verifica e basta si usa l'aoristo. Il futuro atteso, la regalità di Dio, non è più una prospettiva indeterminata, ma si è approssimato a noi. Gesù è l'evangelista di questo evento gioioso che si è avvicinato al nostro tempo e batte alla porta della storia.

che solidarizza con i poveri

Vi è poi la testimonianza di Matteo e di Luca che appartiene quindi alla fonte Q (è una raccolta di detti e parole di Gesù che è andata perduta, ma che è stata la fonte di Matteo e Luca, come ad esempio il discorso della montagna, il Padre Nostro, le beatitudini). Dice la beatitudine in Matteo "beati i poveri quanto allo spirito (to pneumati) perché di essi è il regno dei cieli". In Luca ci sono due differenze: "Beati voi poveri" senza la determinazione in quanto allo spirito e "perché vostro è il regno di Dio". Si ritiene che Gesù abbia detto solo "beati i poveri", perché Luca è più fedele alla fonte Q. L'espressione vuol dire "mi congratulo con voi"; siete "adesso" fortunati. Gesù non si congratula perché sono i più buoni, i più disponibili - Gesù non è un moralista - ma perché a loro favore Dio diventa re, perché viene l'ora in cui non saranno più poveri, cioè vittime dell'ingiustizia. La beatitudine ha significato liberatorio, è venuta l'ora in cui agli oppressi, ai diseredati, ai vinti, Dio renderà giustizia, Dio ha deciso finalmente di rendere giustizia ai poveri. Qui Gesù non solo porta la lieta notizia, ma effettivamente solidarizza con i poveri. Il significato della beatitudine è che i tempi messianici sono arrivati.

nella sua persona si rende presente la regalità di Dio

Un quarto testo è nel Padre Nostro, desunto dalla fonte Q. La seconda invocazione nel testo di Matteo è - 6, 9 - inserita nel discorso della montagna; Luca la riporta al cap. 1, 1-2, in una catechesi sulla preghiera. Entrambi la esprimono con le stesse parole: "venga il tuo regno". Gesù ha usato un perfetto per indicare che l'evento della regalità si è approssimato, un presente per congratularsi nelle beatitudini, ed un aoristo per indicare una anticipazione storica della regalità della giustizia dentro il suo gesto di liberazione dell'indemoniato. Qui usa un imperativo di terza persona per indicare il tempo dell'invocazione, di supplica "venga il tuo regno". E' un imperativo aoristo che vuol dire: venga il momento in cui Dio sarà il re, l'ora definitiva. "Venga" è invocazione perché è l'oggetto del desiderio fortissimo, struggente; Gesù non dubita che venga, ma l'invocazione significa "venga presto".
Questa invocazione si trova anche alla fine dell'Apocalisse come preghiera di una chiesa perseguitata, la chiesa dei martiri: "Signore Gesù, vieni presto". Gesù tiene insieme il presente storico ed il futuro, occupati dalla giustizia di Dio. La giustizia di Dio si è parzialmente resa presente, in modo iniziale, nell'azione di Gesù, che ha guarito qualche indemoniato, ma quanti indemoniati, quanti oppressi ci sono nella storia? Gesù è consapevole che la giustizia di Dio si è avvicinata e si è anticipata, ma anche che nell'anticipo si è manifestata parzialmente. Perciò in Gesù c'è la speranza che venga presto l'esplosione piena e perfetta della giustizia di Dio a favore di tutti gli oppressi di tutta la storia umana. Il simbolo della regalità di Dio copre molte espressioni della esperienza di Gesù: come evangelista, come colui che vuole gioire con i poveri e come colui che opera con gesti di giustizia incarnando la giustizia di Dio nella storia, ma rendendola parziale. Gesù non soppianta la speranza con l'esperienza, mette l'esperienza nella storia, ma vede che in quanto sperimentata è realtà parziale e perciò resta il desiderio, la speranza di una giustizia piena nella storia.

la comunità di Gesù è la comunità degli evangelisti del Regno

La conclusione è che la giustizia di Dio è a favore dei poveri, di coloro che versano in condizioni obiettive di ingiustizia; la causa dei poveri è la causa di Dio, mette in questione Dio stesso. La giustizia di Dio, che sta al centro dell'esperienza di Gesù, è futura come giustizia piena. Gesù vive a cavallo dei due tempi, il tempo storico ed il tempo finale che già ha invaso il tempo storico, ma non lo occupa pienamente, per cui il tempo storico è aperto sul tempo escatologico. Questa giustizia di Dio giustifica la chiamata alla gioia nella storia paradossalmente indirizzata a quelli che non hanno nessun motivo storico di gioire, ma hanno un motivo escatologico. Questa giustizia di Dio si anticipa nella storia attraverso un uomo, Gesù, attraverso gesti di giustizia umana e quindi è giustizia divina incarnata in gesti di giustizia umana, per cui Dio non si sostituisce all'uomo, ma si anticipa nella storia attraverso l'azione umana. Dio re nella storia dipende dall'azione di Gesù e dall'azione dei discepoli. La parola di Gesù e ciò che Gesù fa non sono un'anticipazione parziale che riguarda lui solo: in Matteo 10, 7 e in Luca 10, 9 Gesù fa dei suoi discepoli altri evangelisti e li manda a ripetere lo stesso annuncio: la regalità di Dio si è fatta prossima: "Andate alle persone sperdute di Israele e dite: si è fatta vicino la regalità dei cieli". Gesù è stato evangelista per il suo tempo ed i discepoli devono prendere il suo testimone ed essere anch'essi evangelisti. La comunità di Gesù è la comunità degli evangelisti del regno di Dio, la comunità messianica che continua nella storia e mediatrice della giustizia di Dio nella storia. Nel discorso della montagna Gesù dice non solo "andate e proclamate", ma al v. 6 in Matteo "guarite i malati, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni". Il complesso delle funzioni di Gesù viene affidato ai discepoli per cui la comunità cristiana subentra a Gesù in rapporto alla regalità di Dio nelle sue diverse connotazioni. Oltre Gesù i discepoli sono chiamati a rendere vera nella realtà storica la giustizia con le forme del lieto annuncio, della beatitudine, dell'azione sdemonizzatrice e dell'invocazione. C'è un passaggio senza rotture tra Gesù e la sua comunità.

dibattito: le risposte

ricchezza e storicità dei simboli

Il simbolo è meno chiaro della parola razionale, ma è più espressivo, è sempre aperto, dice una ulteriorità. Le esperienze più importanti dell'uomo vengono espresse in simboli ed in tale modo rese più plastiche. Il simbolo diventa fondamentale nel rapporto dell'uomo con Dio perché Dio non è oggetto di immediata comunicazione. Essendo Dio il Trascendente, l'uomo ha bisogno non solo di parole, ma soprattutto di simboli per esprimere il suo rapporto con lui. La Bibbia è la foresta dei simboli religiosi. L'importante è riuscire a cogliere le origini dei simboli, i bisogni e le esigenze che sottostanno alla loro creazione, a vedere come il simbolo continua nella storia cambiando i significati. Ad esempio Israele era un popolo che non aveva una terra e se l'è conquistata prendendola agli altri e quindi con la guerra. Israele in questa esperienza ha vissuto il suo Dio come un Dio guerriero. Questo simbolo del Dio guerriero, una volta creato, agisce in una duplice e contrastante direzione; nella tradizione sacerdotale il simbolo religioso di Dio guerriero libera i popoli dal fare la guerra e cioè tutta la guerra è attribuita a Dio. Secondo la tradizione sacerdotale l'entrata delle tribù nella terra è assolutamente pacifica; inoltre l'uomo prima del diluvio, della corruzione degli uomini, era vegetariano e solo dopo c'è il permesso di Dio di mangiare gli animali. Il grande ideale della tradizione sacerdotale era l'assenza assoluta di violenza tra uomo e uomo, tra animale ed animale e tra l'uomo e l'animale. Tutta la violenza viene attribuita a Dio il quale è il giudice delle azioni degli uomini ed è il retributore, colui che castiga l'empio; così il diluvio è mandato agli uomini che affogano quasi tutti perché sono peccatori. Il Dio retributore è descritto con i colori del simbolo della guerra. Così il passaggio del mare e la distruzione dell'esercito egiziano è attribuito interamente all'azione di Dio.
Invece la tradizione deuteronomistica, che è nazionalistica, collegata con i circoli revanscisti di Gerusalemme che volevano riconquistare le terre di Davide sottomesse dall'impero assiro, ha vissuto il simbolo religioso del Dio guerriero in mezzo al suo popolo di guerrieri. Dio e popolo combattono insieme. Al centro dell'accampamento di Israele c'è la tenda del grande condottiero Dio. Da queste tradizioni deuteronomistiche è nato il racconto della conquista a mano armata delle tribù israelitiche nel libro di Giosuè. Il redattore finale ha privilegiato la versione bellica alla versione pacifica del sacerdotale.
Viene tramandata così la versione bellica, secondo la quale l'entrata nella terra è stata una spedizione armata che ha messo a ferro e fuoco ed ha ucciso tutti i Cananei. Rimangono però le tracce anche dell'interpretazione pacifica. Nella realtà storica c'è stata una via di mezzo: né un'azione devastatrice condotta da Giosué e neppure il pacifismo totale. Quindi il simbolo del Dio guerriero produce nelle due tradizioni effetti esattamente opposti.
Così pure abbiamo visto come il simbolo di Dio re, assunto da Gesù, è fatto funzionare a modo suo. Intanto Gesù l'ha tolto dal futuro indeterminato come avevano fatto gli apocalittici del tempo, asserendo che la regalità già interviene nella storia attraverso i suoi gesti. Con Gesù non c'è più la netta separazione fra la storia e l'escatologia, ma il futuro si mescola con la storia.

ritrovare la corposità della salvezza cristiana

Per quanto riguarda le guarigioni dei malati psichici, dobbiamo riscoprire il significato di Gesù sdemonizzatore. La giustizia di Dio di cui Gesù è non solo l'evangelista e l'invocante, ma anche il ministro, coglie la carne della ingiustizia umana e non solo lo spirito. La giustizia di Dio si realizza attraverso la mano di Gesù nella guarigione dei malati psichici e dei malati fisici: Dio è re nel mondo, Dio rende la sua giustizia nel senso di togliere l'ingiustizia del male, ogni forma di male. Noi dobbiamo ritrovare la corposità della salvezza cristiana, della redenzione cristiana, la carnalità della giustizia di Dio.

sono i piccoli i portatori di speranza

I piccoli erano gli ignoranti ed infatti la contrapposizione è con i sapienti, gli intelligenti cioè gli scribi e i rabbini, la classe religiosa più in vista. Gesù ringrazia Dio al cap. 11 v. 25 di Matteo col testo parallelo di Luca, sottointendendo il tema della regalità "in quel tempo Gesù disse: io faccio questa lode di Dio, Signore del cielo e della terra". Gesù resta stupefatto di fronte alla grandezza di Dio presente nella sua vicenda.
Il vangelo di Giovanni mette in evidenza i motivi per cui Gesù non può essere considerato né un profeta né il messia dai suoi avversari: primo, nessun capo del giudaismo aveva creduto in lui e, secondo, ha aderito a Gesù la gentaglia che non conosce la legge. Nessuno dell'élite culturale e religiosa del tempo aveva aderito a Gesù, ma solo il popolino, gli ignoranti. Al tempo di Gesù i comandamenti, fra positivi e negativi, erano più di seicento, perciò gli ignoranti non li conoscevano e quindi neppure li praticavano: erano i non osservanti. È un evento sorprendente, che Gesù legge positivamente: "io ti confesso con gioia Padre, Signore del cielo e della terra, e ti lodo e ti ringrazio poiché tu che hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, le hai rivelate ai piccoli". Il neutro "queste cose" nel contesto attuale non ha un riferimento; i nostri Vangeli sono stati costruiti come un mosaico con singole tessere prese da una massa di detti e racconti di Gesù. Il contesto di questo detto è sparito: noi possiamo supporre con tutta verosimiglianza che dietro questi neutri ci sia il mistero della regalità, della giustizia di Dio. I sempliciotti, la gentaglia sono lo strato dei poveri che erano i portatori della speranza della regalità; i prepotenti non coltivavano speranze perché non avevano bisogno, mentre i deprivati erano i creatori della speranza, dei simboli religiosi. Anche in questo caso abbiamo la riprova di come il simbolo funzioni a seconda dei fruitori: la comunità di Matteo non avvertiva il problema dei poveri in senso obiettivo e quindi parla di poveri secondo lo spirito. Invece la comunità cristiana di Luca comprendeva gruppi che faticavano enormemente nella storia e perciò mantiene la formulazione secondo cui la beatitudine riguarda i poveri in condizione di disagio reale, di ingiustizia e di sopraffazione.
Però la comunità di Luca fa una interpretazione diversa da quella colta da Gesù. La beatitudine di Gesù è sempre collegata con la storia, mentre i cristiani di Luca non hanno più fiducia nella storia. Infatti Luca così si esprime: "beati voi poveri ora perché alla fine Dio renderà giustizia nel suo regno" e viene saltata tutta la storia che resta, il tempo della ingiustizia, della sopraffazione, della sofferenza. Invece Gesù coniuga la storia e il tempo finale e li considera entrambi tempi di giustizia. I simboli quindi vengono fatti slittare secondo i bisogni ed i desideri dei gruppi.

una chiesa più agenzia etica che evangelista: manca il lieto annuncio

Oggi la chiesa cattolica, si presenta al grande pubblico come un'agenzia etica. In una società dove si smarrisce il senso della vita, dove si fatica a convenire su valori etici fondamentali umani, le chiesa è contro l'aborto, per la vita fin dal concepimento, è contro l'eutanasia; vengono affermati certamente dei valori, però non c'è nulla di specifico, di particolarmente cristiano. Non risalta abbastanza la chiesa evangelizzatrice della giustizia di Dio, portatrice della lieta notizia. Si sentono tanti rimbrotti, che sono fondati, rimbrotti del Santo Padre, delle gerarchie perché le diocesi italiane che sono afflitte dal consumismo: è una critica giusta, però Gesù non è questo. Gesù non era un profeta di sventura, ma aveva una lieta notizia da proclamare sulla piazza, la nuova iniziativa di grazia di Dio, per l'uomo, per la liberazione dell'uomo. C'è molto moralismo.
Dov'è il lieto annuncio di Dio che si cura di noi, del suo mondo? Gli apocalittici erano pronti a bruciare il mondo corrotto in modo irrecuperabile e attendevano che Dio facesse calare dal cielo un nuovo mondo sulle macerie di quello distrutto. Gesù invece si prende cura delle sorti di questo mondo, crede in un Dio la cui giustizia deve trionfare su questo mondo.
Oggi manca il senso della gioia, ma anche del perdono, manca il lieto annuncio, mancano le beatitudini. La comunità cristiana deve riscoprire la sua missione di essere evangelizzatrice della giustizia di Dio nella storia, nel senso di Gesù di Nazaret.
La prospettiva di Gesù era illimitata, ma i cristiani l'hanno poi ridotta con spiegazioni moralistiche, a partire da Matteo.
Giovanni non impiega il simbolo della regalità di Dio, ma usa altri simboli con un diverso processo interpretativo, come il tema della vita, della luce. Il tema della verità è la rivelazione, Gesù dice: io sono la verità, lo specchio di Dio, "chi ha visto me ha visto il Padre". Per Matteo il regno di Dio è quello finale, è la vita eterna. Anche per Luca il regno di Dio è quello finale per cui noi ora dobbiamo sopportare in attesa del futuro. Anche in Paolo alcuni testi sono nella prospettiva finale. Hanno dimenticato la caratteristica di Gesù, il suo essere a cavallo dei due tempi per cui il futuro già si anticipa nella storia. Anche le beatitudini in Luca e Matteo sono un'attesa della vita eterna, in Matteo perché i virtuosi la meritano e in Luca perché i poveri devono essere ricompensati del loro patire. È lo stesso significato della parabola di Lazzaro e dell'Epulone. Invece Gesù coniugava strettamente il futuro con la storia ed anche Paolo rimane fedele a Gesù in questo punto cruciale.

utopia e speranza

L'utopia è un sogno e non esiste da nessuna parte, la speranza invece poggia su una certa esperienza. Paolo fa una teologia della speranza e fonda sempre la speranza sulla fede: "se noi crediamo che Dio ha resuscitato il Figlio suo, possiamo sperare". Ancora una volta futuro e presente non sono staccati; Gesù e Paolo hanno inserito il futuro dentro la storia, con la dialettica tra i tempi.

senso allargato di povertà

La povertà ha significati molto estesi. Non è solo la povertà sociologica, ma comprende anche coloro che sono deprivati. Dio non sopporta che ci siano i deprivati di tutti i beni possibili. Ecco perché Gesù guarisce i malati psichici, i malati fisici e anche perdona i peccatori. Significativo è il caso di Zaccheo. Zaccheo era molto ricco, ma nella società perbenista del suo tempo era un deprivato, un emarginato, evitato da ogni buon giudeo. Il suo mestiere di strozzino comportava disprezzo e nessuno andava nella sua casa. Gesù va nella sua casa. Quindi povertà indica una situazione di privazione di piena e ricca umanità.
Nella nostra cultura giustizia è rispetto, difesa, soddisfacimento dei diritti della persona (a partire dalla rivoluzione francese), la giustizia di Dio invece non ha a che fare con i nostri diritti, ma con ciò che vuole che il mondo sia. Dio vuole il mondo nella pienezza e la sua giustizia è l'azione per realizzare la pienezza. La giustizia di Dio è l'azione volta a rendere il mondo come lo vuole lui, a sua immagine.
In 1 Cor, 15 Paolo dice che fin che c'è la morte, che è l'ultimo ed estremo nemico dell'uomo, Dio non ha ancora vinto, Cristo non è ancora il Signore e Dio non è tutto in ogni cosa. Quando sarà vinto anche l'ultimo nemico dell'uomo, il Cristo consegnerà il suo regno a Dio e Dio sarà tutto in ogni cosa. Dio sarà finalmente re nella storia.

Turoldo: Dio non vuole chi io stia male

In questa linea si colloca una recente espressione di Turoldo ad amici che gli chiedevano: "come stai?" soggiungendo "come Dio vuole" e lui: "Dio non vuole che io stia male".
Anche Paolo non ha mai detto: io mi rassegno alla morte. Di fronte a tutte le sue numerosissime traversie dice: io vivo la necrosis di Gesù, io vivo in me il morire di Gesù. Per Paolo la morte non è l'ultimo momento, è la vita travagliata, intaccata. Dio non vuole la malattia, Dio è il guaritore, vuole la giustizia e il male è un'ingiustizia.

3. La giustizia di Dio nell'azione di Gesù

In Matteo 12,22ss, la risposta di Gesù a coloro che avevano inteso in modo distorto la sua azione sdemonizzatrice, dimostra che la parola di Gesù si sostanziava della sua azione. In Matteo 4, 23 si trova un riassunto di tutta la missione di Gesù: "Gesù andava di qua e di là, per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, proclamando ad alta voce il lieto annuncio del regno, e curando ogni malattia ed ogni infermità nel popolo".

attività didascalica, keygmaitca, terapeutica

Ci sono tre attività: l'attività didascalica, l'attività kerigmatica e l'attività terapeutica. Lo stesso riassunto, negli stessi termini riappare nel cap. 9 v. 35 "Gesù andava di qua e di là per le città tutte e i villaggi insegnando nelle sinagoghe e proclamando il Vangelo della regalità e guarendo ogni malattia e infermità". Questa ripetizione in termini letterari si chiama inclusione, cioè con questo riassunto messo all'inizio e alla fine si vuole intitolare il contenuto di ciò che è racchiuso dal 4, 24 al 9, 34 di questa sezione del Vangelo che illustra queste tre attività.
L'attività didascalica viene sviluppata nei capitoli 5, 6, 7 nel discorso della montagna che interpreta le esigenze che erano già state espresse nel Sinai a Mosè. Gesù è l'ultimo interprete della legge di Dio data agli uomini. In Mt 5,1: "e vedendo le folle egli salì sulla montagna e sedutosi gli si avvicinarono i discepoli suoi e aperta la sua bocca insegnava loro dicendo:..." e cominciano le beatitudini.

attività terapeutica connessa alla proclamazione della regalità di Dio

Col cap. 8 e 9 vi è un'altra sezione che riguarda l'attività proclamatrire e terapeutica in cui Matteo riporta dieci miracoli, dieci guarigioni di Gesù. L'attività terapeutica è chiaramente connessa nel contesto con l'attività proclamatrice della regalità di Dio. L'attività terapeutica di Gesù costituisce la mediazione storica della regalità di Dio oggetto del proclama di Gesù evangelista. Gesù terapeuta è al servizio di Gesù evangelista e compie i segni storici della regalità di Dio che si incarna nella storia anche se parzialmente. Gesù qui è mediatore storico della giustizia di Dio attraverso l'attività guaritrice dei corpi malati.
In Mt 8,1-4 Gesù guarisce un lebbroso che lo supplica, a cui segue (Mt8,5-13) la guarigione di un servo del centurione di Cafarnao, ove ricorre il verbo "terapeuo" che significa esattamente curare. Nel contesto la cura è miracolosa e perciò la terapia diventa guarigione che in greco si dice "iauma" da cui "iatros", il medico, il guaritore.
Nella cultura del tempo la cura è intesa in senso miracolistico però noi dobbiamo cogliere il significato originario di terapeuon. Gesù al v. 7 dice "io verrò e lo curerò". Al v. 16 e seguenti del cap. 8 Matteo dice che in questa attività guaritrice di Gesù si è realizzata una profezia di Isaia: "venuta la sera gli portarono molti indemoniati e cacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti quelli che stavano male affinché fosse compiuto il detto di Dio che è risuonato mediante Isaia profeta: costui ha preso su di sé le nostre malattie e si è fatto carico delle nostre infermità". Nel testo di Isaia questa espressione vuol dire partecipare, condividere le malattie e le infermità del popolo; infatti si parla del servo sofferente di Dio che è passato attraverso la passione, non per sua colpa, ma, dice il testo, per giustificare i peccatori davanti a Dio, come vittima espiatrice dei peccati del popolo suo. Matteo invece interpreta con libertà le scritture e per lui prendere e farsi carico delle malattie vuol dire guarire. La solidarietà di Gesù nei confronti dei malati non è la stessa del servo sofferente che era di condivisione, ma é una solidarietà liberatrice, cioè del mediatore storico della giustizia di Dio.

congiunzione tra ideale messianico e attività curatrice

In Mt 9,1 ss Gesù guarisce un paralitico, in Mt 9, 20 ss guarisce l'emorroissa e, inserito nello stesso testo, c'è la risurrezione della figlia giovinetta di un capo. In 9, 27-31 vi è la guarigione di due ciechi: "mentre Gesù si allontanava di là due ciechi lo seguirono gridando e dicendo: figlio di David, abbi pietà di noi". E' un appellativo messianico: un discendente di Davide, quindi un re terreno atteso come re giusto. Vi è la coniugazione assolutamente originale tra l'ideale messianico e l'attività curatrice dei malati: non si tratta solo di una solidarietà affettiva ed emotiva, ma di pietà operativa. E' una coniugazione originale perché al tempo di Gesù l'attesa messianica del figlio dell'uomo era colorata in termini politici e militari, cioè il figlio di Davide era colui che avrebbe reso giustizia all'autonomia e alla indipendenza del popolo israelitico dal dominio romano. Nel periodo appena successivo a quello di Gesù, sono nati i Salmi di Salomone, apocrifi, in ambienti farisaici in cui si attende il figlio di Davide come il liberatore del popolo dalla oppressione politica. In Matteo invece nelle attese messianiche è inserita l'attività di cura dei malati. L'invocazione: "figlio dell'uomo abbi pietà di noi", ricorre altre volte nel Vangelo di Matteo per sottolineare la coniugazione tra il Figlio dell'Uomo e la sua attività curatrice e non politico-militare. In 9, 32-34 vi è l'ultima guarigione di un muto indemoniato.
Sullo sfondo c'è sempre la giustizia di Dio che Gesù proclama evento che si è avvicinato nella storia e che viene anticipata nella sua attività. In Gesù si armonizzano le due attese dell'A.T., l'attesa dell'oggetto del desiderio verticale e l'attuazione del desiderio nella sua proiezione terrena cioè la venuta di un messia che rende giustizia. Gesù unisce in sé le due attese e dunque la giustizia di Dio è resa ai malati; la radicalità della giustizia di Dio va al di là di ogni diritto soggettivo e risponde alla esigenza di Dio di avere un mondo a sua immagine, un mondo dove c'è l'ingiustizia di persone malate, la cui vita nei corpi è sofferta, umiliata, diminuita. La giustizia di Dio ai malati è guaritrice attraverso però la terapia di Gesù, con la sua mediazione storica. Gesù non ha guarito tutti i malati anche se Matteo, in modo un po' retorico, dice che ha guarito ogni infermità, ma è una affermazione teologica, oggetto del desiderio. Gesù ha guarito dei malati e questo è il segno della speranza che tutti i malati saranno guariti e che la giustizia di Dio è protesa a liberare tutti i malati dalla malattia che agli occhi di Dio è ingiusta, che Dio non sopporta e tanto meno che Dio vuole.

Dio non è onnipotente nella storia

Perché questo Dio che potrebbe guarire tutti i malati non lo fa? Gesù stesso che qualche guarigione l'ha fatta, perché non ne ha fatte di più? C'è una scena in Jesus Christ Superstar in cui torme di sciancati si avvicinano sempre di più a Gesù e quasi lo soffocano e Gesù scappa dalla presa a tenaglia di questi malati. E' impressionante, da una parte, l'attività curatrice efficace di Gesù, che ha esercitato in alcuni casi, ed è scandaloso che tale attività non si sia sviluppata in termini universali, illimitati. La risposta è che noi dobbiamo interpretare l'immagine di Dio nella storia non secondo le categorie religionistiche di un Dio onnipotente, di un deus ex machina, che se solo volesse, potrebbe. No, non può guarire tutti i malati, lo vorrebbe, ma non può. Noi dobbiamo, alla luce spassionata delle testimonianze bibliche, rivedere criticamente il concetto, l'immagine di un Dio onnipotente nella storia. Dio non lo è, perché si è dimostrato non onnipotente. Anche in Gesù si è dimostrato non onnipotente: qualche guarigione, ma non di più. Dio stesso è soggetto al peso della storia, allo spessore della storia. Dio non può forgiare il nostro mondo a sua immagine e somiglianza, perchè ha un'indipendenza, ha una autonomia da lui. Questo mondo resiste, è un mondo il cui signore è l'uomo e l'uomo è una libertà davanti a Dio che Dio non può piegare. Dio stesso entra nei processi storici positivi e negativi e ne subisce i contraccolpi.

Auschwitz: il luogo teologico per ripensare Dio

Il mondo giudaico ha vissuto una grande tragedia, religiosa e teologica prima ancora che obiettiva, la tragedia di un mondo religioso credente nel Dio unico ed onnipotente che ha subito nei campi di concentramento l'esperienza drammatica dell'assenza di Dio, del silenzio di Dio. Nel ghetto di Varsavia un bambino muore sulla forca ed un miscredente domanda all'ebreo dove era il suo Dio mentre il bambino finiva sulla croce e l'ebreo risponde che Dio è sulla croce con il bambino. Auschwitz ha costituito il luogo teologico del ripensamento giudaico ed il luogo dello scandalo perchè migliaia e mgliaia di ebrei da allora non hanno più creduto in Dio. Tutti dobbiamo ripensare, partendo da Auschwitz, la nostra immagine di Dio, che Dio nella storia non è onnipotente e che Dio nella storia è crocifisso. Non è che sia assente, Dio è presente, ma non è presente come onnipotente, ma come colui che solidarizza con la passione dell'uomo. Però questo Dio crocifisso con i crocifissi della storia nell'ora finale riscatta la storia, è il Dio risuscitatore dei crocifissi. Ma l'onnipotenza di Dio è nel tempo finale, del risuscitatore, non di colui che sa risparmiare la morte. È colui che è capace di richiamare alla vita i morti, ma non è capace di risparmiare la morte più orrenda al vivo. C'è la mediazione storica di Gesù, c'è l'anticipazione della giustizia di Dio, ma pur essendo reale è parziale, imperfetta, precaria, sotto il segno di questa impotenza di Dio nella storia, di questa crocifissione di Dio con i crocifissi della storia.

la giustizia di Dio libera dal peccato: giustizia riconciliatrice

La giustizia di Dio che è resa ai malati è fatta anche ai peccatori. Non solo la malattia psichica e la malattia fisica, ma anche la malattia morale dell'uomo costituisce la realtà che ha bisogno di riscatto, di liberazione da parte della giustizia di Dio. In Mt 9, 1 ss dove si parlava del paralitico, Gesù prima di guarire il suo corpo dice: "ti sono perdonati da Dio i tuoi peccati. Affinché sappiate che il Figlio dell'Uomo ha il potere di perdonare i peccati ti dico alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina". Il potere di Gesù anticipa la giustizia di Dio resa ai peccatori per cui riconcilia a sé i peccatori.
Il testo della riconciliazione si trova in 2 Corinzi cap. 5 e all'inizio del 6 e spiega che non è Dio che ha bisogno di essere riconciliato; bisogna liberarsi dall'idea che Dio sia irato, che entri in collera con chi agisce male; Dio non si è mai staccato da noi, non si stacca. Nella parabola del figliol prodigo non era il padre che doveva essere riconciliato col figlio, il padre era sempre unito nell'amore al figlio, anche quando questi se ne è andato, tanto che tutti i giorni stava ad aspettarlo. La mancanza era nel figlio che aveva perduto l'amore verso la casa, verso il padre e il fratello. Chi aveva bisogno del ricupero di amore non era il padre, ma il figlio. Per questo ricupero ci voleva l'accettazione del padre e quando il figlio torna dice di non essere più degno di venire accolto come figlio e chiede di essere preso come un salariato, perchè aveva perduto ogni diritto avendo rinnegato lo statuto di figlio. Così non è Dio ad essersi allontanato, ma siamo noi, ed il perdono è esattamente Dio che ci recupera e ci fa tornare a casa: "ti sono stati perdonati i peccati". Vuol dire che Dio ha vinto la lontananza, l'assenza di amore. L'opzione di grazia di Dio è la sua capacità di vincere in noi l'inimicizia, il fare a meno di lui e fare a meno dei fratelli.
Ancora una volta la giustizia di Dio è mediata dall'azione di Gesù: è Gesù che dice la parola: ti sono perdonati i peccati. "Lasciatevi riconciliare" è l'annuncio evangelico, cioé accettate l'azione di Dio che ricupera alla fraternità.
Nel cap. 9 Gesù è portatore della giustizia riconciliatrice di Dio quando chiama all'apostolato Levi (Matteo) che era un pubblicano, frodatore e questo era già uno scandalo. Lo scandalo diventa ancora più grave quando Levi fa una grande festa invitando tutti i suoi compari alla presenza di Gesù. Mt9,10-15: "e molti pubblicani e peccatori pubblici stavano seduti a tavola con Gesù e con i suoi discepoli ed erano molti. Allora gli scribi e i farisei vedendo ciò andavano dicendo ai suoi discepoli: ma perché lui mangia e beve insieme con i pubblicani e i peccatori? Gesù che aveva sentito questo dice loro: perché non sono quelli che stanno bene che hanno bisogno del medico, ma quelli che stanno male. Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori". Gesù media nella storia la giustizia di Dio facendosi amico, filos, dei pubblicani e dei peccatori e cioè solidarizzando con quelli con cui nessuno solidarizza. Nella sua solidarietà con i peccatori si realizza nella storia la solidarietà di Dio e in questo si incarna il perdono.

la giustizia di Dio nella morte e resurrezione di Gesù

L'ultimo aspetto, la giustizia di Dio che ha grande spazio nella parola e nell'azione di Gesù, si è realizzata nella vicenda culminante della vita di Gesù, la morte e la risurrezione. La morte di Gesù ha avuto un significato molto preciso per il fatto che Gesù è stato un condannato a morte. La motivazione giuridica che ha mosso i romani, perchè in quella situazione soltanto loro avevano il diritto di emettere sentenza capitale e di farla eseguire, era politica; Gesù per Pilato era un ribelle al potere romano, uno zelota e la crocifissione era la pena romana riservata agli schiavi e ai ribelli. Gesù però non è stato colto in atto di ribellione, ma è stato condannato come ribelle sotto le accuse di altri, delle autorità giudaiche. Le autorità giudaiche non potevano fare condannare Gesù con la motivazione reale, che certamente Pilato non avrebbe accettato. Gesù era per le autorità giudaiche un problema di ortodossia: qualche volta aveva trasgredito la legge del riposo sabbatico, aveva contestato le autorità del tempio che speculavano con il commercio all'interno dell'area del tempio e soprattutto, come profeta, aveva annunciato la distruzione del tempio di Gerusalemme. Quest'ultimo in particolare era considerato un crimine degno di condanna capitale. Nel passato Geremia aveva annunciato la distruzione del tempio come castigo di Dio per l'infedeltà del popolo ed aveva subito un linciaggio da parte delle autorità di Gerusalemme. Era stato salvato dal re, che gli era sufficientemente amico, e messo in carcere.
Giuseppe Flavio racconta che, nel periodo in cui visse Gesù, di un profeta che girava per le vie di Gerusalemme proclamando la distruzione della città e del tempio. Le autorità giudaiche l'avevano preso e portato al tribunale romano, dove era stato interrogato e giudicato pazzo perché ripeteva in stato estatico la sua profezia. L'autorità romana l'aveva fatto fustigare e poi l'aveva rilasciato. Questo dimostra come le autorità giudaiche considerassero le profezie di distruzione come un crimine.
Con tutta probabilità Gesù è stato condannato dalle autorità giudaiche, perché nemico del tempio, della religione giudaica costruita attorno al tempio e alla classe sacerdotale. Dunque la condanna di Gesù alla morte significa una sconfessione da parte di Dio, che non è intervenuto a salvarlo. Gesù è morto come un falso profeta. La morte è stata la smentita delle sue pretese, del suo annuncio, di tutta la sua vita, azione, parola.
Questo spiega come i suoi discepoli, vistolo finire in croce, hanno perduto ogni fede. "Noi speravamo" dicono i due di Emmaus al cap. 24 di Luca "che fosse lui il liberatore di Israele", ma la morte è stata la smentita. Dio non ha mosso un dito per salvare colui che nel suo nome parlava, per risparmiarlo dall'umiliazione della smentita. Ma questo Dio lo ha risuscitato.

la resurrezione è giustizia resa a Gesù

La risurrezione è giustizia resa a Gesù. C'è un testo della tradizione primitiva, riportato in 1Timoteo 3, 16 dove la giustificazione di Gesù è espressa così: "fu giustificato nello spirito". Dio ha riconosciuto con la risurrezione che Gesù è il suo profeta, che la parola di Gesù è la parola di Dio, che Gesù è mediatore storico della giustizia di Dio. La risurrezione è giustizia resa da Dio all'innocente che è stato violentato. Dio gli ha reso giustizia dandogli vita piena, vita nuova.
Dio gli rende il suo onore ridandogli vita perché la morte che gli hanno inflitto gli uomini è una morte infamante. Questo significato della morte di Gesù e della risurrezione appare in tutti i discorsi degli Atti degli Apostoli davanti ad uditorio giudaico dove lo schema, tanto sulla bocca di Pietro, quanto di Paolo è: "voi lo avete ucciso appendendolo alla croce, ma Dio lo ha risorto", cioè l'azione di Dio è esattamente contraria alla vostra, ed alla fine del discorso si invitano gli uditori a pentirsi.
I racconti della Passione nei nostri Vangeli fanno riferimento ad un racconto primitivo della Passione di Gesù, apparso nei primi anni del movimento cristiano e che era qualificato come Passione del Giusto. La Passione del Giusto era un elemento importante dei Salmi, ad esempio il Salmo 22, oppure del libro della Sapienza. La prima interpretazione che il movimento cristiano ha dato della passione di Gesù non è che Gesù in questo modo ci ha riconciliato con Dio nell'espiazione oppure che è stato un atto di amore - questo verrà dopo - ma che è la passione del giusto e dell'innocente, cioè la passione dell'oppresso a cui Dio ha reso giustizia liberandolo nella risurrezione. La giustizia di Dio si è manifestata nella vicenda culminante di Gesù attraverso la risurrezione del crocifisso, del violentato, di colui che era un vero profeta ed è stato ritenuto falso, la cui morte sembrava essere la dimostrazione chiara della sua falsità e che Dio aveva fatto riconoscere con la risurrezione suo profeta nel mondo e nella storia, il suo mediatore di giustizia. Questa regalità di Dio che è stata annunciata dalla parola di Gesù, che è stata incarnata nella storia attraverso l'azione curatrice e riconciliatrice di Gesù, ha beneficato Gesù stesso, il crocifisso, risuscitandolo.

chiamati a confessare la giustizia di Dio, già presente ma in modo iniziale e bisognosa della nostra mediazione nella linea dell'attività sdemonizzante e curante di Gesù

In conclusione, per riassumere, il simbolo della regalità esprime la giustizia che fa Dio, e quindi la comunità cristiana è chiamata a confessare la giustizia di Dio, a testimoniarla, ad annunciare il Vangelo nel suo significato originale di lieto annuncio che viene da Dio, la verità di Dio, il volto di Dio. La comunità cristiana oggi deve ricuperare molto questo aspetto verticale della giustizia di Dio, perchè il destino del mondo è l'affare di Dio.
La giustizia di Dio già inizia, con deboli, ma reali accenni che sono una caparra del compimento ultimo della giustizia di Dio a favore dell'uomo.
La giustizia di Dio nella storia ha bisogno della nostra mediazione. La mediazione storica deve camminare sulla linea di quella di Gesù, che è la mediazione esemplare, come sdemonizzazione del mondo, un'azione che tolga i demoni dentro e fuori di noi, ed i demoni sono tutte quelle forze di morte, distruttive che si ritengono essere invincibili; sulla linea della terapia, cioè la cura efficace, la cura amorosa dei corpi malati. Da questo punto di vista è significativo che nella storia cristiana pur attraverso le deviazioni ed involuzioni che si sono verificate, c'è una linea che rimane costante ed è l'azione terapeutica. Venticinque anni fa si diceva che i cristiani non devono supplire alle inefficienze dello stato, della società ed invece ancora oggi vediamo che i malati più bisognosi alla fine sono assistiti dai privati. Le società anche più sviluppate tagliano fuori dalle loro organizzazioni i più bisognosi, che restano affidati alla solidarietà affettiva ed effettiva dei volontari.
La giustizia di Dio è a favore dei poveri, perché la causa dei poveri è la causa di Dio re. Il re ed i poveri sono i due termini correlativi; i poveri costituiscono il referente essenziale di ciò che è Dio. Ciò non significa che i poveri debbano sempre esistere, ma significa che i poveri sono il campo dell'azione di Dio. Altro riferimento essenziale, i poveri sono i favoriti per Gesù e per la comunità messianica, non perché siano i più buoni o i più disponibili, ma perché sono i più bisognosi di liberazione e di giustizia. Noi oggi i più bisognosi li abbiamo nei malati di Aids, nei tossicodipendenti, negli extracomunitari; le società ricche ed opulente producono queste sacche di miseria, così la società americana è riuscita a creare venti milioni di poveri radicali. Questi sono i referenti, i beneficiari, i destinatari del lieto annuncio di Gesù. Per quella parte in cui noi rientriamo nei poveri, noi siamo i beneficiari della regalità di Dio e siamo chiamati a rendere vera nella storia la giustizia di Dio nei confronti dei poveri che sono accanto a noi; siamo i "monarchici" di Dio, che vivono il simbolo della regalità della giustizia di Dio.

Discussione

riscoprire lo scandalo della croce, scandalo non di sofferenza ma di debolezza

La comunità cristiana si costruisce recinti attorno a sé. E nel nostro mondo, in cui cadono gli steccati politici, ecco che appaiono gli steccati religiosi. Anche in Jugoslavia, nella feroce contrapposizione, c'è una componente religiosa, i cattolici, gli ortodossi, i musulmani. Così in Russia, nei rapporti tra gli uniati e gli ortodossi si ergono gli steccati. È il nuovo scandalo che sta avvenendo. Gesù invece è andato a tavola insieme con quelli che dovevano essere evitati, tanto è vero che i suoi avversari stanno fuori. Noi dobbiamo riscoprire il significato dello scandalo della croce che non è lo scandalo della sofferenza; il simbolo come lo ha sviluppato Paolo, come lo sviluppa Marco, è il simbolo della debolezza e dell'impotenza di Dio nella storia. Invece tutti gli schemi religiosi sono a dimostrare che le epifanie di Dio nella storia sono epifanie forti. Per esempio Eracle era inteso come un superman in cui c'era la potenza di dio, oppure nell'antico Egitto figlio di dio era il faraone, l'incarnazione nella storia. In Gesù invece il sacramento di Dio, la sua manifestazione nella storia è sotto il segno contrario, non della forza, della potenza, del trionfo, della nobiltà. Dice Paolo che in questo si gioca la genuinità, l'autenticità del cristianesimo. È provvidenziale che nella storia cristiana il simbolo sia non il risorto, ma il crocifisso. La cosa più impressionante è che Paolo non parla mai della imitazione di Gesù nei suoi atteggiamenti, dobbiamo imitare Gesù nella Passione, dove l'imitazione non è un atto volontaristico, ma è la partecipazione al destino, alla sorte. Nella 2 Corinti si dice che l'apostolo di Gesù deve portare le stimmate di Gesù. Nella 1 Tessalonicesi, ai cristiani di Tessalonica che subivano l'ostilità dell'ambiente circostante, Paolo dice: voi dovete riconoscere che questa è la sorte e in questo modo voi imitate noi e il Signore Gesù. C'è questo destino della croce che accomuna Gesù, l'apostolo e la comunità. Paolo questo discorso lo faceva anche quando aveva come rivali altri predicatori cristiani che invece si presentavano come grandi personalità che impressionavano gli ascoltatori per esempio compiendo miracoli. Nella 2 Corinzi dice: i contrassegni loro ritengono che siano queste grandi imprese, i segni invece dell'apostolo sono i segni del crocifisso. Nella mia necrosis si manifesta la vita di Gesù e del Gesù risorto. È la giustizia di Dio che risuscita il crocifisso. È un punto su cui dobbiamo molto riflettere perché poi la croce di Gesù ha subìto altri significati. Ad esempio, con Costantino, la croce era diventata il simbolo del trionfo, della vittoria contro Massenzio. I crociati portavano la croce. Lutero, quando c'è stata la sollevazione dei contadini sobillati da Thomas Müntzer, li ha condannati duramente dicendo: la sorte del cristiano è croce, croce, croce, rassegnazione, rassegnazione, rassegnazione. Il simbolo nella storia si evolve nei suoi significati, addirittura acquisendo significati contraddittori. E importante per noi ricuperare i significati originari. A S. Paolo "fuori le mura" c'è un mosaico nell'abside che rappresenta un trono con sopra una croce gemmata d'oro, per cui il simbolo perde il suo significato originario di ignominia. Si può affermare che la genuinità cristiana consiste nel ricupero del significato originario della croce, del simbolo del crocifisso.
Il graffito del Palatino trovato a Roma rappresenta una croce cui è appeso un uomo con la testa d'asino e sotto vi è il motteggio "Alexamenos adora questo Dio". Nell'alto Trentino la rappresentazione del crocifisso, sia pure con una insistenza doloristica tipica del Medioevo, è come una macchia di sangue, il crocifisso non ha più niente di umano, coglie la figura del disumanizzato. Infatti la legge romana proteggeva i cittadini romani dell'ignominia della crocifissione; Seneca chiamava la croce: servile supplizio. Gesù è apparso agli occhi dei romani come lo schiavo e agli occhi degli ebrei come lo sconfessato da Dio; nel Deuteronomio cap. 2 si dice: "è maledetto da Dio colui che pende cadavere dal legno". Paolo in Galati dice: "il maledetto da Dio è la fonte della benedizione di Dio".
Noi non vogliamo nemmeno la rappresentazione del maledetto, e lo raffiguriamo bello, pulito, a volte sembra uscito dal barbiere. Ci siamo abituati, l'abbiamo accettato, per cui quando Germaine Richier a Plateau d'Assy presenta il suo crocifisso non viene messo sull'altare, ma in fondo alla chiesa, perché il suo Cristo morto è un corpo arato, un sofferente non più uomo.
I cristiani di Corinto dicevano: certo che sappiamo che Gesù è stato messo in croce, ma questo appartiene al passato, ormai è il risorto e noi siamo risorti con lui. Paolo deve richiamare questi cristiani al crocifisso: "noi partecipiamo nel battesimo alla crocefissione di Gesù, ma parteciperemo (usa il futuro) alla risurrezione". L'ora nostra è l'ora della crocifissione, partecipiamo alla necrosis.

tra secolarizzazione e ritorno degli dei

C'è stato il processo di secolarizzazione, ma ci sono anche spinte contrarie. Nello stesso mondo cattolico si nota una differenza rispetto a vent'anni fa, quando il processo di secolarizzazione era molto avanzato. Oggi, con piena soddisfazione dei "gerarchi", c'è il rifiorire della religiosità. Sono contenti perché ritornano gli dei e con gli dei i pontefici ed i servi degli dei e dei pontefici. Non ci si accorge che dietro questi ritorni sparisce il cristianesimo. Il cristianesimo è una forma di ateismo, i cristiani a Roma erano considerati atei, quelli che contestavano che nel mondo ci fossero le epifanie potenti di Dio, le epifanie gloriose, trionfali. Invece adesso si trionfa e tutti sono contenti del ritorno degli officianti. Questo è il segno peggiore che possa verificarsi.
Oggi la chiesa ottiene udienza nella società, ben contenta, di fronte alla perdita di valori morali, che ci sia la chiesa a difenderli. C'è una "santa alleanza" da parte di tutte le forze, che si compiace che la chiesa abbia nella società una funzione suppletiva sui valori morali e che si occupi dei malati di Aids, dei tossicodipendenti. Mai come oggi la chiesa è riverita. Alcuni anni fa c'è stata contestazione anche all'interno della chiesa, ma oggi c'è sovrapposizione reale tra la fede cristiana e la religiosità pagana.

letture della croce

La prima lettura della croce è stata nella prospettiva della passione del giusto, la seconda lettura nell'ottica sacrificale. Si è intesa la morte di Gesù come sacrificio e Gesù vittima per l'espiazione dei peccati. In 1 Corinzi 5 si dice di Gesù che è l'agnello pasquale vittimizzato. La morte di Gesù è stata vissuta in alcuni ambienti cristiani all'inizio come la morte della vittima; una lettura analoga vi era anche nel giudaismo, nei Maccabei, i fratelli la cui morte era considerata espiazione dei peccati del popolo. A Gesù é stato attribuito questo significato di vittima espiatrice per togliere i peccati del mondo, costituendo così il filone giustificativo della violenza su Gesù, intesa come violenza sacra, benefica, proprio perché porta in sé l'espiazione dei peccati. E' il vecchio filone mitologico della sacralizzazione della violenza.
Questa interpretazione culturale ha avuto influssi limitati, ma poi, nella nostra tradizione, è stata vincente soprattutto con la teologia della soddisfazione, particolarmente elaborata da S. Anselmo. Secondo tale teologia il peccato costituisce un'offesa infinita perché il termine offeso è Dio; Dio ha bisogno di una riparazione, di una soddisfazione che deve avere un valore adeguato come la morte del Figlio. Ancora oggi si ritiene che Dio sia l'offeso da placare e viene placato con il sangue del Figlio.
C'è un terzo filone interpretativo: la morte di Gesù come un gesto di amore e di obbedienza. La soggettività di Gesù viene messa in primo piano. Gesù ha affrontato la morte per amore nostro di solidarietà e di obbedienza al Padre, non nel senso che il Padre volesse la morte, ma una fedeltà totale. Questa è l'interpretazione paolina e di Giovanni. Sono comunque interpretazioni; quanto a Gesù, come abbia vissuto la sua vicenda, è difficile dirlo. Si è accorto che andava incontro ad una morte tragica e certo ha sentito la sua morte come l'esito di un confronto in cui il giusto viene soppresso dal più forte e dal più violento. La concezione è mitologica, ma ancora oggi noi diciamo che la messa è il sacrificio di Cristo. E' una concezione sado-masochistica che è intervenuta nell'interpretazione. Noi dobbiamo mantenere da una parte l'interpretazione della passione del giusto che è il significato della speranza per tutti gli oppressi e dall'altra parte l'interpretazione della morte di Gesù come un gesto di amore, di obbedienza. L'altro filone è deteriore.

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