Il fine vita tra fede, etica e esistenza quotidiana
sintesi delle relazioni di Giannino Piana e William Jourdan
Verbania Pallanza, 9 marzo 2019
Giancarlo
Sui temi etici, in particolare su quelli di inizio e fine vita, spesso si manifestano posizioni diverse tra protestanti e cattolici. Probabilmente però le diversità e le divergenze attraversano le stesse chiese al loro interno sia in ambito cattolico soprattutto a livello di riflessione teologica sia in ambito evangelico in particolare sui temi dell'eutanasia e del suicidio assistito. Il confronto tra uno dei maggiori teologi moralisti italiani in ambito cattolico, Giannino Piana e il pastore William Jourdan della chiesa valdese di Genova e membro del comitato di Bioetica della Tavola Valdese permetterà la messa a fuoco di alcuni snodi importanti della posta in gioco.
Giannino Piana
Tocca a me iniziare questo incontro, con un intervento che non so se definire un intervento di un cattolico, dato che le posizioni sono molto differenziate anche all'interno delle rispettive confessioni di chiesa, cattolica o protestante.
Personalmente penso di rappresentare non tanto la chiesa cattolica ufficiale, quella dei documenti, ma un ambito della Chiesa cattolica che io credo molto significativo, che è quello della riflessione teologica, che alcune volte va più avanti rispetto al magistero, per ragioni plausibili, cioè per il fatto che la ratifica del magistero avviene sempre più a rilento rispetto alla riflessione della teologia.
Cercherò di articolare la riflessione sul fine vita - che è un tema vastissimo - in tre momenti.
Il primo momento è dedicato anzitutto a mettere a fuoco le ragioni culturali dei cambiamenti intervenuti nell'ambito di questa realtà, che va dalle problematiche che toccano l'eutanasia e quelle che toccano l'accanimento terapeutico, fino a quelle che toccano il testamento biologico.
Quest'ultimo è diventato, anche nel nostro paese, uno strumento ormai utilizzabile a seguito dell'approvazione della legge sul consenso informato, che contiene delle indicazioni molto precise anche sul fine vita.
Come dicevo, il primo momento è dedicato a mettere a fuoco il contesto culturale dentro cui nasce la problematica del fine vita oggi.
Il secondo momento è dedicato ad affrontare più direttamente questioni di carattere strettamente etico, come la questione dell'eutanasia e dell'accanimento terapeutico, in un quadro allargato che comprende anche altre tematiche, in particolare la questione del testamento biologico.
Il terzo momento è dedicato a mettere a fuoco il discorso delle cure proporzionate, quello che oggi si chiama la terapia di assistenza del malato terminale, che lo conduce attraverso un processo molto attento alla sua condizione fino al morire, senza bisogno di ricorrere necessariamente all'eutanasia. Non escludo che il ricorso all'eutanasia sia un problema reale, oggettivo, però alcune volte è anche generato dall'assenza di cure adeguate: o da eccesso di cura o dal fatto che non esiste una cura per il malato terminale.
A - Le ragioni culturali dei cambiamenti
Faccio quindi un quadro delle ragioni socio-culturali, tenendo conto del tempo limitato e quindi mettendo a fuoco molto schematicamente alcuni punti.
i diritti della persona
Il primo punto è questo: la questione del fine vita va inserita all'interno di un contesto in cui centrale è diventato il discorso dei diritti della persona. Ci sono radici storiche che hanno prodotto questa centralità del tema della dignità e dei diritti della persona, radici che vanno ricondotte all'illuminismo e poi alle grandi rivoluzioni introdotte con le prime Carte dei diritti dell'uomo e del cittadino. Si assiste ad una accentuazione sempre maggiore in questo senso a partire dall'ultimo dopoguerra. Nel 1948 nasce la Carta delle Nazioni Unite e successivamente la riflessione su queste tematiche si sviluppa in vari ambiti, compreso quello del diritto a una morte dignitosa. O, potremmo dire, del diritto a una morte che sia davvero rispettosa anche della qualità della vita personale dell'uomo.
Il diritto a una morte dignitosa è un diritto fondamentale, oggi invocato da molti e credo che vada tenuto in seria considerazione. Questo è un primo dato importante che inquadra tutta la problematica sulla quale ci soffermeremo.
i progressi della medicina
Il secondo dato è il progresso accelerato della medicina e delle scienze biomediche, che da una parte hanno prodotto effetti altamente positivi, ma che hanno anche risvolti negativi. Alcune malattie che in passato erano letali, sono oggi guaribili. Ma qualsiasi processo di progresso e di evoluzione ha sempre anche delle ambivalenze. E, nel nostro campo, la valenza negativa è la possibilità di procrastinare la vita personale al di là dei limiti, attraverso forme di intervento che incorrono in quello che è chiamato l'accanimento terapeutico. Ciò produce una situazione esistenziale inaccettabile, dove la qualità della vita e la dignità della persona vengono a essere anche fortemente compromesse. Sono i risvolti negativi di un processo che invece ha molti lati positivi. Il problema dell'accanimento terapeutico non esisteva in passato, mentre oggi si hanno a disposizione strumenti che consentono di prolungare in maniera quasi indefinita la vita. Anche nel nostro paese ci sono stati casi in cui questo prolungamento si è verificato con conseguenze che tutti conosciamo.
la paura e la rimozione della morte
Un terzo dato importante, al punto che varrebbe la pena di fare una riflessione anche più specifica, in un incontro dedicato, è il modo di rapportarsi alla morte dell'uomo di oggi. Un modo di rapportarsi alla morte che è segnato dalla tabuizzazione. Il vero tabù della nostra società non è il sesso, è la morte. Una parola forse più semplice che possiamo usare invece di tabuizzazione è rimozione: la rimozione della morte.
La rimozione crea un circolo vizioso morte-paura. Si accentua la paura della morte, la paura spinge la rimozione, la rimozione a sua volta alimenta la paura. È un circolo vizioso caratteristico della società di oggi, legato a una serie di cause che sarebbe lungo metterle tutte a fuoco.
Ne metto a fuoco qualcuna. Per esempio il fatto della denaturalizzazione della morte. La morte era un evento naturale: in una società preindustriale, in una società contadina, veniva vista come un fatto che ci faceva partecipi della natura dentro cui eravamo inseriti. Vedevamo per esempio ogni giorno morire gli animali, le piante e così via, e anche le persone, e la morte diventava un fatto quasi naturale. Oggi non è più così.
E c'è anche una spettacolarizzazione della morte, che avviene sempre attraverso i media, ma è sempre la morte dell'altro, che non conosco, che è lontano. I telegiornali ogni giorno ci portano in casa morti devastanti di intere popolazioni e lo fanno sotto la forma della spettacolarizzazione.
C'è ancora un'altra ragione, il fatto che la morte è sempre più considerata come un evento da rifuggire perché è messa in contrasto netto con la vita. Vita e morte sono viste come due realtà in contrapposizione. In realtà sono due realtà in continuità. Nell'atto stesso in cui si vive, si muore. Ogni giorno in più della nostra vita è un giorno in meno, nel senso che andiamo incontro a questo evento che prima ancora di essere l'evento, è il processo che conduce all'evento. È un processo evolutivo che conduce man mano verso l'evento.
E sarebbe lungo riflettere anche sul venir meno della simbolizzazione della morte nella nostra cultura. In altre culture la morte era circondata da una serie di significati simbolici, sia di carattere semplicemente umano, antropologico, sia di carattere anche religioso, che davano significato al morire.
Naturalmente la morte è sempre stata una cosa vissuta negativamente.
La morte ha sempre avuto una dimensione di tragicità, non solo di drammaticità, perché l'istinto fondamentale che ognuno di noi ha è quello della sopravvivenza. Però la tragicità della morte era riscattata da una visione della vita che andava oltre la morte. La vita oltre la morte era evidenziata da una serie di situazioni e simboli che accompagnavano il morente. Si moriva quasi sempre nella casa, nell'habitat dove si era vissuti, mentre oggi c'è anche una forte ospedalizzazione della morte. Sono molte le ragioni sia di natura sociologica che di natura antropologica che dicono quanto sia diventato complesso il rapporto con la morte.
Questi sono alcuni dei tanti elementi che potrebbero essere citati per dire il contesto dentro cui si collocano le questioni etiche del fine vita, il contesto socioculturale che ho cercato rapidamente di descrivere.
B - Questioni di carattere etico: eutanasia e accanimento terapeutico
A proposito delle problematiche più specificamente etiche partirei dai due problemi nodali che sono l'eutanasia e l'accanimento terapeutico, due facce della stessa medaglia.
Mi sembra interessante rilevare che la denaturalizzazione della morte è la ragione per cui si ricorre all'accanimento terapeutico sperando che la vita duri eternamente, mentre purtroppo la vita ha sempre limiti di tempo. Tra l'altro, ritengo che uno dei segni di maturità di una persona, oltre al fatto di essere in grado di sviluppare rapporti veri con gli altri, sia proprio il fatto di introiettare la morte dentro la propria vita. Di non concepirla come qualcosa di estraneo, ma di introiettarla come un elemento che fa parte della vita, che ne segna il limite, ma che permette al contempo la presa di coscienza delle possibilità. Limite e possibilità non sono in contrapposizione: quanto più prendo coscienza del mio limite, tanto più riesco poi a esercitare le vere mie possibilità, quelle che appunto sono anche legate al limite della mia esperienza di vita.
Anche l'eutanasia segna per molti il passaggio da una concezione di morte come realtà naturale, a una concezione di realtà sempre più culturalizzata, evento artificiale. Per cui la morte sono io che la decido quando voglio, indipendentemente dalle condizioni entro cui avverrebbe se mi limitassi a vivere in una condizione di naturalità.
eutanasia
Per giungere a definire i grossi nodi relativi a eutanasia e accanimento terapeutico, comincerei col cercare di chiarire che cos'è l'eutanasia, dal punto di vista tecnico.
C'è una definizione che fa riferimento a un documento cattolico del 1980 della Congregazione per la dottrina della fede, intitolato "Eutanasia e accanimento terapeutico". È un documento che riporta, per alcuni aspetti, la dottrina tradizionale, ma che, sotto altri aspetti, è anche innovativo, nel senso che rappresenta un passo avanti rispetto alla dottrina tradizionale del mondo cattolico. In questo documento si dice che per eutanasia si intende un atto o una omissione su un malato terminale che viva in condizioni di particolari difficoltà, attuato o con un'intenzione diretta di dare la morte o che comunque porta alla morte.
Abbiamo allora una definizione dell'eutanasia che potremmo distinguere in: eutanasia attiva e eutanasia passiva.
Eutanasia attiva è l'azione attraverso la quale io do la morte a una persona, con un intervento di carattere farmacologico oppure di altro tipo. L'eutanasia passiva è l'omissione di soccorso, quando lascio morire una persona che aveva ancora delle possibilità di vita, sia pure al fine di sottrarla a una situazione di sofferenza, non tenendo conto delle potenzialità di vita ancora esistenti.
L'altra distinzione che si introduce accanto a quella tra eutanasia attiva e eutanasia passiva è tra eutanasia diretta e indiretta. Diretta quando l'intenzione di quell'intervento è proprio di dare la morte. Eutanasia indiretta quando invece non esiste questa intenzione, ad esempio se si interviene dando certi farmaci che sanano una situazione di sofferenza, pur sapendo che inevitabilmente quei farmaci generano il processo di morte.
In realtà, per sintetizzare, il concetto stretto di eutanasia è quello dell'eutanasia attiva e diretta. Il vero concetto di eutanasia è quando io formulo un'intenzione diretta di dare la morte e mi muovo nella direzione di un'azione che appunto procura la morte. Quindi quando l'azione e l'intenzione coincidono.
Diverso è invece il problema della cosiddetta eutanasia passiva o indiretta che non è strettamente eutanasia, in cui si pongono in luce una serie di questioni che sono sulla frontiera tra l'eutanasia e l'accanimento terapeutico. Siamo su un crinale in cui fare - o non fare - certe cose può comportare eutanasia mentre ci sono ancora delle potenzialità di vita, oppure incorrere in accanimento terapeutico, prolungando la vita di una persona quando quella vita non ha più un significato umano.
La vita è dono e quindi indisponibile (tradizione cattolica)
Precisati così i termini, diciamo che il concetto ristretto di eutanasia (attiva e diretta) è sempre stato, da tutta la tradizione cattolica considerato negativamente. E questo per ragioni che vengono diversamente invocate a seconda dei momenti ma che sono condensabili in quella fondamentale in cui si dice "la vita non ti appartiene". Non l'hai a tua disposizione. La vita non può essere totalmente nelle tue mani, perché l'hai ricevuta, perché è dono, perché è partecipazione alla Vita con la V maiuscola, che è la vita di Dio. Solo Dio può dare la vita e solo Dio può toglierla. Si può agire solo sul crinale della conservazione, perché solo a Dio, che ha dato la vita, è affidato il compito di toglierla. Questa è la ragione di fondo che veniva invocata e che poi viene anche trasposta sul terreno del diritto. Il diritto ad esistere, si dice, è un diritto fondamentale, tutti gli altri diritti sono fondati sul diritto ad esistere. Se tu togli il diritto ad esistere di una persona, in qualsiasi condizione si trovi, vieni meno a tutto il discorso dei diritti, connessi strettamente con questo diritto fondamentale.
la vita è dono, affidato alla responsabilità dell'uomo (Küng)
Questa è la posizione tradizionale. È vero però che all'interno del mondo cattolico non c'è più soltanto la posizione, ancora oggi, ufficiale. C'è stata tutta una riflessione. Faccio soltanto riferimento al caso specifico di Hans Küng, teologo svizzero, di Coira, che tuttavia è vissuto sempre in Germania, per cui viene considerato un teologo tedesco. Küng mette in crisi il ragionamento proposto dalla Chiesa cattolica, per cui appunto la vita è dono di Dio. Küng dice: se noi ci muoviamo all'interno di una teologia che è quella dell'alleanza, in cui c'è la chiamata di Dio e la risposta dell'uomo, allora dobbiamo tenere anche in considerazione il fatto che il dono vissuto nel contesto dell'alleanza è un dono che viene elargito all'uomo perché responsabilmente lo gestisca, in tutte le sue fasi, in tutti i suoi momenti, per cui siamo noi che possiamo diventare responsabili di una risposta che non può darci Dio. La vita è una realtà che ormai possiedi tu, e possedendola, devi gestirla responsabilmente. Se questo vale, allora anche di fronte a certe situazioni esistenziali di fine vita, in cui non esiste più la possibilità che la persona recuperi la sua identità personale, che viva delle relazioni, che sia cosciente, e così via, ecco allora la possibilità del ricorso anche a un processo di autodeterminazione soggettiva di fronte alla morte. Cioè di poter decidere, come dice Küng, il momento della morte, sia che la decisione venga direttamente dalla persona, sia che venga per esempio per il tramite del testamento biologico, dove la persona registra che, se si trova in quella condizione, non desidera più essere mantenuta in vita.
La posizione ufficiale e quella di Küng coesistono all'interno del mondo cattolico. Per Küng sono io che posso, anzi devo decidere, non per motivazioni futili o di comodo, quando mi trovo in situazioni prive di potenzialità di vita. Küng ha cominciato a fare queste riflessioni appena ordinato prete: in quel momento il fratello ha avuto un coma cerebrale, e l'averlo visto morire in maniera tanto penosa l'ha segnato per tutta la vita. Lo dice lui stesso quando parla di questi argomenti.
Faccio qui una piccolissima digressione. La definizione che davo di eutanasia, quella stretta, include l'eutanasia spesso chiamata l'omicidio del consenziente, per cui l'eutanasia viene praticata da un esterno, un medico o chi per esso, perché, attraverso il testamento biologico, è stata precedentemente espressa la volontà del paziente che dice: stante queste condizioni io vorrei che si ricorresse all'eutanasia.
Un'altra cosa è il suicidio assistito, in cui la persona è ancora cosciente di sé e decide... Questo atto ha in sé anche elementi dell'eutanasia, ma non totalmente. Il suicidio assistito consiste nel fatto che sono io che decido e che mi do la morte, anche se ho bisogno di qualcuno che mi aiuti, dal punto di vista della competenza scientifica, tecnica, ad es. il medico. Chiudo la parentesi.
l'accanimento terapeutico
L'accanimento terapeutico è l'intervento su soggetti in condizione terminale, senza alcuna possibilità di recupero, e che tuttavia, attraverso le tecniche che oggi si hanno a disposizione, continuano a vivere in maniera del tutto artificiosa. Sono interventi che prolungano la vita pur sapendo che ormai non c'è più nessuna possibilità di recupero, non c'è più nessuna coscienzialità nella persona, per quello che si sa.
In Europa i massimi esperti dicono che percepire cosa sente la persona in quel momento, è molto difficile. Il paziente che vive quella condizione non è facilmente valutabile dalle reazioni che ha. Ad es. è difficile valutare se davvero soffre o no.
Come l'eutanasia, o certe forme di eutanasia, anche l'accanimento terapeutico è un attentato alla vita, se consideriamo la vita non come un puro dato biologico, ma come vita umana personale, coscienziale, relazionale. Se, per quanto clinicamente se ne sappia, si prolunga artificialmente la vita in modo smoderato, effettivamente si attenta alla vita, nel senso di vita umana, nella sua dimensione più profonda, personale, qualitativa. L'accanimento terapeutico quindi si colloca in questa prospettiva.
tra eutanasia passiva e accanimento terapeutico
Torniamo indietro per un momento per considerare, al di là del concetto ristretto di eutanasia, tutta una serie di situazioni nelle quali ci si può trovare al limite tra eutanasia passiva e accanimento terapeutico.
Sono moltissime queste situazioni di frontiera, in cui il fare una certa cosa può provocare accanimento terapeutico, cioè un prolungamento artificiale della vita moralmente inaccettabile, e, in altri casi, non farlo può invece provocare eutanasia, cioè omissione di soccorso nei confronti di una vita che avrebbe ancora possibilità...
mezzi ordinari e straordinari e mezzi proporzionati e sproporzionati
Il documento del 1980 che ricordavo, da questo punto di vista, rappresenta un salto qualitativo. (Il mondo protestante è sempre stato molto più attento alla complessità dei problemi.)
Precedentemente si decideva, in base alla dottrina cattolica, dicendo che esistono dei mezzi che vanno sempre usati e mezzi che in alcuni casi devono non essere usati. Si distingueva tra mezzi cosiddetti ordinari - la terminologia era questa - e mezzi straordinari. I mezzi ordinari andavano sempre usati, in qualsiasi situazione. Non si potevano omettere. I mezzi straordinari, se già si intuiva che ci poteva essere l'accanimento terapeutico, potevano non essere usati o addirittura in alcuni casi dovevano non essere usati (sempre per non incorrere nell'accanimento terapeutico).
Questa distinzione in quel documento fortunatamente è superata, e si parla di mezzi proporzionati e di mezzi sproporzionati. Cioè non è più tanto il mezzo in sé alla base della decisione, ma è il rapporto tra il mezzo e la situazione soggettiva. Un determinato mezzo, che in una certa situazione soggettiva posso considerare proporzionato, in un'altra situazione soggettiva lo posso considerare invece sproporzionato. Perché nel primo caso quel mezzo serve per mantenere in vita una persona che ha ancora delle potenzialità, nel secondo caso invece diventa accanimento terapeutico, cioè produce come effetto il prolungamento artificiale della vita che non ha più senso.
Torniamo al discorso di fondo. Quella distinzione tra mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati, nella dottrina cattolica si è introdotta perché - e in questo io non sono d'accordo con la dottrina ufficiale - si è introdotta una distinzione ulteriore. Alcuni mezzi vanno comunque sempre dati, si dice. È vero che c'è la proporzionalità, ma vanno sempre dati perché sono alimentazione e idratazione, che non rientrano nel campo terapeutico perché sono sostegno vitale. Il dibattito, lo sapete, è tra chi dice che quei mezzi sono sostegno vitale e non possono mai essere trascurati, e chi invece dice che quei mezzi sono un atto medico per mantenere in vita attraverso una alimentazione e una idratazione che sono del tutto artificiali e avvengono con sistemi che non hanno nulla di naturale.
Notate tra parentesi che la ragione per cui si dice no all'accanimento terapeutico è una ragione che la chiesa non ha sempre fatto sua. Nonostante la condanna di denaturalizzazione della morte, il riferimento alla naturalità nell'ambito del fine vita non viene spesso tenuto in considerazione dalla chiesa. E il prolungamento della vita, comunque avvenga, nella prassi ecclesiale (non nella dottrina) viene considerato come qualcosa di comunque legittimo. In altri ambiti, invece, come in quello della fecondazione artificiale, anche omologa, c'è l'assoluto diniego. Eppure, il nascere e il morire non sono mai stati dei fatti solamente naturali, sono sempre stati dei fatti elaborati culturalmente. Secondo me, la disparità di atteggiamento della chiesa, a seconda degli ambiti, merita di essere rilevata.
Credo che la legislazione italiana, con la legge sul consenso informato che contiene anche indicazioni sul fine vita, ha permesso di superare il dibattito teorico tra chi sostiene che idratazione e alimentazione sono sostegno vitale e chi sostiene che sono un fatto medico. Con questa legge,
si fanno rientrare questi interventi nella problematica più generale delle cure proporzionate. Per cui, sia pure in casi estremi, idratazione e alimentazione possono essere sospesi se, in quella specifica situazione, idratare e alimentare comporta accanimento terapeutico. Se invece sospenderli significa attuare una eutanasia passiva, allora l'obbligo di idratare e alimentare non può essere bypassato.
Questo è il quadro della problematica etica.
non ci sono motivazioni razionali per dire sempre di no all'eutanasia
Per stare nei tempi, concludo accennando sinteticamente ad altri due temi.
Uno riguarda i problemi relativi al testamento biologico, e l'altro riguarda le cure palliative, che alcuni considerano l'alternativa all'eutanasia - un'alternativa relativa...
Io credo che non ci siano motivazioni di carattere strettamente razionale o etico-razionale per dire di no, in alcuni casi, all'eutanasia. Perché, di fatto, in moltissime culture, addirittura, l'anziano autonomamente si lasciava morire. Ad es. tra gli eschimesi...(45,50 circa). La persona non lo faceva perché rifiutava la vita, ma perché riteneva che la vita fosse giunta al compimento, fosse consumata. Si trattava di una forma di autodeterminazione, positiva, non di un suicidio voluto per uscire da una certa situazione... (A parte che il suicidio è sempre un nodo critico, un evento drammatico, sul quale è difficile fare riflessioni).
Di per sé, quindi non c'è una motivazione razionalmente seria dal punto di vista etico che porti a dire di no in termini assoluti all'eutanasia. Questo bisogna dirlo con molta chiarezza. L'appello alla visione cristiana è un'altra cosa, (e a questo avevo già dato alcune indicazioni precedentemente??).
il testamento biologico
Vediamo allora i due temi, il primo è quello del testamento biologico, e il secondo è quello delle cure palliative.
Sul testamento biologico credo che ci siano pochi dubbi dal punto di vista della plausibilità dal punto di vista etico. Il problema è come lo si attua. Ci sono problemi grossi nella gestione del testamento biologico, che prevede anche una sorta di esecutore testamentario che viene designato. I problemi sono relativi all'ambito dentro il quale si può collocare. Se l'ambito è troppo ristretto e si dicono cose molto generali, sicuramente legate all'accanimento terapeutico, chi lo deve eseguire può avere molta libertà. Se si entra nei dettagli (ma non si entra mai in tutti i dettagli!), le cose si complicano, perché è difficilissimo dire quali sono le condizioni nelle quali si vorrebbe non essere più trattati. (Il documento della chiesa valdese da questo punto di vista mi sembra molto significativo, e lo condivido sotto questo profilo.)
Il testamento biologico è un elemento importante, però è molto difficile da utilizzare. La situazione presenta grosse difficoltà. Intanto perché il paziente non è più cosciente, e si deve fare riferimento a un terzo che deve portare avanti la volontà a suo tempo espressa dal paziente. Poi perché questo terzo deve entrare in un rapporto di alleanza terapeutica col medico, il quale può anche far riflettere su cambiamenti intervenuti. Far notare che, rispetto al momento in cui il testamento biologico è stato firmato, magari 20 anni prima, le condizioni di cura sono mutate, e che esistono delle potenzialità allora inimmaginabili.... Il medico deve avere un suo spazio, non può essere un puro esecutore passivo, e questo crea tutta una serie di problemi molto seri, che vanno affrontati di volta in volta nell'attuazione concreta. Personalmente credo che il testamento biologico sia importante, il problema sta nel come viene fatto e nel come viene gestito nel momento in cui si tratta di applicare le indicazioni lasciate. Che sono certamente l'espressione di una volontà che va tenuta in considerazione, e che normalmente va seguita, ma che non può essere un diktat assoluto. Possono esistere delle situazioni nelle quali il giudizio del medico può differire da quello dell'esecutore testamentario, e può esserci un dibattito che porta poi a una conclusione, si spera concorde, attraverso una riflessione comune.
cure palliative
L'altro tema è quello delle cure palliative, che sono un po' come una specie di fuoriuscita dall'eutanasia.
Tornerei sulle riflessioni di carattere generale che facevo all'inizio, approfondendole un po'.
La domanda eutanasica, sia di legalizzazione dell'eutanasia sia di riconoscimento del valore etico dell'eutanasia, si è accentuata nel nostro tempo. Per un verso perché è cresciuta la possibilità di intervenire per mantenere la persona in vita in maniera spesso inaccettabile con l'accanimento terapeutico. Per questo, molte persone che vedono persone vicine a loro sottoposte a questo martirio di un prolungamento artificiale della vita, pensano che sia meglio scegliere per sé l'eutanasia, piuttosto che andare incontro ad una situazione così tragica.
Ma, per altro verso, si è accentuata la richiesta anche perché è abbastanza diffusa la tendenza a considerare il malato terminale non solo inguaribile, come è effettivamente, ma anche incurabile. Bisogna sempre fare questa distinzione tra la inguaribilità e invece la incurabilità. Tutti siamo sempre, in qualsiasi condizione, fino al termine della nostra vita, curabili e da curare. Certamente ci sono delle situazioni di malattia in cui esiste una situazione di inguaribilità, e si viene curati senza la prospettiva del guarire, perché non c'è più la condizione per poterlo essere.
Si può anche parlare di eutanasia da omissione di cura.
La domanda eutanasica nascerebbe anche dal fatto che nel nostro paese le cure palliative sono ancora una realtà abbastanza marginale.
Le cure palliative sono proprio il tentativo di offrire una cura proporzionata alla situazione, il che impedisce, da una parte che si incorra nella tentazione eutanasica. Infatti l'accompagnamento del malato che va verso la destinazione ultima, verso la morte, avviene attraverso una serie di presìdi, ad esempio l'intervento articolato di un'équipe che comprende lo psicologo, l'assistente sociale, insomma una serie di persone in grado di favorire un processo di accompagnamento alla morte in maniera il più possibile positiva.
Dall'altra parte, le cure palliative evitano anche di andare incontro a quella eutanasia di omissione di cura a cui accennavo prima. Sono cure che non possono guarire una persona inguaribile e che quindi non si ostinano fino all'accanimento terapeutico. Sono comunque delle cure serie, fatte attraverso la presenza di più soggetti, tutti preoccupati di accompagnare il malato positivamente al termine della sua esistenza.
Questa attività si articola in diversi modi. Intanto la cura palliativa prevede la domiciliarità, quindi l'assistenza in casa del malato. Quando questo non è possibile perché c'è l'esigenza di ricorrere a un apparato medico, ci sono gli hospice. L'ospedalizzazione è l'ultima scelta, solo se avviene qualche evento straordinario. Tutto questo ha un grosso significato umanistico. Il termine "cure palliative" viene da "pallium" (in latino "mantello"): è una cura che "copre". Non ha nessuna possibilità di far uscire il malato da una situazione, ma lo aiuta, lo copre, lo protegge, crea le condizioni perché quel momento difficile che sta attraversando e che lo porta poi alla morte sia vissuto nel migliore dei modi possibili, non invece in maniera drammatica, come spesso avviene. Questa è una delle strade che andrebbero sempre più percorse.
In Italia abbiamo avuto un grosso esponente delle cure palliative, morto qualche anno fa, il professor Ventafridda, che le ha introdotte nel nostro paese e ha determinato anche un processo di diffusione, per cui oggi gli hospice ci sono da più parti. Un hospice c'è ad esempio ad Arona dove abito, un altro a Galliate, per dire soltanto nella provincia di Novara. E poi qui a Verbania... C'è tutta una serie di presidi che consentono di affrontare il problema.
Poi c'è anche tutto il problema del ripensamento del morire, di una educazione al morire... Una volta c'erano gli esercizi della buona morte! C'è tutta una cultura del morire, molto importante. Ma qui mi fermo.
pastore Alessandro Esposito
Presento l'amico Willy, che è innanzitutto un amico. Vi renderete conto da soli, da sole, che ha una sensibilità e un'intelligenza profonde. Pensando a lui, mi è venuto in mente un detto di Epicuro, che quando suggeriva una modalità di vivere ci raccomandava "lathe biosas" ovverossia "vivi nascostamente". E io credo che nessuno, tra le tante persone che ho incontrato e conosciuto nella vita incarna meglio questa definizione dell'amico Willy, per cui, con questa piccola parola, lo lascio a voi e vi invito ad ascoltarlo.
William Jourdan
Ringrazio di questa presentazione, non sono mai stato introdotto con una citazione di Epicuro, che mi onora profondamente (battute e risate).
A tal proposito, volevo esprimere a voi tutti un ringraziamento, non soltanto per questo invito, ma forse a qualcuno devo restituire il biglietto d'ingresso, perché vi aspettavate giustamente il professor Luca Savarino, invece dovete accontentarvi del sottoscritto. Ma al di là di questo volevo ringraziarvi per questa presenza numerosa e attenta. Perché effettivamente parliamo di una tematica sicuramente molto sentita, una tematica che tocca in profondità delle domande presenti in ciascuno di noi, come è già stato sottolineato nel corso dei precedenti interventi, ma appunto anche di una tematica della quale non necessariamente si vorrebbe parlare un intero sabato pomeriggio quando splende un sole così bello sulle vostre montagne che ci circondano.
Io ringrazio anche il professor Piana per la sua relazione che, in buona sostanza ha già messo in luce tutti quelli che sono i problemi, le questioni fondamentali in gioco quando affrontiamo il tema del fine vita. Io mi limiterò a fare una serie di sottolineature in una prospettiva protestante, evangelica che però in buona sostanza - e qui vediamo anche la trasversalità della questione - è assolutamente concorde con quanto è già stato detto. Dicevo appunto, vediamo come la trasversalità delle questioni etiche talvolta possa esserci, e ci sia una comunanza, al di là dell'aspetto confessionale.
Il discorso etico certamente interessa sull'orizzonte ecumenico: l'etica è diventata oggi centrale, secondo me, nel dibattito ecumenico, ormai da alcuni anni, mostrando una profondissima ambivalenza. Ovvero, da un lato è elemento che unisce fortemente le diverse confessioni cristiane. E dall'altro è elemento che rischia di dividerle, di separarle ulteriormente.
Sulle questioni di ordine ambientale, sull'etica cosiddetta della pace, i cristiani si trovano oggigiorno a livello mondiale, planetario, sostanzialmente concordi nelle prese di posizione, anche se a farle sono esponenti di confessioni differenti.
Dall'altro lato, sull'etica della sessualità, o sull'etica della vita, dell'inizio e del fine vita, spesso, ma non sempre, e questo pomeriggio secondo me ne è un esempio eloquente, riscontriamo posizioni profondamente differenti e divergenti. E queste divergenze non si manifestano soltanto tra confessioni differenti, ma molto spesso anche all'interno delle confessioni. Possiamo ad esempio essere tutti protestanti ed avere posizioni etiche profondamente diverse, possiamo essere tutti cattolici e avere posizioni etiche profondamente diverse, profili etici profondamente differenti. Veniva accennato ad un dialogo nell'ambito tedesco tra protestanti e cattolici sulle tematiche etiche.
Si è svolta in queste settimane una conferenza generale sui temi dell'etica che ha coinvolto tutti i membri della cosiddetta chiesa metodista unita, cioè la denominazione metodista principale a livello mondiale. Le decisioni assunte molto probabilmente porteranno ad una frattura all'interno di questa denominazione.
divergenze in campo etico
Quindi la tematica etica, da un lato è un campo comune di condivisione, dall'altro lato può essere campo principale di frattura, con un cambiamento rispetto al passato, quando a prevalere erano questioni fondamentalmente di ordine dogmatico.
Ho molto apprezzato l'intervento del professor Piana perché ha posto davanti a noi quelli che sono i temi fondamentali delle questioni relative al fine vita. Io cercherò di riprenderne alcuni in particolare, sottolineando in che modo sono trattate nel documento che la commissione bioetica delle chiese battiste, metodiste e valdesi ha redatto nel 2017 («È la fine, per me l'inizio della vita. Eutanasia e suicidio assistito: una prospettiva protestante»). Il sinodo del 2018, sinodo delle chiese metodiste e valdesi ha accolto questo documento come una autorevole posizione sulla tematica del fine vita. Si tratta di un orientamento autorevole, che lascia però la possibilità ai credenti all'interno della chiesa di esprimere anche posizioni differenti.
Questa presa di posizione del Sinodo è anche legata al fatto che ci si rende conto che, nel quadro della vita delle chiese, una dinamica come quella del fine vita può portare a posizionamenti effettivamente differenti che sono espressioni di sensibilità diverse, sensibilità che non sono del tutto contrapposte, sia ben chiaro, ma che rimangono in dialogo tra di loro e mantengono degli accenti differenti.
Oggi cercherò di proporvi un dialogo tra questa prospettiva protestante, presente nel documento della commissione bioetica delle nostre chiese accolto dal Sinodo del 2018, e quella presente in un testo che si intitola "Un tempo per vivere, un tempo per morire", un documento che è stato prodotto e redatto dal Consiglio della Comunione delle chiese protestanti in Europa, ovvero quell'organismo che a livello europeo mette in relazione e riconosce quindi in reciproca comunione le chiese protestanti di origine riformata, luterana e metodista, e alcune altre, tra cui i valdesi, ecc.
Come voi sapete, il protestantesimo è di per sé, per sua natura, plurale, e per molti secoli i protestanti sono stati capaci di litigare fra di loro in maniera proficua, quasi quanto erano capaci di litigare con il cattolicesimo romano... L'ortodossia lasciamola un po' da parte, perché non era di fatto presente. Nel 1972 le chiese protestanti europee riconoscono che i motivi principali di distanza, e anche di divisione e di non riconoscimento reciproco, avevano delle ragioni storiche, ma non più corrispondenti alla situazione presente. E, di conseguenza, in un'ottica di riconciliazione di diverse prospettive, c'è stato un reciproco riconoscimento delle chiese riformate, luterane e poi anche metodiste a livello europeo che si riconoscono in quella che è definita la Concordia di Leuenberg, cioè il documento che sancisce la comunione ecclesiale cioè il reciproco riconoscimento tra chiese differenti alla luce del principio per cui "tu non sei come me, io non sono come te, ma questa diversità non significa divisione".
Ora, la Concordia di Leuenberg, e quindi la comunione delle chiese protestanti in Europa, ha nel corso degli anni affrontato tutta una serie di tematiche che riguardano il vissuto delle diverse chiese che fanno parte di questa comunione e uno dei documenti sicuramente più interessanti degli ultimi anni è proprio questo, presentato nel 2012: "Un tempo per vivere, un tempo per morire". In edizione italiana, lo potete trovare se vi interessasse, per i tipi della Claudiana. Vi dicevo che, questo scritto e il documento delle chiese battiste, metodiste e valdesi, rappresentano nel quadro della riflessione protestante, due strade, parallele, ma al tempo stesso alternative nelle loro affermazioni. In alcuni casi, in alcune affermazioni di dettaglio, come vedremo. Mentre a livello generale questi documenti condividono alcune affermazioni di fondo, ma si distanziano rispetto ad altre prospettive.
Lo anticipo già, per non lasciare troppo in sospeso: il documento della Concordia di Leuenberg non riconosce la plausibilità neanche in casi limite della prospettiva dell'eutanasia. Il documento delle chiese battiste, metodiste e valdesi riconosce, a determinate condizioni (preciserò meglio in seguito) l'ammissibilità dell'eutanasia.
Sono documenti che parlano a dei credenti, innanzitutto. Non sono documenti che vogliono parlare ad un parlamento, a chi deve legiferare. Sono documenti che propongono una visione morale, etica, di un certo tipo, e che in conseguenza vogliono accompagnare le persone che nella loro fede si interrogano su queste tematiche.
Una delle preoccupazioni centrali del nostro documento è proprio legata al fatto se la possibilità di scegliere, di richiedere l'eutanasia, debba essere considerata sempre e in ogni caso in contraddizione a un'esistenza vissuta nella fede. Perché questo è un dato importante per un ascoltatore ecclesiale, per un credente.
C'è un piano etico, morale, che riguarda il singolo e la riflessione personale e comunitaria, c'è poi un piano giuridico che riguarda chi è chiamato a legiferare.
È chiaro che queste due dimensioni in una certa misura devono interpellarsi, ma la visione morale, etica specifica non può diventare quella che suppone il profilo giuridico che poi diventa legge. Questa è l'idea di fondo che c'è dietro.
«la fine per me è l'inizio della vita»
Vorrei cercare di ripercorrere un po' il documento italiano facendo alcune sottolineature rispetto a quanto il professor Piana diceva prima. Questo documento tratta il tema del fine vita concentrandosi in maniera particolare, come dice anche il sottotitolo, sull'eutanasia e sul suicidio assistito. Cioè, questo documento non è specificamente concentrato sulla questione, per esempio, delle cure palliative. Certo, si parla anche di cure palliative perché in questi casi tutti i diversi aspetti si tengono insieme, ma il tema principale è l'eutanasia e il suicidio assistito. E la frase a cui si faceva riferimento all'inizio, «la fine per me è l'inizio della vita», come probabilmente qualcuno di voi sa, è una citazione, probabilmente l'ultima parola che il pastore Dietrich Bonhoeffer ha detto prima di essere assassinato, dopo un processo farsa, in cui era stato accusato di tradimento verso il Reich. Se ci pensate, è una frase molto breve, ma di una profondità straordinaria, che riesce in poche parole a mettere di fronte a chi l'ascolta, la tensione profonda che proprio su questa tematica emerge anzitutto dalla Scrittura. È la dimensione di una vita che non è soltanto vita biologica, la cui fine è presa in considerazione, ma è una vita che vive di una promessa più grande. "Per me, l'inizio della vita".
Questa è una tensione su questa tematica, come è stato detto con grande chiarezza prima, connaturata al testo biblico, presente nella riflessione scritturale del Nuovo Testamento in maniera particolare, e presente nella riflessione di fede delle chiese del cristianesimo, cioè la consapevolezza che il limite della vita biologica non è ancora la parola ultima sulla nostra esistenza.
Anche questo entra nel dibattito intorno alle questioni relative al fine vita.
eutanasia e consenso informato
Ma, come vi dicevo, il tema principale è quello dell'eutanasia. Io su questo porrei un accento un pochettino più marcato - il professor Piana lo ha spiegato naturalmente con grande chiarezza. Nell'orizzonte del protestantesimo la distinzione che in parte criticava ma in qualche modo manteneva, tra eutanasia attiva e eutanasia passiva, nella letteratura almeno più recente - c'è un unico caso di un autore piuttosto importante, che si chiama Jürgen Moltman, in un testo che ha 7 o 8 anni, L'etica della speranza, nel quale lui utilizza ancora queste due categorie, ma altrimenti nel protestantesimo oggi non si utilizza più il termine "eutanasia passiva" perché lo si ritiene fuorviante. Nel senso che, prendiamo adesso il caso della legislazione italiana, e quindi della legge 219 del 2017, la legge che appunto parla di consenso informato, cioè qualcosa che avrebbe già dovuto far parte del vissuto normale del cittadino paziente e del cittadino medico, e che in realtà ha dovuto essere nuovamente sottolineato. Probabilmente perché nel nostro paese, più di quanto accade in altri contesti, vivevamo ancora nell'orizzonte di un paradigma che possiamo definire paternalistico: lui è il dottore, saprà cosa si deve fare, faccia lui. Ovviamente, questa che può essere la fiducia riposta nel medico, ha anche l'altra faccia della medaglia. Cioè il fatto che un medico può abusare talvolta anche di questa fiducia e di conseguenza portare il paziente ad accettare delle situazioni che non farebbero parte delle convinzioni profonde di quel paziente. Allora il consenso informato è il principio al quale qualsiasi trattamento medico al quale io possa- debba essere sottoposto deve ispirarsi in maniera chiara, esaustiva, completa. In realtà troppo spesso questo spesso non accade nella pratica medica.
Il testamento biologico cosiddetto, o Dichiarazione anticipata di trattamento, o Direttive anticipate di trattamento, altro non dovrebbe essere se non una sorta di prolungamento del principio del consenso informato, attraverso il quale io esprimo ora per allora quali possono essere le mie volontà sul tema di trattamento medico.
La legislazione introdotta nel 2017 stabilisce di istituire un registro pubblico, quindi in ogni comune si deve avere la possibilità di depositare il proprio testamento biologico. Questo non risolve tutti i problemi, perché quando il medico deve intervenire, spesso interviene sulla base di un'urgenza e io non giro sempre con il mio testamento biologico tatuato sul petto... di conseguenza come fa a sapere il medico come comportarsi? Il medico interviene giustamente in una situazione di urgenza, molto spesso con gli strumenti che ha oggi a disposizione, rischiando però di andare a creare delle situazioni di fronte alle quali poi c'è una difficoltà nel renderle reversibili.
Oggi, con la nuova legge, questa situazione non c'è più, se la persona ha espresso preventivamente la volontà di non essere alimentato o idratato in maniera artificiale piuttosto che collegato in maniera permanente a macchine che garantiscono la ventilazione o il mantenimento del ritmo cardiaco... oggi la richiesta di staccare quella macchina non è più considerabile come eutanasia passiva, ma è semplicemente il rispetto di una volontà espressa esplicitamente in un quadro medico di riferimento. Per questo diventa difficile parlare di eutanasia passiva, considerando sempre l'atto di omissione come una sorta di eutanasia, appunto, indiretta.
la distinzione tra uccidere o aiutare a morire e il lasciar morire
Rimane però il fatto, e questa è una dimensione importante da sottolineare, che anche nel nostro documento e in generale nel dibattito, sull'eutanasia in particolare, e sul suicidio assistito, bisogna continuare a distinguere tra due tipi di atti, cioè l'uccidere o aiutare a morire, esplicitamente, e al contrario il lasciar morire.
Teniamo bene a mente questa distinzione perché è fondamentale in questo dibattito. Quando noi parliamo di eutanasia, parliamo sempre ed esclusivamente della prima parte. Cioè non è presa in considerazione la dimensione del lasciar morire. Eutanasia significa ricevere un aiuto attivo per vedere anticipata la propria morte. Questo è il tema in discussione.
Nella fattispecie del cosiddetto suicidio assistito siamo di fronte, sostanzialmente, alla stessa situazione, ma in quel caso non è, come il professor Piana spiegava, non è un medico a agire questo atto e a somministrare direttamente un farmaco che porta alla morte anticipata, bensì, nel caso del suicidio assistito, è la persona che, dopo essere stata aiutata, e aver visto predisposto una serie di farmaci, agisce in maniera tale da uccidersi. Di questo si tratta.
È urgente nella nostra società ci sia un dibattito su questi problemi e si sia consapevoli della diversità di questioni, della diversità di termini che sono in gioco.
Negli ultimi vent'anni, il modo di affrontare la tematica dell'eutanasia, è profondamente cambiato, sicuramente lo è nel nostro paese. In altri contesti europei il cambiamento è avvenuto prima mentre in altri deve ancora avvenire e di questo tema non si può e non si vuole ancora parlare. Perché la situazione è ancora segnata da una storia antica, ma troppo recente, per poter parlare serenamente di eutanasia. Penso in particolare alla situazione tedesca, dove questo termine richiama una storia criminale. È vero che c'è l'esempio di Küng svizzero trapiantato in Germania, ma il suo collega, Jürgen Moltman, che ha dedicato delle pagine secondo me molto belle a questa tematica, rimane assolutamente prudente, in nome del rischio che la benché minima apertura alla prospettiva dell'eutanasia possa avere delle conseguenze sociali ingovernabili. Questo è qualcosa di cui bisogna sicuramente tenere conto. E infatti, mi permetto di dire, da questo punto di vista, che il documento è assolutamente prudente.
Ma, vi dicevo, negli ultimi vent'anni, anche nel nostro paese, il cosiddetto status questionis dell'eutanasia è radicalmente cambiato. Trent'anni fa nel nostro paese si parlava del tema eutanasico fondamentalmente in contesti di malattie terminali di tipo oncologico, in particolare laddove le cure palliative non avevano ancora fatto i progressi odierni, e quindi c'erano situazioni di dolore effettivamente ingovernabili. L'esempio tristemente classico era quello di forme cancerogene che colpivano le ossa. Ecco, in quelle situazioni si parlava di eutanasia. Oggi il dibattito sulla questione eutanasica, è diventato un dibattito di visione culturale-antropologica, di come vedo l'essere umano e di come vedo anche la mia vita e di come vorrei vedere la mia morte. Non si tratta più soltanto di morire meglio, ma piuttosto di morire in modo conforme a come io mi sono immaginato la vita. E, da questo punto di vista, ci sono le estremizzazioni, facilitate da certe legislazioni di paesi all'interno dell'Europa. In Svizzera è prevista la possibilità di accesso a protocolli di suicidio assistito, non di eutanasia, dove la patologia terminale non è un presupposto.
Ricordo un caso, sono stato pastore in Veneto fino a un paio di anni fa, che fece molto discutere, quello di una signora, in una cittadina dell'alto Vicentino, Thiene, ottantacinquenne, in buona salute, che scelse la via del suicidio assistito perché non accettava il fatto di invecchiare. Ci riferiamo a questo quando parliamo di un cambiamento di paradigma nel modo di affrontare la questione. Questo è un esempio forse esagerato, però questa è la questione. Oggi molto spesso si parla di eutanasia in riferimento anche a queste situazioni.
Il documento della commissione bioetica delle chiese metodiste, battiste e valdesi, da questo punto di vista, è un documento di conservazione. Cioè noi riteniamo di poter affermare l'esistenza di casi limite che devono però essere definiti da un orizzonte di tipo medico. La logica di una certa etica - adesso non voglio dare giudizi di merito, ma la logica che una certa etica propone, di una società in cui tutti dovrebbero essere dei samurai non mi entusiasma più di tanto. Perché mi sembra far venir meno quei legami di solidarietà sociale che noi dobbiamo assolutamente sostenere, anche proprio, mi permetto di dire, come comunità credenti.
Quindi, prima considerazione, questo cambiamento del modo di porre la questione.
le cure palliative
Seconda considerazione in questo documento era il cambiamento della situazione delle cure palliative, in vent'anni sono stati fatti dei progressi enormi nella tematica delle cure palliative. Ora, possiamo noi oggi affermare che le cure palliative rendono superflua una eventuale richiesta eutanasica? Questa è una domanda che rimane aperta.
I due documenti, ritorno anche su questo, prendono strade differenti. La Concordia di Leuenberg, cioè l'organismo che raggruppa la maggior parte delle chiese protestanti d'Europa, ritiene di poter affermare che lo sviluppo delle cure palliative mette in secondo piano la necessità di dare spazio a una richiesta eventuale di eutanasia. Sicuramente le cure palliative e la logica quindi di una medicina che continua a farsi carico del paziente, pur nella consapevolezza di non poter sempre guarire, ma di poter e dover sempre curare, le cure palliative sono state e sono un enorme passo in tal senso. Credo che da questo punto di vista, oltre alla necessità di uno sviluppo tecnico, ci sia ancora oggi l'esigenza di uno sviluppo etico. Cioè di una consapevolezza medica del fatto che si può sempre continuare a curare, che non si può gettare la spugna quando si vede che non si può più guarire e che quindi il compito del medico è giunto al termine. Io credo che troppo spesso ancora oggi, in casi concreti per esempio sull'utilizzo nel nostro paese della medicina palliativa, ci mostrano una difficoltà da parte dei medici ad accettare questo tipo di prospettiva.
Proprio quei paesi che hanno finora in modi diversi aperto un dibattito anche di tipo legislativo sull'eutanasia e sul suicidio assistito e hanno accolto alcune istanze, sono poi anche quei paesi che hanno i livelli più alti di sviluppo proprio nel quadro della medicina palliativa. Parliamo dell'Olanda, del Belgio, e anche della Svizzera.
Anche la miglior offerta di medicina palliativa - come sosteneva il prof.Piana - deve mantenere la possibilità di vedersi manifestare casi limite, contenuti numericamente, ma pur sempre casi nei quali non si può rispondere solo con cure palliative. Di fronte a tale questione io credo che noi dobbiamo continuare a interrogarci.
Continuare a interrogarci non significa dare indicazioni al legislatore su quale strada scegliere - non saprei neanche quali - ma significa lasciare che le domande che sono sottese a questo dibattito possano effettivamente emergere.
la zona grigia del non si dice
E poi un terzo aspetto che ha abbordato la nostra commissione su questa questione era il quadro di riferimento di dati, non tanto riferiti al nostro paese, perché di questa questione in buona sostanza non si parla da noi, spesso si sente dire parlando con medici o infermiere, a registratori spenti "Ah sì, beh, anche da noi succede". E questo lascia in sospeso una realtà che personalmente trovo inquietante. Cosa vorrebbe dire esattamente "anche da noi succede"?
Io preferisco una legislazione che metta in chiaro i limiti, diritti e doveri dell'una e dell'altra parte, piuttosto che lasciare nella zona grigia del "in qualche modo ci si aggiusta", una questione che riguarda la nostra vita.
Ma se in Italia la cosa è così, in altri paesi ci sono invece a disposizione dei dati che ci mostrano quali siano i trend di riferimento nel numero di richieste, nelle risposte a queste richieste, nelle modalità in cui l'accettazione dell'eutanasia viene gestita.
Alcuni anni fa, quando, eravamo... anni 90, venne fuori la legislazione olandese, c'era un grande dibattito, perché sembrava che in Olanda si potesse andare dal medico di famiglia, invece di chiedere le analisi del sangue, gli si poteva chiedere... mi dà una puntura che poi vado a casa, oppure vado in ospedale, e mi uccido. No, il protocollo è assolutamente garantito e garantista, e complesso. Quindi io credo che i paesi che hanno normato il tema eutanasico siano anche da questo punto di vista più attenti di quei paesi nei quali c'è una normativa sulla questione del suicidio assistito. Il caso specifico è quello della Svizzera, dove c'è una legislazione che non prevede dei criteri medici di riferimento, ed è sufficiente che la persona sia in grado di intendere e di volere per poter accedere al protocollo di suicidio assistito, che non è seguito da personale medico, per tutta una serie di questioni legate alla normativa specifica della Svizzera.
Vado ora sui fondamentali che sono in gioco nei due documenti.
posizioni condivise nei due documenti
Quali sono gli assunti condivisi nelle prospettive differenti che i protestanti europei hanno articolato perché avete già capito che ci sono protestanti che la pensano in un modo e protestanti che la pensano in un altro.
Ci sono tre aspetti almeno che sono assolutamente condivisi, e sono degli assunti fondamentali che riguardano il modo di vedere la persona e la malattia, la vita e la morte.
ogni persona è portatrice di una dignità intrinseca
Il primo aspetto è stato ben sottolineato all'inizio dell'intervento del professor Piana: ogni essere umano è portatore di una dignità intrinseca e questa dignità non dipende in ultima istanza dalle tue prestazioni. Questa è una sottolineatura molto importante, soprattutto in una prospettiva protestante, anzi direi cristiana.
Perché anche nel quadro specifico della vita e del fine vita ci mette già di fronte a una sorta di paravalanghe rispetto a eventuali pensieri sull'inutilità della vita segnata dalla malattia. Ci mette al riparo dalla logica per la quale tu conti, tu servi, tu hai dignità o valore se sei in grado di produrre, di essere sano, ecc. Un punto di partenza fondamentale, condiviso da entrambe le prospettive, è proprio questo: la dignità umana fondamentale, intrinseco alla persona umana, è indipendente dal proprio stato di salute, e questo potrebbe essere ancorato in molti e diversi modi.
la libertà non è assoluta autodeterminazione
Il secondo assunto e qui può apparire un pochettino strano che lo dica un protestante, il secondo assunto fondamentale condiviso dai protestanti europei è il fatto che la libertà non è assoluta autodeterminazione.
La libertà non è assoluta autodeterminazione, ma è una possibilità concreta che è data alle persone soltanto nella relazione. Perché questo aspetto è molto importante? Perché giustamente l'osservatore cattolico potrebbe dire: ma, i protestanti, sulla tematica dell'autodeterminazione insistono molto spesso. Si pensi ai dibattiti sul tema del testamento biologico. Ma anche a quelli che stanno per riaccendersi, dato che attualmente è all'esame della commissione parlamentare competente, una questione posta in seguito alla sentenza relativa a dj Fabo, Fabiano Antoniani, in cui era imputato Marco Cappato come accompagnatore, quindi istigatore al suicidio. Il codice penale italiano, come probabilmente sapete, ha un articolo che punisce tanto l'istigazione al suicidio quanto l'aiuto concreto. Ora, la Corte d'appello di Milano, nella sentenza che ha emesso rispetto a Marco Cappato, pone una questione interessante dal punto di vista bioetico. Cioè dice: quell'articolo ha una sua storia e è inserito in un certo contesto, ma in considerazione di tutta una serie di articoli anche della nostra Costituzione, come l'articolo 32, ma anche l'articolo 2, noi dobbiamo considerare il contesto differente nel quale non tanto l'istigazione al suicidio quanto l'aiuto al suicidio può avvenire. Allora, non si profila un giudizio di incostituzionalità rispetto alla condanna eventuale di qualcuno che aiuti una persona a suicidarsi, nell'ordine del rispetto del principio di autodeterminazione, o di accettazione o di non accettazione di determinate cure? La Corte costituzionale a questo punto ha detto una cosa: la Corte d'Appello di Milano ha colto nel segno. Quindi, se il Parlamento non si mette a legiferare in tempi brevi - il termine è settembre - noi siamo disposti a dichiarare incostituzionale il secondo e terzo comma, se non sbaglio, dell'articolo 580 del codice penale, aprendo una zona grigia di ordine legislativo per cui, sebbene nel nostro paese non ci sia una normativa sul suicidio assistito potrebbe verificarsi il caso che tutta una serie di situazioni vengano di fatto gestite come suicidi assistiti e la cosa non sarebbe più punibile. È una questione molto complessa, a fronte della quale è più opportuno avere delle leggi che inquadrino questi temi.
Ma, vi dicevo, in questo quadro il protestantesimo ha sempre sostenuto la dimensione dell'autodeterminazione, certo, un'autodeterminazione che però dobbiamo riconoscere come relativa, in quanto credenti, cioè relativa non nel senso che decide il medico o qualcun altro al posto del medico per me, ma un'autodeterminazione come forma di libertà che io vivo non soltanto guardando al mio ombelico, incurvato in me stesso, per usare un'espressione di Martin Lutero, ma un'autodeterminazione che io vivo nella mia relazione con Dio, con gli altri, e anche con il medico. L'autodeterminazione è fondamentale ma in questo quadro complesso di relazioni.
la vita è un dono, di cui prendermi cura
E poi, il terzo aspetto che è condiviso dalle diverse prospettive è che la vita, anche nel suo aspetto biologico è sicuramente un dono, e questo la Scrittura ci invita a riconoscerlo, pagina dopo pagina, ma è un dono non indisponibile in senso assoluto. Questo andrebbe certamente più sviluppato ma molto spesso si sente declamato il principio della indisponibilità della vita umana. Cioè se tu hai ricevuto la vita da un donatore, che è Dio, tu di quel dono non ne disponi in senso assoluto, quindi la vita umana in quanto tale è e rimane indisponibile.
Siamo proprio sicuri che la logica del dono presupponga questo tipo di relazione? Io posso ricevere un dono ed essere invitato a prendermene cura, anche quello rispetta la logica del dono. Anche quello considera una condizione di responsabilità, cioè una risposta che io articolo verso questo dono. Peraltro, piccola considerazione storica, che nulla ha a che fare con il dibattito attuale sui temi bioetici, ma la vicenda cristiana conosce delle eccezioni al principio di indisponibilità della vita umana. Pensate alla tematica dei martiri cioè quelle persone che, nei primi secoli in particolare della vicenda cristiana, sceglievano la morte per la fedeltà della propria fede. In quel caso, dov'è l'indisponibilità della vita?
Allora, vedete che la questione è complessa, però quelli sono i tre presupposti fondamentali ai quali si fa riferimento e c'è condivisione.
le principali divergenze
Quali sono le divergenze principali - e qui concludo - tre punti e poi vi lascio in santa pace.
non sempre c'è differenza tra uccidere e lasciar morire
La Concordia di Leuenberg e quindi la maggior parte delle chiese protestanti europee mantiene sempre come vigente la distinzione concettuale tra uccidere e lasciar morire. La distinzione che si sottolineava in precedenza. C'è sempre una differenza tra uccidere e lasciar morire. Sì, c'è sicuramente una differenza. Questo principio vale nella sua linearità, ma il principio presuppone altre eccezioni. È proprio vero che in tutte le situazioni tra uccidere e lasciar morire ci sia una differenza?
Un esempio molto concreto. Tra l'altro portato spesso da un pediatra olandese che è uno degli autori, anzi l'autore principale di un documento molto interessante, il Protocollo di Groningen, un testo che affronta un tema delicatissimo, che è l'eutanasia in casi pediatrici, tema molto particolare, e il dottore Verhagen, così si chiama quest'uomo, che ho avuto la possibilità di conoscere, persona assolutamente sensibile, molto piacevole. Lui dice sì, uccidere e lasciar morire, quale differenza c'è tra spingere una persona in un fiume e quindi farla annegare e osservare dalla riva una persona che annega senza fare nulla? Cioè si può dire che è un caso diverso, sì è un caso diverso, ma rende bene l'idea di una tensione che c'è insita in questo principio. Ci sono situazione nelle quali è chiarissimo che una cosa è uccidere e una cosa è lasciar morire, ma vi sono anche situazioni dove non soltanto l'effetto non cambia ma anche la modalità di non intervento, dal punto di vista per esempio giuridico non si configura in modo diverso. La spinta e il fatto che io osservi qualcuno che sta annegando senza far nulla... allora è omissione. Allora, è sempre valido questo principio per cui l'aiuto attivo nella morte sarebbe di per sé più moralmente discutibile che non il lasciar morire? Ecco, da questo punto di vista, io ho una grande domanda. Io non credo che in tutti i casi questa differenza possa essere mantenuta.
Anche perché, e qui torniamo nel campo delle cure palliative, come probabilmente voi sapete, una delle possibilità palliative oggi a disposizione proprio nella malattia terminale è la cosiddetta sedazione profonda continua. Cioè il mantenere la persona, il paziente, in stato di incoscienza fino alla morte. Molto spesso negli anni passati si riteneva che la sedazione palliativa profonda continua anticipasse il corso infausto della malattia, cioè anticipasse la morte. Negli ultimi anni è stato dimostrato che così non è, anzi in alcuni casi la sedazione profonda prolunga almeno un po' la vita della persona in uno stato di incoscienza, perché riduce il fabbisogno con poco, il necessario per respirare, ecc.
Perché anche questa soluzione non risolve tutti i problemi? C'è chi sostiene che un conto è non far soffrire, far dormine una persona fino al termine, un conto ucciderla..
Rimane anzitutto però quello che prima anche il professor Piana sottolineava, cioè noi sappiamo molto poco di quegli stati di incoscienza. Non siamo in grado, alla luce degli studi neurologici di definire quali sia il tipo di sensazioni che una persona in stato di sedazione continua profonda viva. È uno stato di sogno? è uno stato di sonno? è uno stato allucinatorio? Chi lo sa.
Secondariamente, le cure palliative permettono oggi - ci sono casi attestati - che permettono di mantenere una persona in stato di sedazione continua anche per una settimana, dieci giorni... Allora, qual è il senso di questo, di fronte, eventualmente, alla richiesta di una persona di poter morire vivendo le ultime ore della sua vita in uno stato di coscienza? Possiamo dire che quella persona sta facendo una domanda che è del tutto inappropriata? Possiamo affermarlo? Vedete che quindi questa distinzione tra uccidere e lasciar morire può essere messa da molti in questione. Non si nega il principio generale, ma si può mettere in questione.
le cure palliative non eliminano radicalmente la richiesta di eutanasia
Seconda emergenza fondamentale che già segnalavo prima, l'idea per la quale le cure palliative risolverebbero la richiesta eventuale di eutanasia. Sicuramente la riducono, sicuramente tutti, in questo caso "tutti" intendo la società intera deve auspicare uno sviluppo sempre maggiore, un'attenzione sempre maggiore alle cure palliative, ma non si può affermare che la cura palliativa elimini in maniera radicale, totale l'eventuale richiesta di eutanasia. Potrebbe però esservi un caso limite, tutti auspichiamo che siano dei casi limite, ma anche qualora fossero uno o due casi limite noi quel problema dobbiamo porcelo.
il piano inclinato e la richiesta di eutanasia
Terzo aspetto. La Concordia di Leuenberg pone una domanda di tipo sociale, cioè la prospettiva di legalizzare eventualmente l'eutanasia nei diversi stati non ci pone dinanzi al rischio a cui già facevo accenno prima di un piano inclinato, come si dice solitamente, cioè, tu fai un primo passo nella legalizzazione di alcuni aspetti, di alcune situazioni, e poi a poco a poco il piano inclinato porta come una valanga a comprendere anche molti altri casi che rappresentano delle zone grigie. Questa è certamente un'obiezione rispetto alla quale ci si deve profondamente interrogare. Credo che dobbiamo assolutamente interrogarci rispetto a questo, pensando anche a delle società, come quelle europee dove l'età media della popolazione cresce in maniera esponenziale e di conseguenza la tematica dell'eutanasia potrebbe anche essere utilizzata come una sorta di arma per ridurre i costi della sanità, alleggerire il peso... Questo tipo di questione è assolutamente seria e dobbiamo tenerne conto, ma non nega ancora l'altro assunto, e cioè il fatto che una persona, inserita in un quadro medico con una prognosi infausta, che abbia espresso volontariamente la richiesta di accesso a un protocollo eutanasico, e che effettivamente alla luce di una valutazione medica sia risultata nella capacità di intendere e di volere e non forzata a questo gesto da pressioni di tipo familiare o di altro genere. Io per rendere un pochettino più leggera la tematica ricordo sempre quella scena di quel film di alcuni anni fa, "Parenti serpenti", dove per Natale questi bravi figliuoli regalano agli anziani genitori una stufetta a gas e, pochi giorni dopo, sul giornale si legge "Esplosione a Napoli due anziane persone muoiono". Quindi, attenzione, se qualcuno vi regala una stufetta a gas... interrogatevi sui significati non detti... Ma a parte questo, io credo che sia necessaria una prudenza sul tema ... le ragioni di chi effettivamente riconosce che anche proprio in un quadro di vita vissuta nella fede, e penso che questo interpelli quasi tutti, in determinate condizioni, l'eventuale richiesta di eutanasia non è contraria a quei principi che hanno guidato la nostra vita, i nostri convincimenti profondi. Questo secondo me è il grande tema sul quale possiamo riflettere e possiamo portare anche il nostro contributo nel dibattito più ampio della nostra società senza che questo significhi che questo debba essere automaticamente tradotto in norme dello stato, perché implica questo secondo aspetto un dibattito più ampio che tenga in considerazione non soltanto le mie esigenze, le mie prospettive, ma anche le esigenze e le prospettive degli altri che insieme a noi vivono in questa società. Grazie per la vostra pazienza.
dibattito
Giannino:
parto un po' da lontano, nel senso di rimettere a fuoco due o tre questioni che sono state sollevate dall'intervento dell'amico valdese.
sull'eutanasia passiva e l'autodeterminazione
Il concetto di eutanasia passiva, io non lo accetto, di fatto: quella concezione restrittiva di eutanasia che dicevo. Però ci sono delle situazioni, in cui come ha detto verso la fine, in cui lasciar morire può essere anche negativo, può diventare un elemento di negatività, e quindi in quelle situazioni a cui è stato accennato, è stato evocato quel principio di proporzionalità, per cui, come dicevo anche a proposito della idratazione e alimentazione, ci sono dei casi, e sono la maggioranza, in cui occorre acconsentire a una non-alimentazione e non-idratazione perché ci sono delle condizioni tali per cui non esiste alcuna possibilità di ripresa, di qualità di vita, ecc., e altre situazioni in cui si incorre in un lasciar morire moralmente inaccettabile, perché esistono ancora delle possibilità. Per questo io credo che quel concetto antico di eutanasia passiva, anche pur non qualificandolo come eutanasia, però riemerge in questa dialettica tra le due modalità del lasciar morire.
Sono molto d'accordo anche sul fatto che anche le cure palliative non precludono la possibilità della domanda eutanasica. Certamente rallentano questa possibilità nel senso che esistono tutta una serie di condizioni affrontate dalle cure palliative che fanno sì che quella domanda sia ridimensionata, però la domanda rimane.
Come sono d'accordo sul fatto che l'autodeterminazione non sia una autodeterminazione assoluta, anche perché, e questo lo dico allargando un po' il discorso, i vari principi su cui si regge la bioetica, chiedono che l'autodeterminazione sia giocata accanto ad altri principi, che sono la non-maleficenza, la beneficenza che sono proprie del malato e che sono proprie anche della giustizia e della equità distributiva, che è un criterio relazionale. Per cui, di fatto, che cosa comportano questi criteri? Il primo, quello che mette in gioco la non-maleficenza e la beneficenza (per alcuni è un principio unico, secondo altri c'è una vaga distinzione), è il rapporto tra la libertà del singolo e il bene anche del singolo. Cioè l'intervento del medico non può essere un intervento puramente esecutivo e deve poter gestire responsabilmente ...
L'altro principio, quello di giustizia o di equità distributiva secondo alcuni, che tiene in conto i limiti delle possibilità della medicina, chiama in causa un altro rapporto fondamentale, quello tra libertà e giustizia. Non posso assolutizzare la mia libertà. Se io chiedo per esempio, in base al principio di autodeterminazione, di essere curato in tutti i modi, anche facendo accanimento terapeutico, solo perché "io lo voglio", non soltanto pretendo un'operazione che il medico non accetterà di fare, giustamente, perché non vuole prolungare la vita in quel modo, ma anche faccio un scelta che in qualche misura ricade negativamente sugli altri, che possono essere curati e a cui sottraggo delle potenzialità sia di attività medica, sia di carattere anche economico...
sulla prospettiva della fede
Sul discorso dell'altra vita, invece, rapidissimamente, due osservazioni.. Siamo sul piano della fede. La famosa definizione dantesca, "fede è sustanza di cose sperate "... rimane verissima. La fede è qualcosa che si basa su una speranza, non ha argomentazioni razionali fino in fondo. Poi certo ci sono dei supporti, ma i supporti sono comunque sempre legati a questo atto fiduciario, a questo rimettersi, a questo consentire, a questo aver fiducia, nel probabile, cioè non si può provare razionalmente il discorso della fede, che è sempre accompagnato dal rischio, è sempre accompagnato dal dubbio. La vera fede è una fede che rischia e dubita, non è una fede tranquilla, pacifica, un'adesione incondizionata perché ho tutte le motivazioni davanti. Questo vale anche per la fede sul piano antropologico, perché quando scelgo una persona, non la scelgo perché è più bella, e più buona, dato che ci sono persone molto più belle e più buone... ma la scelgo perché è lei. Quindi mi rimetto, faccio un atto di fiducia, faccio un atto di riconoscimento dell'altro - e nel caso del credente è l'Altro con la A maiuscola. Ci sono sempre degli elementi di valutazione anche positivi, ma poi c'è l'esigenza del salto. Del salto nella persona.
sacralità e qualità della vita
Il principio della dignità della vita è riuscito in qualche modo secondo me a far superare la contrapposizione tra sacralità della vita e qualità della vita, che sono in dialettica tra di loro.
Da una parte c'è il discorso della sacralità - tipico del mondo cattolico - che ha insistito molto sulla vita che ci è data da Dio e quindi intangibile. In qualsiasi circostanza è Dio che decide la sorte ultima delle nostre vite. Perché la vita è sacra.
Ma d'altra parte c'è il discorso sulla qualità della vita... Ora c'è vita e vita: se si accentua il discorso della sacralità si ricade in una visione della vita come dato puramente biologico, una visione materialistica. La vita umana però non è soltanto il dato biologico. Anzi, la vita umana è molto più del dato biologico, che pure ha una sua consistenza originaria, ma va proiettato anche verso quelle dimensioni personali, relazionali, coscienziali a cui abbiamo fatto riferimento questa sera.
Quando si dice qualità della vita, di quale qualità si parla? È il benessere materiale, è la capacità di relazionarsi con persone? Sono difficilissimi i criteri di valutazione della qualità. Corrispondono poi alle ideologie diverse che si hanno della vita. E questo chiama in causa una serie di problemi che rendono difficile la risposta in alcune situazioni particolari, quando si deve affrontare il tema.
Il discorso della dignità è un po' visto come un discorso intermedio, che tiene conto anche di quella che il pastore definiva come aspetto rilevante di indisponibilità, anche se non assoluta. Perché la dignità radica in sé dei principi, dei diritti che sono fondamentali.
Dall'altra parte però anche il principio di dignità poi viene giocato tenendo conto delle situazioni e delle diversità, per cui è vero che anche il concetto di dignità poi si presta a valutazioni diverse. Se per un verso fa superare in qualche misura quella dialettica negativa tra qualità della vita e sacralità della vita, però per altro verso non ci fa uscire del tutto, anche se le misurazioni della dignità della vita hanno in qualche modo nelle Carte dei diritti degli elementi di valutazione. Certo anche le carte dei diritti hanno un carattere di storicità e quindi senza pretese di assolutezza. Forse formalmente sì. Io dico sempre che la categoria dei diritti umani è formalmente universale, i contenuti dei diritti umani sono storici e particolari. Questo mi pare un dato fondamentale.
Sul dono sono abbastanza d'accordo con quello che dice Hans Küng. Il dono, visto in rapporto di alleanza, che presuppone certamente l'azione di Dio ma anche la risposta libera dell'uomo, il dono non è qualcosa che deve mummificare, che diventa un assoluto di cui non posso più disporre, ma il dono è qualcosa che mi è dato perché io lo gestisca responsabilmente. Questo è quello che Küng dice e che mi pare abbia una sua validità, una sua consistenza, pur giocato in una logica di responsabilità.
Jourdan
sulla dignità della vita
Che cos'è il rispetto, chi decide del rispetto? La moglie per il marito? il marito per la moglie? il genero per la suocera?...
Che cosa è dignità? È una domanda che apre un abisso profondo. Nel senso che se noi soltanto facciamo riferimento alle carte dei diritti, alle carte costituzionali, alla storia che conosciamo un po' tutti, che cos'è la dignità? È libertà, uguaglianza, fraternità? È poter perseguire la felicità, come dice un altro testo piuttosto famoso coevo della Rivoluzione Francese?
Se ci trasferiamo nell'orizzonte biomedico, che cos'è dignità? Lo sguardo che la persona malata ha su di sé dice tutto della dignità? Dice ovviamente la sua percezione che dev'essere considerata, ma dice anche del mio sguardo su quella persona? Io credo di no. Questo non significa, non mi fraintendete, che lo sguardo del malato non debba essere considerato. Dico soltanto che c'è una tensione.
Faccio un altro esempio, io amo molto l'aneddotica, se non l'avete ancora capito, per illustrare bene i paradossi. Un esempio che viene dal vissuto pastorale. Mi capita di visitare una signora, una persona, una sorella delle nostra chiesa, la quale ha raggiunto l'età di 101 anni. E lei molto spesso mi accoglie dicendomi: "Ah, pastore, non è più come quando ne avevo 85, lì sì che stavo bene!". E io normalmente questa frase la riporto quando visito un'ottantenne che mi dice: Eh, non è più come quando ne avevo 70...". Questo semplicemente per mettere in luce la tensione rispetto alla percezione, dei modi con cui consideriamo la nostra vita degna, anche quando la salute ancora ci accompagna.
Quindi io credo che sia importante continuare ad insistere sull'idea fondamentale del diritto umano a cui la dignità fa riferimento. Quali siano poi i contenuti specifici va di volta in volta precisato. Ciò che vale come percezione della dignità nella nostra società è influenzato indubbiamente anche da tutta una serie di sviluppi di ordine biomedico che nel quadro di altre società non si pongono. Quando noi ci interroghiamo sulla dignità del nostro morire alla luce delle possibilità che ci sono date di fruire per esempio di un protocollo di cure palliative, che poi venga applicato o non applicato, questo è ancora un altro paio di maniche, ma in un paese dove per esempio la garanzia di una possibile ospedalizzione, la garanzia di un sistema sanitario che funzioni, non è data, tutta questa percezione varia. Questo è un tema complicatissimo e io non sono in grado di approfondirlo ulteriormente.
Ecco, Luca Savarino sta scrivendo un libro sul tema della dignità, quando uscirà, tenete d'occhio le case editrici magari la prossima volta mi invitate a parlare di dignità.
suicidio assistito
Sulla questione della dichiarazione del suicidio assistito, forse avete capito dalle mie frasi, devo dire che io non sono un grande fan del suicidio assistito, per come è vissuto oggi in alcuni contesti della società anche europea perché nella maggior parte dei casi mi pare una forma legislativa assolutamente elitaria, come è già stato sottolineato. Non è che io posso dire di poter scegliere, di andare in Svizzera. No, io posso scegliere se ho delle possibilità di un certo tipo perché altrimenti non ho scelta. E questo non è umanizzante. Prima considerazione.
Seconda considerazione, io credo che la logica del suicidio assistito, rispetto all'eutanasia, non tenga conto di una dimensione che veniva citata poc'anzi anche di beneficenza e in una prospettiva di espressione di cura e di amore del prossimo, perché il suicidio assistito a un certo punto sgancia la cura. Mi rendo conto che questo è un discorso molto complesso, soprattutto quando lo si affronta ad esempio con dei medici che giustamente vivono molto spesso la tematica eutanasica con grande sospetto. Perché noi adesso parliamo di casi ipotetici, ma se io come medico dovessi trovarmi nell'esigenza di uccidere una persona su sua richiesta, sarei dal punto di vista anche psicologico forse profondamente turbato, ferma restando la prognosi infausta, ferma restando la volontarietà della richiesta, ma in una prospettiva diversa rispetto a quella per esempio del morente. Io credo che in ogni caso l'eutanasia rappresenti in un certo senso un segnale di maggiore accompagnamento rispetto al suicidio assistito. Perché nel suicidio assistito, pur accompagnando io abbandono la persona al suo gesto che può avvenire con una mano, che può avvenire nel caso di persone colpite da paresi muovendo uno stantuffo, però c'è questo distanziarsi... Tanto più mi interroga l'efficienza effettiva di queste dichiarazioni, in casi come quello di Loris Bertocchi che ha scelto il suicidio assistito perché abbandonato dalla società. Loris Bertocchi era un uomo del trevigiano, la cui morte è avvenuta in Svizzera, un paio di anni fa. Il caso è divenuto famoso per una lettera pubblicata sul quotidiano La Repubblica. Una quarantina di anni prima aveva avuto un incidente che aveva determinato una paresi quasi completa, dalla quale si era poi ripreso, e aveva riacquistato una possibilità di vita "normale", uso questo termine impropriamente, ma ci capiamo. Era stato accompagnato dalle cure della sua compagna e della madre. Poi la sua vita è cambiata, le sue condizioni di salute sono nuovamente peggiorate e a un certo punto lui si è trovato di fronte al rischio di rimanere completamente solo, non aveva più sostegno da parte del servizio sanitario che gli permettesse di vivere, non aveva dai familiari un sostegno sufficiente. Era rimasta solo la sua anziana madre. E quest'uomo, che aveva lottato per quarant'anni con la volontà di vivere, ha scelto di andare in Svizzera. Questo per me è l'esempio di ciò di fronte a cui la nostra società non deve abdicare. Questa non è la scelta autonoma, non ha niente a che fare con la questione dell'autodeterminazione, della libera scelta, della buona morte. Questo è il riconoscimento di un abbandono nel quadro di una società che non guarda più in là del passettino della propria porta di casa. Ecco, indubbiamente in questa prospettiva parlando di queste tematiche, aggiunge un elemento ulteriore rispetto al quale non è che dobbiamo dire che non ne parliamo più, ma facciamo attenzione a valutare le differenze di certe situazioni. Il caso Bertocchi un caso eloquente di una scelta dettata dalla pura disperazione. Quella disperazione che io credo una società civile e dignitosa non deve accettare.