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Ecumenismo e culture lungo la storia

sintesi della relazione di Mario Cuminetti
Verbania Pallanza, 14-15 gennaio 1989

Agli inizi il rapporto cristianesimo e culture è vissuto come sforzo di degiudaizzare il cristianesimo in vista della costruzione di una religione universalistica capace di essere accettata da tutti i popoli. Oggi il problema si pone in termini nuovi ma le impostazioni e le soluzioni adottate nei primi tre secoli avranno conseguenze sino ad oggi. il tema sarà svolto tenendo conto 1) della problematica soprattutto presso i padri apologisti Giustino e Clemente Alessandrino; 2) confronto con la religiosità allora dominante; 3) soluzione per cui il cristianesimo si presenta come vera religio all'interno di quella società in cui non c'era ancora distinzione tra religione e politica e perciò la soluzione diventa anche politica e porta all'intolleranza, segnando la vita della chiesa sino ad oggi.
È possibile fare anche un'altra lettura dell'intolleranza nel cristianesimo rispetto al diverso nel momento in cui diventa religione con conseguenze soprattutto per coloro che dissentivano: se per i non cristiani c'era il ghetto, per coloro che erano accusati di eresia c'era la morte.
Nel momento in cui il cristianesimo è minoranza ed è perseguitato, Tertulliano, fine del secondo secolo, nel secondo capitolo del libro Ad scapulam, scrive: "È un diritto umano e di natura che a ciascuno sia consentito di venerare ciò in cui si crede. La religione non può nuocere né essere dannosa all'altro e poi non è della religiosità costringere alla religione, che deve essere accettata spontaneamente e non con la forza perché i sacrifici non sono chiesti che volontariamente, così che anche se ci costringete a sacrificare, niente di meritevole farete verso i vostri dei. Essi non desiderano sacrifici contro voglia a meno che non siano litigiosi, ma Dio non può essere litigioso". E Lattanzio nello stesso periodo scrive: "È solo la religione il posto dove la libertà ha posto il suo dominio. Fra tutte è la cosa più volontaria, né la necessità può imporre a qualcuno di adorare ciò che non vuole".
Due secoli dopo, quando il cristianesimo è riconosciuto come unica religione, le posizioni cambiano. L'imperatore Costanzo al vice prefetto del pretorio nel codice Teodosiano: "Abbia fine l'idolatria, si abolisca la demenza dei sacrifici, a chi in violazione della legge del divino Principe nostro genitore (Costantino) e del presente divieto emesso dalla nostra clemenza oserà celebrare sacrifici, sia inflitta la pena adeguata e una sentenza di immediata applicazione". Sempre Costanzo: "Desideriamo che i templi siano immediatamente chiusi in tutti i luoghi e in tutte le città, è vietato l'accesso, sia negata ai dementi l'occasione di commettere reato. Vogliamo inoltre che tutti si astengano dai sacrifici, ma se per caso qualcuno commetterà un reato di questo genere, sia abbattuto da spada vendicatrice. Decretiamo inoltre che le proprietà del giustiziato siano confiscate a favore del fisco e la stessa pena sia inflitta ai governatori delle province se avranno trascurato di punire simili reati". Chi pensa diversamente è demente e se segue la sua religione commette reato punibile con la pena capitale.
Nei Padri inoltre è sempre più viva la visione dell'universalità del cristianesimo (Agostino: Avete inteso ciò che dice il Vangelo: quando verrà riunirà i suoi eletti dai quattro venti, quindi li riunisce da tutto l'universo...; il desiderio di universalità è presente già in Erma, all'inizio del secondo secolo; S. Gregorio di Nazianzo presenta l'attuazione progressiva del piano di Dio nel cammino dagli idoli alla Trinità, che coinvolge tutta l'umanità). Alla base c'è la concezione del cristianesimo come unica religione universale a cui lentamente tutti devono arrivare.

1. gli apologisti

La prima costruzione teologica e filosofica è quella degli apologisti, nel secondo secolo, che si sforzano di rendere appetibile il cristianesimo presso le classi colte dell'Impero che tendevano a disprezzare il cristianesimo. Il cristianesimo si sta diffondendo nelle città e gli apologisti elaborano strumenti che serviranno per risolvere il conflitto con il giudaismo, con la filosofia greca allora dominante e con l'impero romano. Non prendiamo in considerazione, anche per la scarsità delle ricerche, la diffusine del cristianesimo tra il popolino.
Nel secondo secolo dominava lo gnosticismo e l'eresia di Marcione (che voleva cancellare l'AT). Gli apologisti elaborano contro il dualismo gnostico e marcioniano una teologia della storia di tipo progressivo che mira ad affermare l'unitarietà e l'unicità del disegno salvifico opera di un unico Dio che inizia sia presso i popoli pagani che presso il popolo di Israele e culmina nel cristianesimo.
Giustino fa lo sforzo grandioso di agganciare a Cristo sia la cultura pagana, sviluppando la dottrina del logos, sia il patrimonio giudaico attraverso l'interpretazione tipologica dell'AT. In Cristo e nella chiesa si realizza ciò che i saggi pagani hanno faticosamente cercato e a volte intravisto, e soprattutto si realizza ciò che era celato in figura negli eventi e nelle parole dell'AT.
Nella prima Apologia: "Coloro che hanno vissuto secondo il Verbo, anche senza conoscerlo, sono cristiani pur essendo fatti passare per atei, come presso i greci Socrate, Eraclito e i loro simili e presso i barbari Abramo, Anania, Ismaele, Elia e tanti altri di cui sarebbe troppo lungo citare qui le azioni e i nomi... Ogni anima che testimonia per il bene e il meglio in questo momento è partecipe del Verbo, lo sappia o non lo sappia".
Nella seconda Apologia, cap. 13: "Gli stoici hanno stabilito principi giusti in morale, i poeti ne hanno pure parlato perché il seme del Verbo è innato in tutto il genere umano. La nostra dottrina però supera ogni vera dottrina umana perché noi abbiamo tutto il Verbo di Cristo, loro solo in parte; è apparso per noi in corpo, Verbo e anima. Tutti i principi giusti che i filosofi e i legislatori hanno scoperto ed espresso lo devono a ciò che hanno trovato e contemplato parzialmente del Verbo. Tutto ciò che essi hanno detto di buono appartiene a noi cristiani. Gli scrittori hanno potuto vedere oscuramente la verità grazie al seme del Verbo che è stato posto in loro, ma altra cosa è possedere un seme ed una somiglianza proporzionale alle proprie facoltà, un'altra cosa è la realtà stessa la cui imitazione e partecipazione procedono dalla grazia che viene da lui".
In Giustino c'è inoltre la teoria dei prestiti e cioè che le verità conosciute dai pagani sono prestiti fatti a loro dalla Rivelazione. La Rivelazione è quindi precedente a quanto è accaduto storicamente.
Ecco quindi la concezione dell'ecumenismo nei primi secoli: tutto converge verso Cristo; quello che c'è di nuovo non ha una sua autonomia, ma è già parte di lui; la missione cristiana è convertirsi tutti a Cristo; quindi occorre elaborare una teologia che, sapendo cogliere il meglio della cultura e della filosofia dominanti, faccia sì che il cristianesimo possa essere accettato da tutti.
Il limite di questo ecumenismo è ritenere che esista una sola religione, quella cristiana, a cui tutti devono aderire. C'è però la visione del Verbo e di Dio presente in tutti i popoli.
Il problema ecumenico è quello della universalizzazione del cristianesimo, del modo di presentarlo sul piano teologico e culturale. Chi non accetta il cristianesimo quando ne viene a conoscenza significa che non ha in sé il Verbo, che lo rinnega.
La ricerca di un cristianesimo valevole per tutti sottende il pericolo che quel linguaggio e quel modo di presentare il cristianesimo acquistino una assolutezza che non hanno. Infatti si darà alla formulazione del cristianesimo, al suo diventare religione, l'assolutezza del kerygma. Si identifica l'assolutezza del kerygma, cioè l'annuncio che Dio ci ama e ci ha salvati, con un certo rivestimento culturale. Di modo che accettare il cristianesimo significa accettare quel tipo di formulazione del cristianesimo. È l'errore in cui anche noi siamo caduti quando abbiamo voluto imporre il cristianesimo occidentale altrove.
È vero che l'universalismo cristiano non si configura al di sopra della storia, che deve esserci uno sforzo positivo per incarnare quel messaggio in modo che, assumendo le tensione della storia, sia parola comprensibile dalle diverse situazioni, però resta altrettanto vero che il suo rapportarsi alle convinzioni religiose esistenti porta il cristianesimo a presentarsi come unica vera religione non nell'essenza del kerygma, ma nell'insieme di riti, di modi di pensare, di etica.
Le fede deve religiosizzarsi, prendere forma storica, ma qui è la forma religiosa che diventa la vera religio, l'unico modo di presentarsi del cristianesimo. Era possibile un'altra via all'interno di quella cultura, oppure l'affermarsi come religio era l'unico modo di essere riconosciuto dallo stato, uscendo da una situazione di insicurezza e di instabilità? Il rapporto cristianesimo-cultura nei primi secoli era complesso per la preoccupazione di integrare i dati filosofici culturali, mantenendo insieme la distinzione dello specifico della fede; questo sforzo non sa evitare il rischio di una deescatologizzazione dell'annuncio, assolutizza l'annuncio nel presente, identifica la chiesa con i modi penultimi di vivere la fede in quella situazione di cultura. L'ultimità dell'annuncio, il Cristo salvatore, viene confusa e identificata con il tipo di soluzione di vita, che la chiesa ha assunto in quei tempi, lo fa diventare unico vero.
Le conseguenze di questa impostazione sono: la configurazione storica presa dal concetto di fede sotto l'influenza dell'ellenismo e con la preoccupazione di rendere aperto a tutti il messaggio, si identica con le categorie religiose dell'ambiente. La religione non appare più come aspetto necessario, ma sostanzialmente secondario, rispetto al kerygma. Non si va ad annunciare il kerygma che poi farà il suo cammino, ma si va ad annunciare una configurazione storica che ha preso il cristianesimo. Quel tipo di religiosizzazione in quella società deve assumere per forza una forma politica per cui poi sarà imposta con la violenza dalla autorità politica. Dapprima assume la problematica religio vera, religio non vera, quindi nessuna via diversa, diventa esclusivista, esclusivismo difeso e affermato con la forza politica. Questa soluzione arriva fino al Vaticano II intralciata solo dalla reazione, dall'umanesimo e dall'illuminismo in poi, di tipo laico condannato dalla chiesa.

2. confronto con la religiosità allora dominante

confronto con i culti locali
Nella storia delle religioni c'è una distinzione classica tra religioni profetiche, che presentano una verità, e religioni legate in modo indissolubile alla organizzazione sociale, per le quali è dominante non la fede, ma il culto, la pratica. Queste ultime non mirano a fare proseliti ma fanno parte dell'ordinamento sociale. La maggioranza dei pagani che si converte al cristianesimo nei primi secoli in realtà essenzialmente cambia il culto, più che convertirsi. Il passaggio al cristianesimo non è vissuto come accesso alla verità. Il monachesimo sorge anche in relazione a questo fatto, non è solo rifiuto della politicizzazione del cristianesimo, ma anche protesta contro il cambiamento solo formale di fronte alla conversione esigita dal cristianesimo.
Nelle religioni tradizionali elemento essenziale è la pratica, il fare certe cose e non il credere o non credere come per le religioni profetiche.
Quando un popolo, come quello romano, dedito a culti tradizionali, occupava un territorio dove ne vigevano altri, li incamerava allargando il Pantheon. Era un'adesione, non una conversione, un mutamento del modo di agire e di pensare come quello esigito dal cristianesimo.
Quando si passava da una religiosità all'altra non c'era una nuova forma di vita, cambiamenti radicali. Tuttavia nel secondo secolo si afferma un tipo di filosofia, quella stoica, che si avvicina alla religiosità e che insegna un modo di vita superiore. Per capire certe verità bisogna abbracciare un certo tipo di vita, compiere riti - i misteri - che fanno approfondire la conoscenza della verità. Da un lato quindi ci sono i culti, dall'altra delle filosofie religiose.
confronto con la religiosità politeistica con valenza civile e politica
Tertulliano e Origene tengono conto di questa dimensione civile e politica e diranno: solo il cristianesimo potrà mantenere l'unità dell'impero. È una concezione ancor viva oggi: vivere bene la religione significa ordine nella vita civile. Il mistero della croce non c'entra più. Quando il cristianesimo adotta la funzione civile che avevano i culti e le religioni di allora rinuncia alla dialettica paolina tra scienza del mondo e scienza di Dio, per cui la croce è pazzia.
Il cristianesimo veniva perseguitato quando rompeva l'unità politica e civile dell'impero disprezzando il culto all'imperatore. La politica religiosa romana non poneva ostacoli al diffondersi di altre religioni, purché non disprezzassero il culto imperiale. Gli apologeti cristiani presentarono il cristianesimo come religione favorevole all'impero e strumento di unità in esso.
Nel secondo secolo il punto di riferimento è Marco Aurelio, imperatore dotto e inquieto. Nell'imminenza della crisi dell'impero romano, esteso a tutto il mondo conosciuto, la gente cerca sicurezza e pace anche interiore. Zeus ed Athena non bastano più per offrire protezione. Acquista importanza l'astrologia. Si ritiene che tutto il mondo sia dominato dalla dea fortuna che influenza non solo il mondo cosmico ma anche quello umano. L'uomo per la prima volta si sente soggetto ad una legge universale. Dice Marco Aurelio: "Io, straniero ed impaurito, in un mondo che non feci". Da qui nasce il rivolgersi ai misteri e alla religiosità gnostica e filosofica. Si sente l'esigenza non più solo di culti, ma si una fede e di atti - noi diremmo sacramenti - volti a porre un rapporto nuovo dell'uomo con il mondo che sovrasta. C'è una maggiore consapevolezza con una elaborazione di tipo filosofico la cui saggezza poteva dare la conoscenza di quello che avveniva e permettere di salvarsi.
La fisionomia culturale che assumerà il cristianesimo in questo periodo dipende da questa situazione. I misteri prendono il posto della razionalità, dominante nel mondo ellenistico e romano del primo secolo. La filosofia assume valenze religiose, preoccupata di dare alla vita uno scopo da perseguire. I maestri di queste filosofie, come Pitagora, diventano quasi i santi dell'antichità.
Harnach in Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli mette in luce le somiglianze tra cristianesimo ed ellenismo: "Separazione netta tra anima, spirito e corpo (che non è biblica) e stima più o meno esclusiva dello spirito. Secondo, separazione netta tra Dio e il mondo e distruzione del concetto primitivo ed ingenuo circa la loro reciproca appartenenza ed unità. Come conseguenza delle suddette separazioni la sublimazione della divinità e svalutazione del mondo. La redenzione è intesa principalmente come redenzione dal mondo, dalla carne, dal finito, dalla morte, quindi il mondo come realtà da cui uscire. Poi la convinzione che alla vita eterna, fine supremo di ogni redenzione, si ascenda solo per virtù di conoscenza (di qui lo gnosticismo di cui il cristianesimo assumerà alcuni aspetti). Anima, Dio, conoscenza, espiazione, ascesi, redenzione, vita eterna ed in corrispondenza di ciò individualismo, umanesimo in luogo del nazionalismo... Non v'era in quel tempo religione vera che non respirasse quest'atmosfera di esperienze e di tensioni".
Il processo cristiano di universalizzazione è pregno di queste categorie.
I romani ritenevano di possedere una grande religione, intesa come il compimento in pubblico di certi riti all'insegna del do ut des , come disposizione costante a rispondere con il culto a qualsiasi indizio di turbamento del rapporto abituale con gli dei, sia ad adempiere a certi impegni una volta che siano assunti. La religione romana è basata sulla fedeltà a certi riti e su uno scambio: assumo questo e ti do questo. Questo carattere utilitaristico della religione entra poi nel cristianesimo soprattutto a livello popolare, il culto come dare qualcosa a Dio in cambio di altro. Ma affermare, come si fa, che il cristianesimo è il "vero culto" è mettere al centro ciò che l'uomo compie e non l'iniziativa divina.
L'uomo dell'antichità sentiva il divino non tanto come trascendente, ma come una potenza che circonda l'uomo e che si rivela continuamente. L'elaborazione del cristianesimo di allora non è molto lontana da questo concetto di rivelazione. La stessa rivelazione di Gesù Cristo non è legata al momento unico della morte e resurrezione, ma all'interno della visione del divino che abbraccia l'uomo e si fa conoscere.
Non era possibile allora, pena non inglobare le varie religioni e concezioni circostanti, quello che noi oggi diciamo e cioè che Gesù Cristo mette in crisi quel tipo di religiosità che guadagna con le proprie forze.
sacralizzazione del cristianesimo
Il Nuovo Testamento ignora il sacerdozio, ignora il sacro, non applica il sacerdozio ad una casta, e afferma che Cristo è sacerdote in quanto offre la sua vita. Nel cristianesimo, già verso la fine del secondo secolo, il sacro ritorna, l'eucarestia è il sacrificio, il sacerdozio è qualcosa di sacro: sono elementi pagani o veterotestamentari. Non è di per sé un male questa assunzione di elementi pagani, necessaria per parlare a quella cultura. È stato necessario usare categorie non provenienti dalla tradizione biblica per farsi comprendere. Un conto però è usare queste categorie delle religioni antiche, un conto è l'assolutizzarle e farle diventare chiavi di lettura del cristianesimo stesso. Le coordinate fondamentali del Nuovo Testamento passano in secondo piano.
Il concetto di rivelazione perde la centralità in quanto evento preciso nella storia; la religione si riduce a culto; ritorna il sacro e il sacerdozio sacrale... Non è poi un caso che di escatologia a partire dal terzo secolo non si parli più, che il discorso sulla croce come dialettica tra sapienza del mondo e sapienza della croce sparisce e resta solo come ascesi individuale. Il cristianesimo è visto come lex, come l'insieme delle regole per ben comportarsi di fronte a Dio. Ci si allontana così dal messaggio del NT.

3. il cristianesimo come vera religio

Diventa fondamentale, come ultimo passo, dimostrare che il cristianesimo è vera religio. Centrale non è la fede in senso paolino, la fede che mi giustifica, la gratuità della salvezza, quanto la compatibilità di questa religione con l'impero romano. La fede sarà presentata come gnosi, conoscenza, e come paideia, qualcosa che conduce l'uomo, attraverso la conoscenza, alla liberazione. L'attuazione della gnosi è partecipazione alla divinità il processo cognitivo è visto come processo salvifico.
Clemente Alessandrino scrive : "Ora è tempo di dimostrare ai greci che solo lo gnostico è veramente religioso, affinché i filosofi riconoscano qual è la natura del vero cristiano e scoprano con vergogna la loro stupidità imbrigliati dalla quale essi perseguitano il nome di cristiano e chiamano ingiustamente atei coloro che invece hanno riconosciuto il vero Dio". La fede nella sua paradossalità è neutralizzata.
Il civis romanus, il cittadino di Roma, diventa progressivamente il civis christianus.
Permane lo sforzo di salvare il kerygma, ma si resta succubi della posizione religiosa, filosofica e culturale dell'epoca. Le coordinate non sono più quelle bibliche, ma quelle della religiosità presente.
Il processo di universalizzazione del cristianesimo, la coscienza che è una fede necessaria per tutti, arriva nel quarto secolo con Costantino e Teodosio al riconoscimento della religione come unica e necessaria alla vita dell'impero, all'unità e alla sua crescita.
Mentre gli apologeti si sforzano di superare tutte le altre religioni, senza il riconoscimento dello stato, lo sforzo dei Padri è quello non solo di presentare un concetto di Dio comprensibile per la ragione, ma anche di mostrare come questa nuova religione porta dei vantaggi allo stato, in vista di una alleanza tra cristianesimo e impero. Il cristianesimo si lascerà integrare nel sistema con un ruolo pubblico: i vescovi assumono un ruolo politico e civile. Cose essenziali del cristianesimo vengono messe in ombra.
Lo stesso Costantino ha un'idea di Dio neoplatonica, ma considerava il suo modo di pensare come una conversione al cristianesimo proprio perché le categorie con cui si era universalizzato il cristianesimo erano categorie ellenistiche e neoplatoniche.
Per i cristiani il riconoscimento da parte dell'imperatore significava essere liberi di professare la fede, potere riunirsi di nuovo nelle case in maniera ufficiale per rendere il culto a Dio e potere pubblicamente celebrare Gesù Cristo (la chiesa allora era ancora la domus, dopo incominciano le basiliche). Il cristianesimo assume una funzione analoga a quella degli altri culti. Il clero assume una funzione decisiva sia per le responsabilità di culto, che comprendeva una preghiera per l'imperatore, sia come rappresentante della religione cristiana di fronte allo stato. Si incomincia ad affermare quel tipo di religiosità arrivata fino a noi in cui il clero ha la funzione particolare di rappresentanza civile e sociale. È attraverso queste modalità che la chiesa sarà inserita nello stato.
Con la decisione di Costantino la chiesa appariva ormai come la conclusione universale e storica, inframondana della storia dell'umanità, conclusione in cui si ricapitola tutta la tensione religiosa delle epoche anteriori.
La sintesi di Giustino qui si dilata in un significato politico molto più forte: non è solo l'unificazione delle religioni, ma dello stesso impero romano; diventa religione universale che si realizza attraverso l'impero romano. Lattanzio nel 320 scrive: "Senza religione la vita dell'impero affonda nel torbido della pazzia, del crimine, del disastro". È tutta una dimostrazione che fa appello alle argomentazioni che giustificavano i decreti degli imperatori. Prevale la concezione della religione come garante dell'ordine dell'impero e soprattutto delle masse popolari. Con ciò al cristianesimo spetta nella società antica una funzione moralizzatrice che opera come forza di conservazione dei diversi rapporti sociali e che però modifica il significato del messaggio biblico. Questo universalismo si realizza con una soluzione moralistica. La lettura della storia non è più in chiave religiosa come per gli apologisti, ma in chiave politica. Origene dice: "Dio ha preparato le nazioni alla nascita di Cristo riunendole sotto un imperatore romano e ciò faciliterà la realizzazione del mandato di Gesù: andate ed ammaestrate tutte le genti". C'è la coscienza di essere un popolo nuovo, per la cui affermazione hanno lavorato tutti, sia le religioni, sia le forze politiche, in particolare l'impero romano.
l'opposizione al cristianesimo
Non possediamo l'opera di Celso, ma attraverso il teso di Origene Contra Celsum è possibile ricostruire buona parte delle sue posizioni.
Origene, rispondendo a Celso, nei capitoli finali esprime l'idea che la chiesa debba essere in avvenire lo stato mondiale divino destinato ad accogliere l'impero romano, anzi l'umanità intera. La chiesa sta cancellando il regno di Dio e la dimensione escatologica presentandosi lei stessa come regno di Dio. Così scrive: "Se tutti fossero come noi, certo anche i barbari convertendosi alla parola di Dio diventerebbero tutti buoni e costumati e tutte le religioni finirebbero e la religione cristiana regnerebbe unica nel mondo e veramente un giorno essa regnerà unica poiché la parola guadagna sempre più anime".
Questo si realizza ufficialmente con Teodosio. Nel codice teodosiano si legge: "Noi vogliamo che tutti i popoli governati dalla nostra clemenza pratichino quel culto che, come dice la religione, l'apostolo Pietro ha trasmesso ai romani, e continua tuttora ad insegnare. Tale culto è guidato dal papa Damaso alla stessa maniera di Pietro e del vescovo di Alessandria, uomo di santità apostolica, perciò noi, secondo l'ordine dato dagli apostoli e secondo l'insegnamento del vangelo crediamo che esiste un'unica verità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in eguale maestà ed unica Trinità. Ordiniamo perciò che tutti coloro che seguono queste leggi abbiano il nome di cristiani e che invece gli altri, che noi consideriamo come stupidi ed impazziti, portino il marchio di dottrina eretica e le loro accozzaglie non vengano chiamate chiese. Essi riceveranno il contraccambio prima di tutto da Dio, ma poi anche dalla punizione di quel nostro atto di volontà che noi abbiamo concepito secondo il beneplacito di Dio".
La concezione trinitaria diventa una legge.
L'idea di Roma, dai tempi di Augusto, assume una impronta religiosa sempre più marcata per cui Roma non è solo il centro dell'impero ma dell'intero universo. È una mentalità attraverso cui si svilupperà l'idea stessa di papato. Anche i pagani avevano idee simili anche se non riguardavano il cristianesimo. Simmaco, nel quarto secolo, ha reagito con forza contro il riconoscimento del cristianesimo come unica religione ed afferma che ciò che ha fatto grande Roma sono il culto e la religiosità pagane. Il cristianesimo fa propria questa idea tipica della religiosità romana: è il nuovo culto che ha fatto di Roma la caput mundi.
Simmaco, Celso e poi l'imperatore Giuliano l'Apostata saranno gli unici a difendere la legittimità del pluralismo religioso e la legittimità delle differenze religiose. Giuliano l'Apostata afferma: "La molteplicità dei templi, dei riti, delle cerimonie sono l'espressione di una varietà dei sentimenti che sono la ricchezza dei popoli e che non possono essere ridotti all'unità".
L'unità fra impero e chiesa porta alla soluzione politica.
Il teologo Peterson, protestante convertitosi, ricorda che già Aristotile sostiene che un buon governo richiede un solo signore. Il potere deve essere unitario e scende da Dio attraverso l'imperatore che rappresenta Dio sulla terra. Il cristianesimo accetta questa impostazione: Dio regna, però non governa, ma affida il governo ad un unico imperatore per mantenere l'ordine nella società. È cancellato il gap tra Dio e mondo: c'è un solo popolo, un solo Dio, un solo imperatore. Facilmente questo concetto di monarchia, Dio, imperatore, chiesa, assume un significato politico, con l'appoggio politico all'universalizzazione. È il carattere politico del monoteismo.
Eusebio, vescovo consigliere di Costantino, porta a compimento questa visione. Parte dall'idea di Origene che la missione degli apostoli è stata facilitata dall'impero romano. Ha un atteggiamento nuovo verso i pagani. La polis è politeistica perché ogni stato nazionale è pluralistico e questo porta al disordine. Se noi facciamo sparire tutto questo regnerà la pace. È quello che ha fatto Augusto e che ha reso possibile il cristianesimo.
La nostra idea della religione come ordine, come pace, viene da lì.
Il monoteismo non è ormai più visto sotto l'ottica escatologica, ma sotto l'aspetto storico e politico,in quanto rende possibile l'unità di tutti i popoli nell'impero romano e nella chiesa. L'impero romano deve diventare nemico del politeismo perché esso crea gli stati nazionali in guerra tra loro. La monarchia dell'imperatore romano corrisponde all'unico monarca che c'è in cielo.
La teologia sottesa a queste concezioni in fondo deriva da Ireneo. Tutto è stato reso possibile dal venir meno dell'escatologia e dall'aver identificato la chiesa con la realizzazione del regno di Dio sulla terra. Si dimentica che il peccato è presente, che la chiesa è pellegrina.
Nel secondo secolo c'erano i pagani, i giudei e i cristiani; i cristiani erano contro il mondo percepito come il male. Poi cessa la dialettica fra chiesa e mondo perché tutto ormai fa parte di un'unica realtà. Il cambiamento è avvenuto perché l'attesa di Parusia che non arriva fa sì che la chiesa si istalli nel mondo come realizzazione compiuta delle promesse di Dio e quindi non si attenda più. È mancata la riflessine sul tempo intermedio nei primi secoli (del già e non ancora). Nella teologia dei primi secoli avviene che la chiesa è dissociata dal tempo del Gesù storico. È il Cristo escatologico che diviene la sua norma storica, ma con la coscienza di conoscerlo totalmente e così è possibile sostenere che i regni della terra cambiano ordine se vengono cristianizzati perché la chiesa è la realizzazione del Cristo escatologica sulla terra.
Viene cancellata la tensione escatologica della chiesa pellegrinante e quindi imperfetta, che cammina verso la verità, che non la possiede, perché la verità agisce anche al di fuori di lei. Se i regni della terra mutano ordine nel venire cristianizzati, i prìncipi convertiti che conducono la gente al cristianesimo sono garanzia dell'esistenza storica della chiesa e della cristianizzazione del mondo.
Mentre il NT usa categorie apocalittiche, afferma il potere di Satana nel mondo, sostiene che non è possibile servire due padroni, lentamente queste idee spariscono. Alla base di ciò è la convinzione che il potere di Cristo non sia un fatto escatologico che si manifesterà alla fine, ma già appartenga all'ordine storico. In Ireneo questa teologia è già presente. Il tipo di ecumenicità del cristianesimo passa attraverso questa chiave.
È normale che dentro queste prospettive Eusebio possa dire che lo stato cristiano è la realizzazione della dimensione ecclesiale della storia e che il potere di Cristo si manifesta nel potere dei principi cristiani. L'incidenza del cristianesimo su leggi, costumi, ecc., appare come la dimensione essenziale della ecclesialità. È evidente che il ricalco dei rapporti fra gerarchia ecclesiastica e potere politico cristiano è lo stesso di quello dei rapporti fra re e sacerdoti nell'AT. Tutto ciò è stato possibile perché il regno di Dio come qualcosa che deve realizzarsi è stato sottovalutato ed è stato sopravvalutato il "già", che però ha cancellato il "non ancora". Il regno di Dio finale, fino al concilio, è il giudizio sul bene e sul male, ma non è visto come il superamento delle imperfezioni storiche.
Ireneo è un tipico rappresentante delle posizioni del cattolicesimo, il primo vero esponente, dopo Clemente romano, di una reale e massiccia cattolicizzazione del messaggio cristiano primitivo.
Questo suo atteggiamento non dipende da una identificazione della Chiesa con il regno di Dio, ma da una ragione che insieme è affine e contraria, cioè il regno di Dio riguarda per lui il giudizio finale mentre il regno di Dio in senso escatologico come realizzazione per lui è già la chiesa. Non c'è discontinuità nella storia della salvezza, il regno di Dio non rappresenta una frattura escatologica: è il limite di questa teologia. C'è una sopravvalutazione della chiesa e delle sue capacità e una accentuazione degli aspetti di culto, istituzionali, a danno di quelli comunitari ed escatologici. Non molto più tardi di questo periodo si affermerà l'assioma extra ecclesiam nulla salus, desunto da Cipriano ed Origene in cui però aveva un altro significato. Una religione, una fede, che era partita con l'ansia universalistica, arriva all'affermazione opposta (fuori di me non c'è salvezza), che possiamo anche leggere come storia dell'intolleranza religiosa verso il diverso.

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