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Una lettura "laica" di Sapienza 13-14

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 17 novembre 1996

Propongo una lettura "laica" dei capitoli 13 e 14 del libro della Sapienza nel senso di una interpretazione critico-letteraria che prescinda dal credere o non credere.
Il giudaismo antico, così come è testimoniato dalle scritture ebraiche, ha una visione della vita chiusa entro l'orizzonte di questo mondo.
Il libro della Sapienza sotto questo profilo rappresenta una novità, in quanto prospetta una vita nell'al di là, anche se con una curvatura spiritualistica, propria della concezione greca, dell'uomo come anima.
Dice infatti al capitolo terzo: "Le anime dei giusti sono nel riposo".

Il libro della Sapienza

Il libro della Sapienza è stato scritto da un anonimo ebreo di Alessandria che parlava e si esprimeva in greco. Viene attribuito a Salomone, ma si tratta di un espediente letterario usato spesso: si attribuisce un libro a un grande personaggio, in questo caso a Salomone, come modello della sapienza, come Davide lo è dei canti religiosi, dei salmi.
Questo sconosciuto di Alessandria d'Egitto vive nella prima metà del secolo primo avanti Cristo, nel 70-75 a.C., quindi in un tempo prossimo a quello di Gesù Cristo.
Ad Alessandria viveva una colonia ebraica molto numerosa: un sesto della popolazione di una città che contava seicentomila abitanti. Nell'intero Egitto abitavano allora un milione di ebrei, che parlavano il greco, in quanto lingua del luogo e lingua dell'impero macedone.
Quella ebraica è una colonia numerosa e anche vivace dal punto di vista culturale. Un nome su tutti è il contemporaneo di Paolo, Filone, grande filosofo, che ha cercato di coniugare la sua fede ebraica con la filosofia platonica.
I rapporti con gli abitanti del luogo erano di apertura, di dialogo culturale.
Esistevano anche delle tensioni: la colonia ebraica era oggetto di ostilità. Più tardi, sotto Caligola, ci sarà un pogrom ad Alessandria, allorquando diverse centinaia di ebrei vennero uccisi.
I rapporti, soprattutto sul piano culturale, degli ebrei di Alessandria erano contrassegnati innanzitutto dalla critica al politeismo, identificato con l'idolatria. Per l'ebreo il politeismo è idolatria. Si tratta di una critica culturale condotta sul piano filosofico, sul piano del pensiero.
Questa critica è una forma di difesa, di apologia dell'unico Dio, creatore del mondo, come di colui che ricompensa i buoni con la vita e i malvagi con un giudizio di condanna.
Però di quest'unico Dio che gli ebrei vogliono propagandare - gli ebrei sono dei missionari nati - si sottolinea la misericordia, cioè la filantropia, l'essere amante, amico dell'uomo, perché anche quando castiga, lo fa con il fine di ricondurre l'uomo e i popoli sulla retta via. E' un'immagine molto positiva di Dio. La punizione del malvagio è intesa come un metodo pedagogico. Non è un Dio che condanna definitivamente, ma punisce al fine di ricondurre gli uomini sulla retta via.
L'autore della Sapienza ripercorre soprattutto la storia dell'esodo, quando gli ebrei entrarono in contatto per la prima volta con gli egiziani.

la critica al politeismo come idolatria

In questo contesto i capitoli 13 e 14 della Sapienza esprimono una critica al politeismo del tempo, denunciato come idolatria.
In che senso il politeismo è criticato come idolatria?
Idolatria significa adorazione (latrèia) delle apparenze (èidola), di ciò che appare agli occhi. Il politeismo egiziano è denunciato come adorazione di ciò che appare come divino, ma non lo è. E' l'assoggettamento della mente umana alle apparenze.
E' una critica a volte ironica e sarcastica, che manifesta un senso di superiorità culturale dell'ebreo nei confronti di chi si ferma alle apparenze. Mentre gli ebrei credono nel Dio creatore del mondo i politeisti sono gli idolatri del mondo, delle cose.
Dall'altra parte questa critica ironica e sarcastica, che denuncia un senso di superiorità dell'ebreo nei confronti dei pagani politeisti, fa trasparire una sensibilità culturale nuova nell'ebraismo, il fascino della bellezza del mondo. Ieri si sono visti testi come "vuota è la bellezza della donna" "una donna bella, ma priva di saggezza, è come un monile messo al naso di un maiale", che esprimono una certa sottovalutazione del valore della bellezza. La Sapienza testimonia invece una sensibilità particolare per la bellezza del mondo, della natura.

La struttura dei capitoli 13 e 14

I due capitoli formano un'unità, costituita dalla critica all'idolatria.
Il brano 13,1-9 inizia con questa valutazione: vuoti per natura sono tutti quegli uomini presso i quali c'è l'ignoranza di Dio. Si usa il termine "màtaioi", che significa vuoti, inconsistenti. Il testo CEI, meno fedelmente, traduce con "stolti". Sono vuoti perché ignorano l'unico Dio, al posto del quale si sono creati molti dei, conoscono solo degli idoli, delle apparenze.
Poi si spiegherà perché questi uomini sono vuoti.
Il brano 13,10 - 14,11, è una critica sarcastica all'adorazione dei manufatti umani.
Al versetto 10 del capitolo 13 troviamo un altro giudizio, ancor più duro. Sono dei "talaìporoi" dei tapini, dei miserevoli, degli infelici. Sono quelli le cui speranze sono riposte in realtà morte.
Prima sono chiamati "vuoti" quelli presso i quali c'è l'ignoranza di Dio, c'è l'adorazione della natura.
Adesso invece sono "tristi" perché adorano i manufatti umani, l'opera delle mani dell'uomo. L'uomo adora ciò che fa.
L'idolatria del primo tipo è l'idolatria del mondo nella sua bellezza, idolatria che deriva dalla fascinazione della bellezza, che fa diventare gli uomini come dei pianeti. "Planètes" in greco vuol dire l'errante, colui che erra nella sua ricerca. I pianeti sono chiamati così perché errano nel cielo. Questi uomini sono "pianeti" che errano nella ricerca di Dio. Lo cercano con buona intenzione, ma non lo trovano perché escono di strada. Trovano le apparenze divine.
In Egitto, sotto Amenophi III e IV, si è sviluppata una forma monoteistica, l'adorazione del disco solare, contro la religione tradizionale del Dio Amon. E' stata una grande rivoluzione religiosa, poi travolta dal sopravvento della ripresa della religione tradizionale.
L'ebreo di Alessandria, autore del libro, ha molta comprensione per queste religioni astrali, mentre ne ha molta meno per le religioni che sono adorazioni dei manufatti umani. Là erano le opere di Dio che erano adorate: il cielo, il sole, la luna, le stelle, la bellezza della natura (riconoscono le opere ma non hanno riconosciuto l'artefice); qui invece sono le opere dell'uomo, dell'artista umano, che ha creato gli idoli, le statuette di legno o di pietra. Sono opere della sophìa umana, della capacità artigianale.
Nella polemica, in genere, non si rende giustizia della posizione contraria, si fa spesso di ogni erba un fascio.
L'autore sceglie la via più comoda nella denuncia del politeismo. Sostiene infatti che i politeisti adorano il pezzo di legno o la pietra. In realtà non adoravano il pezzo di legno, o la pietra, che erano ritenuti invece simboli della realtà divina, segni della presenza del Dio. E' una polemica popolare, efficace, ma un po' ingiusta.
La denuncia molto forte e sarcastica prosegue sino al capitolo 14,11.
Allora vuoti sono gli adoratori del mondo, della creazione e invece tristi, miserabili gli adoratori dei manufatti umani.
In 14,12-21 si mostra l'origine dell'idolatria, della vanagloria, dello splendore vuoto, la "kenodòxia".
In 14,22-31 sono mostrate le conseguenze morali dell'idolatria: l'ignoranza di Dio porta come conseguenza un errare anche nella vita morale.

analisi del testo

Davvero stolti per natura tutti gli uomini
''che vivevano nell'ignoranza di Dio.
Nel testo greco c'è un gar, un "infatti". Ci si ricollega al brano che precede, per darne una certa spiegazione. Si parla degli egiziani che sono puniti e che sono ricondotti attraverso la punizione divina alla credenza in un unico Dio. Per questo si abbatté su di loro il supremo dei castighi (le piaghe), quale mezzo di correzione. Gli egiziani, politeisti, sono stati giustamente puniti perché sono vuoti nella loro ignoranza di Dio.
Adesso spiega in che consiste l'ignoranza del Dio, sia negativamente (quello che non hanno fatto) che positivamente.

e dai beni visibili non riconobbero colui che è,
"Ágathoi", sono le cose belle e anche buone. Per la prima volta degli ebrei valorizzano l'estetica, cioè la percezione del bello e del buono. Dalle cose belle e buone visibili non furono in grado, non ebbero la forza, di comprendere "ton onta", colui che è. E' una definizione di Dio tipicamente greca, ontologica. Nella traduzione greca, anche quando Dio si manifesta a Mosé nel roveto ardente si presenta come "colui che è". Nella versione ebraica invece meglio sarebbe tradurre con: io sarò colui che sarò.

non riconobbero l'artefice, pur considerandone le opere.
Andando dietro alle opere di Dio, non riconobbero "ton teknìken", colui che ha la tecnica, l'arte del fare. L'arte divina del fare è la creazione. Dalle opere, da quello che è fatto, non seppero riconoscere l'artefice. Si fermarono all'effetto senza risalire alla causa.
Sono vuoti perché non fecero questo passo dalle opere a colui che è.
Ma che cosa hanno fatto positivamente?

Ma o il fuoco o il vento o l'aria sottile
o la volta stellata o l'acqua impetuosa
o i luminari del cielo
considerarono come dei, reggitori del mondo.
"Enòmissan" (da "nomìzo"): diedero il nome di dei, dominatori del mondo, a queste realtà create. Quindi non arrivarono a Dio, all'artefice, ma arrivarono soltanto alle opere del Dio. Per questo sono "màtaioi", vuoti, inconsistenti, effimeri. Per induzione non sono passati dal creato al Creatore, ma si sono fermati alle cose, riconoscendole come dei.
Nei versetti 3.4.5 l'autore sostiene come questo loro errore, di aver adorato gli astri, le cose buone e belle del mondo, fosse possibile evitarlo, dato che esisteva la via, un processo mentale, per arrivare al creatore. E' una critica sul piano filosofico, del pensiero. La via è il passaggio dagli effetti alla causa. L'idolatria o il politeismo per l'ebreo è un erramento della mente.

Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dei,
Il tema della bellezza appare per la prima volta chiaramente. Sono "terpòmenoi", affascinati, abbagliati dalla bellezza delle cose. "Upelàmbanon" (è un imperfetto, non un aoristo: dice la continuazione di un'azione): andavano sempre prendendole come dei. Affascinati dalla bellezza le hanno divinizzate, le hanno considerate, le hanno prese in modo non genuino, attraverso un'operazione non limpida.

pensino quanto è superiore il loro Signore,
Se sono affascinati dalle cose, pensino quanto è superiore il loro Signore. E' una esortazione ad andare oltre, a ritrovare la via corretta, attraverso un ragionamento a fortiori. Le cose sono belle, però, a maggior ragione, sarà bello l'artefice. Se l'effetto è bello, lo sarà a maggior ragione la causa, il Signore.

perché li ha creati lo stesso autore della bellezza.
L'autore della bellezza ha creato queste cose. Mai un ebreo aveva parlato di Dio come creatore della bellezza. C'è l'estetismo ellenistico, l'adorazione del bello, delle forme perfette anche nell'arte. L'ebreo dà ragione all'essere affascinati dal bello, però sostiene che si deve pensare a quanto più bello deve essere l'autore delle cose belle. Il mondo non è l'emanazione di Dio, come sosteneva il pensiero stoico, di tipo immanentista, ma è creatura. Nella visione ebraica si afferma l'alterità tra il creatore e la creatura.
L'argomento ora viene ripetuto sul piano della forza, della potenza:

Se sono colpiti dalla loro potenza e attività,
Se sono colpiti (ekplaghèntes) nell'anima dalla "dùnamis", dalla potenza e dalla "enèrgheia", dalla energia operativa delle cose,

pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati.

A questo punto si sostiene che il passaggio dall'effetto alla causa è una legge del pensiero, un pensiero analogico in quanto la causa è superiore all'effetto.

Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature
per analogia si conosce l'autore.
"Analògos", in modo analogico, "theorèitai", si vede con la mente (mentre "orào" è il vedere con gli occhi, "theorèo" è il vedere con la mente). E' una filosofia di tipo induttivo, dall'effetto alla causa. La colpa consiste nella assenza di rettitudine del pensiero mentale.
A questo punto l'autore manifesta la propria comprensione per questi politeisti idolatri:

Tuttavia per costoro leggero è il rimprovero,
La forza di fascinazione del bello è tale per cui piccolo ("olìgo") è il rimprovero.

perché essi forse s'ingannano
C'è un'attenuazione con "forse": forse si ingannano, "planòntai", errano mentre cercano sinceramente e volonterosamente Dio:

nella loro ricerca di Dio e nel volere trovarlo.
Anche nella polemica si riconosce la buona volontà della ricerca e dello sforzo di trovare Dio.

Occupandosi delle sue opere, compiono indagini,
Cresciuti in mezzo alle opere della creazione, cercano, indagando, questo Dio

ma si lasciano sedurre dall'apparenza,
perché le cose vedute sono tanto belle.
Più che sedurre, si lasciano persuadere ("pèizo") da ciò che appare, perché le cose che si guardano ("ta blepòmena") sono belle.
Dopo aver espresso questa umana comprensione l'autore sostiene comunque che non sono scusabili:

Neppure costoro però sono scusabili,
perché se tanto poterono sapere da scrutare l'universo,
come mai non ne hanno trovato più presto il padrone?

Perché se furono in grado, ebbero la forza ("ìscusan") di comprendere tutto questo mondo, così da essere capaci ("dùnontai") di scrutare il mondo ("ton aiòn"), come è possibile mai che non abbiano trovato più presto il Signore? E' la sorpresa da parte di un ebreo, che ha tutta una tradizione di secoli e secoli di conoscenza di Dio. C'è comprensione ma anche riconoscimento della verità, del fatto che i politeisti sono dei pianeti erranti nel cielo dell'esistenza umana. E' anche qualcosa di drammatico l'essere pianeti erranti.

Passiamo ora al secondo brano che commenteremo più velocemente. La considerazione assume una colorazione ironica, sarcastica, con una critica a volte un po' banale, a differenza della prima, più intelligente e obbiettiva.

Infelici sono coloro le cui speranze sono in cose morte
Si noti l'ironia della speranza in cose morte: se uno è morto non può essere fonte di speranza.

e che chiamarono dèi i lavori di mani d'uomo,
Mentre nel primo brano si sostiene che chiamarono dei le opere del creatore, qui invece chiamarono dei "èrga cheiròn anthròpon", le opere delle mani umane.

oro e argento lavorati con arte,
e immagini di animali,
oppure una pietra inutile, opera di mano antica.
Adorarono le pietre arcaiche, le figure divine, le rappresentazioni zoomorfe della divinità. E' una critica un po' banale e non veritiera.

Se insomma un abile legnaiuolo,
(Neppure un artista, ma un legnaiuolo)
segato un albero maneggevole,
ne raschia con diligenza tutta la scorza
e, lavorando con abilità conveniente,
ne forma un utensile per gli usi della vita;
raccolti poi gli avanzi del suo lavoro,
li consuma per prepararsi il cibo e si sazia.
Quanto avanza ancora, buono proprio a nulla,
legno distorto e pieno di nodi,
lo prende e lo scolpisce per occupare il tempo libero;
senza impegno, per diletto, gli dá una forma,
lo fa simile a un'immagine umana
oppure a quella di un vile animale.
(sia forme zoomorfe che antropomorfe)

Lo vernicia con minio, ne colora di rosso la superficie
e ricopre con la vernice ogni sua macchia;
quindi, preparatagli una degna dimora,
lo pone sul muro, fissandolo con un chiodo.
Ecco l'ironia: la statua del dio non riesce neppure a stare in piedi da sola.

Provvede perché non cada,
ben sapendo che non è in grado di aiutarsi da sé;
esso infatti è solo un'immagine e ha bisogno di aiuto.

Ecco: "eidòtes oti adunatèi": è l'impotenza. Mentre nel primo brano si diceva che se le cose del mondo sono potenti è sicuramente più potente colui che le ha fatte, qui la potenza è potenza come capacità di salvare, di aiutare, è una potenza soteriologica. Sono dei impotenti a salvare.
Da una considerazione ontologica di Dio, di Dio come colui che è, come "tecnìtes", come causa del mondo, si passa ad una considerazione soteriologica, a Dio come principio della salvezza. Dio non è solo il creatore ma il salvatore.
Da un punto di vista ontologico, le cose del mondo non possono essere dèi perché sono delle creature, dal punto di vista soteriologico le divinità non sono divinità reali perché non sono capaci di aiutare, non hanno la forza.

Eppure quando prega per i suoi beni,
per le sue nozze e per i figli,
non si vergogna di parlare a quell'oggetto inanimato;
Preghi un oggetto "apsùcho", senza anima, priva di principio vitale.

per la sua salute invoca un essere debole,
("astenès", debole. Paolo dirà che la cosa che appare più debole, "astenès", agli uomini è la croce di Cristo: Cristo è impotente, inchiodato. Ma proprio ciò che è "astenès" secondo il metro della valutazione umana è il potente a salvare. In questo caso invece l'astenès è la debolezza soteriologica, l'impotenza a salvare).

per la sua vita prega un morto:
per un aiuto supplica un essere inetto,
per il suo viaggio chi non può neppure camminare;
per acquisti, lavoro e successo negli affari,
chiede abilità ad uno che è il più inabile di mani.

Anche chi si dispone a navigare e a solcare onde selvagge
implora un legno più fragile della barca che lo porta.
Nelle navi - allora la navigazione era molto più perigliosa, piena di rischi, di possibilità di naufragi - a prua o a prora venivano collocati degli idoli, delle immagini divine verso cui i naviganti si rivolgevano nella tempesta.

Questa, infatti, fu inventata dal desiderio di guadagni
e fu costruita da una saggezza artigiana;
("sophìa teknìtis", dalla sapienza e dalla abilità manuale)

ma la tua provvidenza, o Padre, la guida
Ma la "prònoia", la provvidenza di Dio guida, "diakuberna" le navi. La sapienza, abbiamo visto ieri, è come il pilota della nave nel mare periglioso. Qui è Dio.

perché tu hai predisposto una strada anche nel mare,
Il richiamo in questo caso è all'esodo, quando Dio tracciò una strada nel mare ai figli di Israele:

un sentiero sicuro anche fra le onde,
mostrando che puoi salvare da tutto,
sì che uno possa imbarcarsi anche senza esperienza.
Dio ha una capacità soteriologica, può salvare da tutto, da ogni pericolo. Il Dio è colui che ha la capacità salvifica, non è solo colui che possiede l'essere assoluto, increato. Mentre gli dei sono impotenti.

Tu non vuoi che le opere della tua sapienza siano inutili;
per questo gli uomini affidano le loro vite
anche a un minuscolo legno
e, attraversando i flutti con una zattera, scampano.
Anche in principio, mentre perivano giganti superbi,
(è un richiamo a Genesi 6, ai giganti nati dall'unione dei figli di Dio con le figlie degli uomini)
la speranza del mondo, rifugiatasi in una barca,

 (la speranza del mondo è Noè, la barca di Noè)

lasciò al mondo la semenza di nuove generazioni,
grazie alla tua mano che la guidava.
E' benedetto il legno con cui si compie un'opera giusta,
(questo legno è l'arca con cui Dio ha salvato l'umanità)
ma maledetto l'idolo opera di mani e chi lo ha fatto;
(non si parla espressamente di idolo, ma di "cheiropoìeton", del manufatto e dell'artefice che l'ha fatto)
questi perché lo ha lavorato,
quello perché, corruttibile, è detto dio.
"Fthartòn" è il corruttibile, cioè tutta la realtà creata, mentre Dio è l'incorruttibile, "afthartòn", colui che non soggiace alla corruzione e alla morte. Questa contrapposizione tipicamente greca è assunta da Paolo al capitolo 15 della Prima lettera ai Corinzi, quando parla della resurrezione dei corpi dice: il corruttibile indosserà l'incorruttibile e il mortale indosserà l'immortalità.
Hanno operato un processo incomprensibile, di ritenere come Dio ciò che è corruttibile.

Perché sono ugualmente in odio a Dio
l'empio e la sua empietà;
(essere in odio vuol dire essere respinte da Dio)
l'opera e l'artefice saranno ugualmente puniti.
(una punizione che è anche correzione)
Perciò ci sarà un castigo anche per gli idoli dei pagani,
Ci sarà una "episkopè", una visita di punizione per gli idoli delle genti. Gli ebrei si ritenevano il popolo, mentre gli altri "etnè", "goîm", le genti. Gli idoli, "eidòlos", sono le apparenze.

perché fra le creature di Dio son divenuti un abominio,
e scandalo per le anime degli uomini,
laccio per i piedi degli stolti.

 "Afrònon", gli stolti, coloro che mancano della "frònesis", del processo mentale di riflessione. La sapienza è il processo mentale di conoscenza delle cose, del senso delle cose. 

C'è un bel testo nella seconda lettera ai Corinzi di Paolo, in cui si usa il termine "àfron". A Corinto c'erano degli oppositori di Paolo che si vantavano delle loro imprese apostoliche e che riscuotevano una grande ammirazione. Paolo, che non può vantarsi delle sue imprese, perché tutto è grazia in lui, essendo un miserabile, un nulla umanamente, dice: "lasciatemi fare un colpo di pazzia, comprendete, tollerate che io sia un "àfron", un insensato, in modo che mi possa vantare per tener testa agli oppositori. Ma in fondo io mi vanto per le mie debolezze, perché la potenza salvifica, che si esercita in me in quanto annunciatore del vangelo, è di Dio e non mia".

L'invenzione degli idoli fu l'inizio della prostituzione,
"Porneia", la prostituzione. Gli ebrei hanno sempre collegato la prostituzione religiosa con la prostituzione sessuale, anche perché la prostituzione sessuale aveva un significato religioso, come, ad esempio, le nozze sacre tra la sacerdotessa e il Dio per impetrare la fertilità e la fecondità.

la loro scoperta portò la corruzione nella vita.
la loro scoperta portò la corruzione nella vita.
Essi non esistevano al principio né mai esisteranno.
Entrarono nel mondo per la vanità dell'uomo,
per questo è stata decretata per loro una rapida fine.
Un padre, consumato da un lutto prematuro,
ordinò un'immagine di quel suo figlio così presto rapito,
e onorò come un dio chi poco prima era solo un defunto
ordinò ai suoi dipendenti riti misterici e di iniziazione.
Poi l'empia usanza, rafforzatasi con il tempo,
fu osservata come una legge.
Le statue si adoravano anche per ordine dei sovrani:
i sudditi, non potendo onorarli di persona a distanza,
riprodotte con arte le sembianze lontane,
fecero un'immagine visibile del re venerato,
per adulare con zelo l'assente, quasi fosse presente.
All'estensione del culto
anche presso quanti non lo conoscevano,
spinse l'ambizione dell'artista.
Questi infatti, desideroso di piacere al potente,
si sforzò con l'arte di renderne più bella l'immagine;
il popolo, attratto dalla leggiadria dell'opera,
considerò oggetto di culto
colui che poco prima onorava come uomo.
Ciò divenne un'insidia ai viventi,
perché gli uomini,
vittime della disgrazia o della tirannide,
imposero a pietre o a legni un nome incomunicabile.

Poi non bastò loro sbagliare circa la conoscenza di Dio;
Non bastò loro essere dei pianeti erranti circa la conoscenza di Dio. Non si sono limitati ad essere erranti nella conoscenza di Dio, ma
essi, pur vivendo in una grande guerra d'ignoranza,
danno a sì grandi mali il nome di pace.
C'è cioè un erramento nella moralità.

Celebrando iniziazioni infanticide o misteri segreti,
o banchetti orgiastici di strani riti
non conservano più pure né vita né nozze
e uno uccide l'altro a tradimento
o l'affligge con l'adulterio.
Tutto è una grande confusione:
sangue e omicidio, furto e inganno,
corruzione, slealtà, tumulto, spergiuro;
confusione dei buoni, ingratitudine per i favori,
corruzione di anime, perversione sessuale,
disordini matrimoniali, adulterio e dissolutezza.
L'adorazione di idoli senza nome
è principio, causa e fine di ogni male.
Gli idolatri infatti o delirano nelle orge o sentenziano oracoli falsi
o vivono da iniqui o spergiurano con facilità.

Ponendo fiducia in idoli inanimati
non si aspettano un castigo per avere giurato il falso.
Ma, per l'uno e per l'altro motivo,
li raggiungerà la giustizia,
perché concepirono un'idea falsa di Dio,
rivolgendosi agli idoli,
e perché spergiurarono con frode,
disprezzando la santità.
Infatti non la potenza di coloro per i quali si giura,
ma il castigo dovuto ai peccatori
persegue sempre la trasgressione degli ingiusti.

Sapienza 13-14 e Rom 1,18-25

L'intertestualità, cioè il confronto di un testo con un testo analogo da cui dipende, arricchisce e illumina il senso dei testi.

Romani 1,18-25:

In realtà l'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia, 19poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. 20Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; 21essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. 22Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti 23e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili.
Perciò Dio li ha abbandonati all'impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, 25poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen.

Paolo riprende diversi motivi di questi due capitoli del libro della Sapienza: i pagani hanno adorato il mondo e non hanno riconosciuto l'artefice del mondo. Paolo imputa al paganesimo del suo tempo lo stesso errare. In Paolo c'è un fatto nuovo: concede ai pagani di avere conosciuto Dio. Non solo la mente umana ha la possibilità di conoscerlo passando dagli effetti alla causa attraverso un processo logico, ma di fatto è giunta a conoscerlo. Paolo ha presente le forme più alte della filosofia greca, che non ha adorato il mondo, ma dal mando è giunta al motore immobile, a colui che fa muovere tutto.
L'autore della Sapienza denuncia il politeismo del tempo.
Per Paolo i pagani hanno conosciuto Dio, ma non lo hanno adorato. Hanno avuto solo una conoscenza teorica, non pratica. "Non gli hanno reso grazie" e hanno adorato il vuoto. Di qui la perversione, soprattutto quella sessuale, che per l'ebreo Paolo è l'omosessualità: si è messo da parte l'uso naturale della sessualità e si sono volti i maschi a unirsi con maschi e parimenti le donne ...
L'omosessualità per l'ebreo era un'abominazione, non tanto per un tabù, ma perché ogni confusione di ciò che è distinto rappresenta il male. La creazione, che è un ordinamento del mondo, è la separazione, della terra dal cielo, delle cose asciutte dalle cose bagnate, del giorno dalla notte.
L'ebreo inorridiva quando un maschio si vestiva da femmina.
L'omosessualità per l'ebreo non era solo una questione morale, ma l'irruzione nel mondo ordinato del caotico. Nel diluvio il caos ha travolto il mondo.
Il testo di Sapienza viene chiarito e arricchito dal testo di Paolo, che chiaramente dipende dal primo.

Una breve conclusione.

1. Il politeismo è l'effetto di una fascinazione delle cose. L'uomo è affascinato dal mondo, è sedotto da ciò che appare, da ciò che luccica, da ciò che abbaglia. E' una critica, in una lettura "laica", non solo ad una errata visione religiosa, ma all'arrestarsi al mondo delle apparenze. E' una critica particolarmente pertinente in una società come la nostra, nella quale l'occhio è in primo piano (è la società delle apparenze, delle immagini), in cui trionfa la televisione, la "visione", il fascino di ciò che appare. E' una critica all'atteggiamento superficiale di chi non va oltre la superficie, le apparenze, di chi non procede da ciò che appare a ciò che è.
2. La idolatria è anche una schiavitù verso il mondo: l'uomo si assoggetta al mondo, non solo alle opere di Dio, ma anche alle proprie opere. L'uomo si fa servo delle cose, di altri uomini. L'uomo si crea i suoi dei, perché ha un'anima di servo. Il servo crea il padrone. Non ci sarebbe padrone se non ci fossero i servi. Non è il padrone che rende l'uomo servo, ma è il servo che crea il padrone, che si crea il suo padrone, davanti a cui piegare le ginocchia. La piaggeria, il servilismo sono una forma laica dell'idolatria.

Da questo punto di vista, nel nostro mondo, in cui si esalta la libertà del soggetto, le forze del servilismo sono più forti. E' più forte il desiderio di un padrone che ci domini, ma che ci rassicuri. Come nell'idolatria le immagini a cui ci si rivolge sono "i morti" a cui il vivo chiede aiuto.
Questi testi costituiscono un invito a mantenere la nostra libertà, a uccidere in noi il servo, a uccidere in noi il padrone, a non piegare le ginocchia di fronte a nessuno, a adorare solo colui che è, il "teknìtes", il creatore del mondo.
Sono testi di grande valore non solo religioso ma anche umano, perché colgono alcuni meccanismi umani che non sono solo di quegli uomini antichi, ma che restano nella storia, in noi, attorno a noi. La critica di questo anonimo giudeo di Alessandria del 70 a.C. è una parola provocatrice per noi oggi.

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