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Modelli alternativi di economia, di lavoro, di produzione di beni

sintesi della relazione di Giannino Piana
Verbania Pallanza, 28 aprile 2012

La riflessione di oggi si inquadra nel contesto generale del corso di quest'anno dedicato ai cristiani interpellati dalla crisi, ai credenti che dovrebbero ispirare la loro condotta alla visione della vita che sgorga dal vangelo, provocati dalla crisi economico-finanziaria, che è anche crisi culturale ed etica.
Questo incontro, come quello che si terrà tra quindici giorni, è dedicato alla parte più propositiva, al "che fare" di fronte alla crisi, sia sul piano degli stili di vita (su come siamo interpellati a cambiare il nostro modo di rapportarci alla realtà, il nostro modo di vivere quotidianamente le scelte che facciamo, da quelle più semplici, più feriali, a quelle anche più importanti), sia sul piano dei cambiamenti strutturali che in apparenza sembrano toccarci meno direttamente. Mentre gli stili di vita ci coinvolgono immediatamente, i cambiamenti strutturali vanno oltre le responsabilità individuali, pur coinvolgendole. Ognuno di noi infatti non è chiamato solo a fare delle scelte private, ma anche a compiere delle scelte pubbliche, impegnative, che riguardano la conduzione della vita economico- sociale e della vita politica.
Questi aspetti strutturali sono l'oggetto della riflessione di oggi, che dovranno poi collegarsi con la riflessione che tra 15 giorni verrà offerta sui comportamenti più immediati, sulle scelte quotidiane di vita.

una crisi di sistema

La crisi che stiamo vivendo non è solo finanziaria, ma anche culturale ed etica, è una crisi cioè di quei valori culturali e civili, attorno ai quali si è costruita la convivenza umana sia nel nostro paese che nel mondo intero.
La tesi di fondo da cui partirò, anticipata dal primo intervento del corso, è che la crisi attuale non è una crisi congiunturale, ma di sistema. È il sistema economico sociale, politico, culturale, che per tanto tempo ha dominato l'Occidente e che è stato poi esportato un po' ovunque, ad essere entrato profondamente in crisi. Il superamento di questa crisi comporta non semplici aggiustamenti ma cambiamenti veramente radicali e alternativi, sia sul piano delle strutture che negli stili di vita.
La riflessione sarà articolata in due momenti. Nel primo si farà una diagnosi della crisi attuale, non dal punto di vista strettamente economico ma da quello delle radici antropologico-culturali. A partire dall'analisi di queste radici sarà possibile nel secondo momento fare il discorso propositivo sul cambiamento degli aspetti strutturali.

Le ragioni strutturali e culturali della crisi

A essere in crisi è il progetto neoliberista dell'Occidente, che è giunto ad una fase di non ritorno, ad una fase di implosione. La volontà perseguita ancora oggi da molti di mantenere in piedi questo modello economico-sociale, che riflette anche una concezione culturale, una concezione antropologica, una visione dell'uomo, è destinata al fallimento.
Quali sono le cause, sia di carattere strutturale, cioè legate al sistema economico sociale, sia di carattere antropologico culturale, che hanno prodotto questa crisi?

capitalismo selvaggio e senza regole

Una prima causa è l'affermarsi di un capitalismo selvaggio e senza regole, diventato unico sistema senza alternative dopo la caduta del muro di Berlino e la crisi dei paesi del socialismo reale, cioè dei paesi a sistema di economia pianificata.
A fronte dell'implosione del sistema a economia pianificata, è venuta emergendo progressivamente la tendenza a dar sempre più spazio a una forma di capitalismo basato sulla deregulation, sull'assenza di regole. Grande enfasi è stata posta sul capitalismo come unico sistema, sul libero mercato come forma più produttiva rispetto alle forme di economia controllata e pianificata.
L'esplosione del processo di globalizzazione, con i sistemi economico-finanziari e informativi che scavalcano le frontiere nazionali, rende sempre più difficile agli stati-nazione, in assenza di un'autorità mondiale, controllare la situazione. Le ideologie del Novecento sono state sostituite dalla nuova ideologia - nata come antiideologia rispetto alle precedenti ideologie totalizzanti - del mercato unico mondiale, senza regole e senza controllo, proprio del capitalismo selvaggio.
Con l'affermarsi delle teorie economiche liberiste e neoliberiste, trionfa un unico criterio. quello della massimizzazione della produttività e del profitto: fare sempre più profitto e creare le condizioni che permettano, grazie alle innovazioni tecnologiche, una produzione sempre più elevata. Il risultato è stato da un lato il disastro ecologico, l'espropriazione della natura, e dall'altro un crescente divario tra le classi sociali e tra i paesi. Anche in Italia è cresciuto moltissimo il profitto di una élite ridottissima di soggetti ed è diminuito il profitto della maggior parte dei cittadini, dei lavoratori, in particolare di quelli dipendenti. Anche la delocalizzazione di aziende in paesi senza diritti dei lavoratori e con salari bassissimi ha arricchito alcuni e impoverito molti. Conseguenza di questa situazione è la crescente disoccupazione, in particolare quella giovanile, in Europa e nel nostro paese.

finaziarizzazione dell'economia

Una seconda causa della crisi è la finanziarizzazione dell'economia, soprattutto a partire dagli anni '90. L'economia finanziaria, nata come strumento a servizio dell'economia produttiva, è diventata egemone. Il reddito mondiale dell'economia finanziaria è sette volte quello dell'economia reale. L'economia finanziaria è un'economia fittizia in cui il denaro riproduce se stesso, con giochi complessi dei mercati finanziari che tengono in scacco l'economia mondiale. Lo spread, che ogni sera sentiamo annunciare, è stabilito dai mercati finanziari, che, a volte anche solo sulla base di ragioni psicologiche, provocano avanzamenti o arretramenti della situazione economica di un paese, o dell'intera Europa.
In questa situazione la politica è diventata una variabile dipendente del sistema economico e sociale. Mentre la sfera di influenza della politica è all'interno del singolo paese, i problemi economici e sociali e quelli dell'informazione hanno ormai una portata mondiale. I poteri forti sono i poteri dell'economia e dell'informazione, spesso in mano agli stessi soggetti. La politica è così diventata un potere dipendente dai poteri forti.

un ideale benesseristico

Un'altra ragione della crisi è il perseguimento di un ideale benesseristico che identifica la realizzazione umana, la felicità di un paese, con l'aumento del Pil (prodotto interno lordo). Si dimentica però che il Pil è una media fatta solo sul piano quantitativo che non tiene conto della crescente sperequazione tra le persone. Ci sono soggetti che incorporano gran parte del Pil e altri, più numerosi, che sono in situazione di marginalità. Il Pil indica l'accumulazione complessiva di ricchezza, non la sua equa distribuzione.
Inoltre, al di là di un sufficiente livello economico di base, ci sono altri criteri non economici che influenzano lo star bene, come l'istruzione, la sanità, la sicurezza, tutti fattori che hanno a che fare con la qualità della vita, con la qualità delle relazioni che si instaurano all'interno di una società

il presupposto individualistico

La quarta e ultima causa è il presupposto individualistico che sta alla base del sistema capitalista. La molla dello sviluppo economico è l'interesse individuale, è l'individuo in quanto tende alla realizzazione del proprio interesse. Su questo presupposto nasce e si sviluppa la teorica economica liberista e neoliberista.
Questa visione dell'uomo in Occidente ha delle radici che vengono da lontano e che è opportuno analizzare bene perché l'uscita da questa situazione di crisi è possibile solo ribaltando il presupposto individualistico con principi più relazionali.
Un antesignano di questa concezione dell'uomo come individuo visto pessimisticamente, in quanto guidato semplicemente dalla ricerca del proprio interesse spinto dall'egoismo individuale, è Macchiavelli. Le doti o le virtù del principe che deve reggere le sorti della città sono da un lato la forza, la violenza ("il lione"), dall'altra l'astuzia ("la volpe"). Sono necessarie queste "virtù" per far valere la ragione di stato.
Questa visione individualistica e pessimistica è almeno in parte presente nella riforma protestante, sia nella concezione luterana del libero esame e della fede (nel cattolicesimo è affermata maggiormente la dimensione comunitaria del credere) sia nella concezione calvinista della riuscita economica come segno della predestinazione. Weber dirà per questo motivo che la nascita del capitalismo è stata favorita dalla riforma protestante.
Il teorizzatore di questa visione dell'uomo insieme individualista e pessimista (a guidare l'uomo è l'interesse individuale inteso in senso egocentrico o egoistico a prescindere da qualsiasi forma di attenzione all'altro) è stato Hobbes per il quale l'uomo allo stato di natura è mosso dal principio dell'autoconservazione e dall'egoismo del desiderio. L'uomo è lupo per l'altro uomo (homo homini lupus), il rapporto tra umani è di sopraffazione, di violenza, di negazione dell'altro. Per evitare questa situazione disastrosa, il bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti, è necessario uscire dallo stato di natura con un patto sociale in base al quale ognuno rinuncia a una parte della propria libertà per consentire l'esercizio della libertà altrui. Necessario, per l'osservanza del patto, è il sovrano assoluto, che si pone oltre il patto per poterlo fare osservare.

il pensiero unico

Questa visione individualista e pessimistica si riflette anche nell'ambito dell'economia, con l'avvio del processo di industrializzazione, con il passaggio da una società prevalentemente agricolo-commerciale a una società industriale. L'industrializzazione favorisce la nascita di un nuovo sistema economico, che va sotto il nome di capitalismo. Anche se non era l'unico sistema possibile, come giustamente sostiene Marx, di fatto storicamente con l'industrializzazione nasce il capitalismo, il mercato sempre più esteso, il libero scambio, la concorrenza per stare sul mercato, ecc. La scienza economica non fa altro che razionalizzare il sistema, sacralizzandone le leggi.
Oggi trionfa l'ideologia del mercato come pensiero unico. La logica del mercato, che è la logica produttiva, della massimizzazione del profitto, dell'interesse individuale, diventa la logica secondo cui avvengono tutte le scelte di vita. Sempre meno ci chiediamo "che senso ha?" e sempre più "a che serve?" Quasi istintivamente vediamo tutto secondo una prospettiva utilitaristica, economicistica.

ipotesi di fuoriuscita

Come uscire da questa situazione sul piano strutturale, a livello di sistema economico-sociale? Che fare? Quali ipotesi alternativa funzionante di sistema economico, quindi insieme efficiente e giusto, capace non solo di perseguire il benessere economico ma anche di promuovere una crescita umana complessiva? È qui in gioco il rapporto che deve esistere tra economia ed etica, cioè tra efficienza e solidarietà, tra efficienza ed equità, tra efficienza e giustizia.
I tentativi finora fatti negli Stati Uniti e in Europa per uscire dalla crisi sono stati molto parziali, volti ad aggiustare e correggere il sistema, senza rimetterlo in discussione.
Se la crisi è di sistema e non solo congiunturale sono necessarie vere alternative rispetto all'economia dominante. Non bastano aggiustamenti destinati un domani a riproporre gli stessi problemi.
Lo stesso tentativo che sta facendo il governo Monti in Italia (provvidenziale per certi versi), si muove dentro una logica neoliberista, tendenzialmente orientato a risanare il debito pubblico, ma non a rilanciare un'economia nuova, che faccia leva anche su prospettive nuove di sviluppo del paese, più attente ad esempio alla dimensione ambientale, e capaci di creare nuove opportunità di lavoro.
Anche il dibattito culturale sulle nuove prospettive è abbastanza povero. Alcuni economisti premi Nobel come Amartya Sen e Joseph Stiglitz hanno rimesso in discussione il sistema in modo serio, ma non hanno trovato una grande riscontro in coloro che operano sul piano economico e politico nell'economia reale. In Italia sono da segnalare le riflessioni avviate da Luigi Pasinetti, da Stefano Zamagni e da Luigino Bruni, che sviluppano soluzioni alternative rispetto al sistema economico dominante oggi in crisi.
Bisogna tornare, come sostiene il premio Nobel Amartya Sen, a rieticizzare l'economia. L'economia non può funzionare se non fa riferimento ad un quadro di valori. Bisogna rieticizzare l'economia per motivi economici. Oggi, ciò che è eticamente negativo è anche economicamente improduttivo.
Il sistema economico liberista, ad esempio, che puntava tutto sulla libera iniziativa, guidata dall'interesse privato, che aveva come campo di lavoro il mercato, il mercato senza regole, ecc., ha prodotto un eccesso di uso delle risorse, che oggi si manifesta anche come problema per l'economia. Per un verso ha moltiplicato le fonti di inquinamento dei beni fondamentali per la vita come l'aria, l'acqua, la terra, e per un altro verso ha espropriato di risorse, molte delle quali non rinnovabili, il pianeta, con la prospettiva di rendere impossibile il funzionamento dello stesso sistema economico. Se si devono mettere in atto dei processi per contenere l'inquinamento il costo diventa proibitivo e antieconomico.
Analogamente Sen sostiene che questo sistema economico ha creato una serie di squilibri sia all'interno dei singoli paesi, sia nei rapporti tra i diversi paesi, che sono destinati a suscitare una conflittualità a livello mondiale sempre maggiore. Gli squilibri comporteranno per una grande fetta della popolazione l'impossibilità di accedere ai consumi, inceppando così il funzionamento del sistema economico
Una logica alternativa è richiesta anche dall'esigenza di affermare la centralità della produzione rispetto alla distribuzione. Per molto tempo si è ritenuto che il problema etico dell'economia riguardasse soprattutto la corretta distribuzione dei beni prodotti. Oggi sul piano etico si ritiene sempre più importante non solo un'equa distribuzione della ricchezza, ma anche quali beni vengono prodotti, in che modo e per chi. I beni prodotti possono soddisfare bisogni veri oppure alienanti, ostacolando la realizzazione delle persone.

presupposti etici

I presupposti, su cui mi soffermerò rapidamente, sono cinque.

un modello di sviluppo sostenibile

Un primo presupposto etico per un'economia a servizio dell'uomo è un modello di sviluppo compatibile o sostenibile.
Il modello di sviluppo finora perseguito dal sistema economico è quello della massimizzazione della produttività e del profitto, del libero mercato, del mercato senza regole, della concorrenza assolutamente libera. Questo modello, come abbiamo visto, si basa sulla concezione che la molla dell'economia è il singolo guidato dall'interesse individuale. È un modello di sviluppo di tipo rigidamente quantitativo, dove conta soprattutto produrre di più e consumare di più.
La prima rivoluzione economica è guidata soprattutto dalla logica produttivistica: bisogna produrre di più perché si tratta di produrre beni fondamentali. A sostegno di questa logica c'è l'etica della produttività, l'etica del lavoro, l'etica del risparmio, che consente poi di reinvestire in produzione. È anche l'etica della solidità delle istituzioni, quella familiare in primo luogo, che gioca un ruolo determinante anche in funzione di quel modello di economia.
La seconda rivoluzione industriale prevede non più tanto un primato della produttività, quanto quello del consumo. Il produrre di più è sempre molto importante, ma poiché i bisogni fondamentali sono stati soddisfatti, occorre ora incentivare il consumo. L'etica che ne deriva non è più l'etica del risparmio, ma è l'etica della spesa, dell'usa e getta, l'etica che implica tutta una serie di comportamenti che vanno nella direzione del consumo, in quanto il consumo diventa il criterio fondamentale di sviluppo del sistema. Nasce la cosiddetta società consumista, che si estende ben oltre il terreno economico. Tutto, anche i rapporti interpersonali, anche la sessualità, viene concepito come realtà da consumare, come merce di scambio. Si forma così una mentalità legata strettamente a questa visione economica della realtà in cui centrale è l'idea di consumo.
Il modello di sviluppo che invece occorre far nascere in alternativa è un modello che tiene conto delle risorse limitate, che tiene conto dei problemi dell'inquinamento a livello ambientale, che tiene conto del fatto che la semplice maggiore produzione di beni non è sufficiente a soddisfare i veri bisogni umani, che sono bisogni anche immateriali, quali quelli relazionali. Occorre oltrepassare una logica puramente quantitativa con una logica che, non negando importanza alla quantità, tuttavia metta in primo piano la qualità della vita, la qualità delle relazioni dell'uomo con se stesso, con l'altro, con il mondo, con le cose, con il tempo, ecc.
Il modello alternativo di sviluppo va allora pensato non solo come compatibile con le risorse disponibili, ma anche in funzione della qualità della vita.

restituire centralità al lavoro

Un secondo presupposto etico è la restituzione di centralità al lavoro. Nel sistema economico c'è sempre stato il problema del rapporto tra lavoro e capitale. Oggi c'è sempre più la tendenza a dare centralità al capitale, non soltanto a quello produttivo, ma soprattutto a quello finanziario che, come abbiamo già sottolineato, sta sempre più condizionando l'attività produttiva. Tante aziende, sorte per svolgere attività produttive, si sono ridotte a essere prevalentemente o quasi esclusivamente finanziarie.
Restituire centralità al lavoro significa anzitutto superare una concezione del lavoro come merce, significa rimettere il lavoratore al centro, sia all'interno dell'impresa che all'interno anche del sistema economico.
La mercificazione del lavoro è oggi molto presente nella nostra società. Come sostiene il sociologo torinese Luciano Gallino, che molto ha riflettuto su questo tema, mai il lavoro è stato così mercificato come in questi ultimi tempi. Gallino propone di ritornare a Marx e alla sua denuncia rigorosa, anche sul piano scientifico, della mercificazione del lavoro. Bisogna recuperare quegli aspetti del pensiero marxiano che conservano una grande attualità, come il concetto di lavoro come merce o come quello di plusvalore (si pensi al plusvalore finanziario che domina l'attuale economia). Rimettere al centro il lavoro vuol dire far sì che il diritto al lavoro - uno dei diritti sociali fondamentali che la nostra costituzione riconosce insieme a quelli all'istruzione e alla salute - sia di fatto riconosciuto, creando quelle condizioni che rendano possibile tendenzialmente a tutti accedere al lavoro. È vero che esiste un certo livello di disoccupazione anche in sistemi che funzionano, ma un conto è una disoccupazione residuale, un conto è quella patologica che riscontriamo oggi in Italia o in Spagna.
Rimettere al centro il lavoro vuol dire poi non solo garantire la possibilità di accedervi, ma anche restituire qualità al lavoro.
Il passaggio dalla meccanica all'informatica ha trasformato le condizioni di lavoro. È diminuita la fatica fisica, ma sono aumentati altri aspetti negativi e potenzialmente alienanti del lavoro sul piano psicologico, per la ripetitività, per la passività (solo controllo della macchina, senza creatività).

profitto sociale

Un altro presupposto è il primato del profitto sociale su quello aziendale. Evidentemente il profitto aziendale è necessario per poter reinvestire, innovare sul piano tecnologico ed essere competitivi. Il profitto però non può essere solo e primariamente quello della azienda che lo ricava esternalizzando magari i costi negativi, soprattutto quelli ambientali, come ancora oggi spesso avviene. Nonostante la legge Merli (Legge 319/76) abbia obbligato molte aziende nel nostro paese a riparare i danni che avevano largamente provocato in campo ambientale, molto resta ancora da fare.
Il profitto aziendale va valutato sulla base di un profitto più generale, sulla base cioè del profitto sociale, che comporta sia la non esternalizzazione dei costi a favore soltanto dei benefici, sia l'attenzione alle ricadute positive che la propria attività produttiva ha sulla società. Questo vuol dire che occorre valutare quali beni vengono prodotti, come e per chi vengono prodotti. Ci sono dei bisogni che chiedono di essere primariamente soddisfatti, e altri che possono anche esserlo, a condizione che siano stati soddisfatti quelli fondamentali. Centrale, come già si diceva, è il discorso sulla produzione.

primato dell'economia produttiva

L'economia finanziaria ha una sua funzione e ha svolto anche funzioni sociali importanti, come nel caso delle banche di piccolo credito che hanno sostenuto varie forme di microeconomia, soprattutto nel contesto dell'artigianato e dell'agricoltura. Non si può eliminare il sistema finanziario. Il sistema finanziario però non può avere il primato rispetto all'economia reale, produttiva, ma al contrario deve tornar a svolgere la sua funzione di sostegno a tale economia.
L'attuale primato dell'economia finanziaria ha pesanti risvolti negativi anche sul piano del funzionamento del sistema economico generale.
Come sostiene Sen ciò che fino a ieri era eticamente inaccettabile è diventato oggi economicamente improduttivo. Un modello di sviluppo puramente quantitativo, oggi, è economicamente improduttivo. Una assenza di centralità del lavoro è, oggi, economicamente improduttiva. Un profitto aziendale che prevarica in assoluto sul profitto sociale è improduttivo economicamente, non fa funzionare globalmente l'economia. E così via.

ruolo insostituibile della politica

L'ultimo presupposto etico, è il ruolo insostituibile della politica. Occorre ristabilire il primato della politica rispetto all'economia.
C'è una relativa autonomia dell'economia, che non può essere guidata direttamente e totalmente dalla politica. Ma c'è un primato da restituire alla politica. La politica oggi soffre di una debolezza, che è dovuta sia al fatto che gli stati nazionali non sono in grado di affrontare problemi che vanno al di là delle loro frontiere, sia al fatto che i poteri forti, quello economico e quello dell'informazione, tendono ad asservire la politica.
Occorre invece restituire centralità alla politica che è il perno della vita collettiva. In quanto perno, la politica deve poter dettare legge, cioè dare regole anche all'economia, in funzione di un mercato che sia davvero libero. Non c'è niente di meno libero di un mercato liberista, perché è un mercato nel quale possono affiorare soltanto pochissimi soggetti, in cui nascono i trust, le multinazionali, tutte quelle forme egemoniche che fanno sì che chi volesse intervenire sul mercato non è messo nella possibilità di farlo. L'antitrust ha proprio la funzione di creare condizioni di libertà sul mercato. Laddove il trust esiste c'è un monopolio, o, se sono più soggetti, un oligopolio, che impedisce ad altri di accedere al mercato, che impedisce la libera iniziativa. Paradossalmente non c'è nulla di meno libero di un mercato liberista.
La politica, oltre a fissare delle regole al mercato, ha anche il compito di dirigere il mercato. L'economia non può essere lasciata a se stessa. Ci sono anche degli obiettivi prioritari, di bene comune o di interesse generale, che devono orientare lo sviluppo economico, in direzione della soddisfazione di bisogni che sono più fondamentali.
Si può esercitare questa funzione non attraverso l'occupazione dell'economia da parte dello Stato, come sbagliandosi è fatto in Italia nel dopoguerra, ma, ad esempio, attraverso il controllo del credito, assegnato a chi effettivamente produce beni che sono fondamentali.
La politica esercita il suo primato rispetto all'economia, orientandola e fissandone le regole.

un modello di economia civile

Il modello proposto è quello della economia civile, espressione usata in Europa, o della democrazia economica, espressione preferita negli Stati Uniti.
Con l'espressione "economia civile" si vuole sottolineare soprattutto il ruolo della società civile come soggetto promotore dell'attività economica, come perno attorno a cui ruota l'economia, sia pure nel rispetto delle funzioni dello Stato e delle funzioni del mercato.
Con l'espressione "democrazia economica" si intende sottolineare soprattutto la finalità, e cioè la democratizzazione dell'economia.
La democrazia, come anche Norberto Bobbio aveva sostenuto, è una realtà perennemente in divenire. Se si vuole che la democrazia si consolidi è necessario che la democrazia politica si sviluppi in democrazia sociale e in democrazia economica, estendendosi a tutti i settori della vita.
Paradossalmente si può dire che la democrazia di oggi, e soprattutto di domani, o sarà anche democrazia economica e democrazia dell'informazione, o non sarà democrazia, non nel senso che non ci si consentirà di andare a votare, ma nel senso che i poteri forti determineranno anche il voto.
Il concetto di democrazia economica o di economia civile, che sottolinea il ruolo centrale della società civile nel sistema economico rispetto allo Stato e al mercato, non è nuovo, in particolare nella tradizione economica italiana.
Già nel Settecento, Antonio Genovesi, un illuminista della scuola napoletana, nel volume che raccoglie le sue lezioni ("Lezioni di democrazia civile"), sostiene che l'economia, che ha come molla di partenza l'interesse soggettivo, deve servire la pubblica felicità, riprendendo la concezione aristotelica della felicità (eudaimonia), che si realizza tra i soggetti che compongono la polis, come fine dell'etica. L'economia ha sì come molla l'individuo ma in vista della costruzione della relazionalità.
Lo stesso Adam Smith, considerato il padre fondatore dell'economia moderna, nella "Teoria dei sentimenti morali", sostiene che la molla dell'economia è la simpathy, è la simpatia intersoggettiva, è il rapporto di reciprocità che si istituisce tra le persone in virtù della simpatia.
Il concetto di economia civile, che implica la fuoriuscita dalla logica strettamente individualistica, ha quindi dei precedenti.
Oggi ci si rende sempre più conto che la sfera economica ha bisogno di essere radicalmente ripensata in rapporto alla sfera sociale. Le due sfere, quella economica e quella sociale, non possono essere separate. Non si può ritenere che alla sfera economica pensa l'economia, la quale si sottrae a qualsiasi impegno sociale, e alla sfera sociale semmai pensa lo Stato. Non si può più ritenere che all'economia spetti la produzione di beni, prescindendo da qualsiasi valutazione sociale, e allo Stato la loro distribuzione per venire incontro alle esigenze sociali. Sfera sociale e sfera economica sono interdipendenti. La sfera economica non può prescindere dalla sfera sociale e la sfera sociale deve fare i conti con la sfera economica, perché se non si produce non si può neanche distribuire.
La compenetrazione positiva tra dimensione economica e dimensione sociale richiede l'assunzione di tre principi regolativi dell'economia.
Innanzitutto lo scambio di equivalenti, lo scambio sul terreno degli oggetti, il "do ut des" proprio del mercato.
Un secondo principio è quello della distribuzione della ricchezza da parte dello Stato.
Il terzo principio riguarda la dimensione della fraternità, del dono, del riconoscimento dell'altro da parte della società.
Il tema del dono è stato ripreso e valorizzato dalla enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI. Il dono, la reciprocità positiva, si afferma in questa enciclica, si fonda sul recupero della fraternità, valore non solo cristiano in quanto è anche uno dei valori fondamentali della rivoluzione francese, anche se il meno sviluppato. La fraternità indica il riconoscimento positivo dell'altro, il superamento della concezione pessimistica dell'individuo guidato esclusivamente dalla logica dell'egoismo. Nell'uomo, oltre alla spinta alla ricerca di sé, c'è anche la spinta al dono, al riconoscimento dell'altro. Anzi non c'è solo la spinta al riconoscimento dei diritti, ma anche quella a far valere il diritto dell'altro, a creare strutture, grazie all'agire politico, che consentano all'altro di arrivare ad acquisire certi diritti che non aveva.
Ricoeur dice addirittura che l'altro, anche l'altro che non conosco, ma che so esistere o che esisterà, deve essere oggetto della mia responsabilità, attraverso l'azione politica, attraverso cioè la creazione di strutture giuste, che consentono all'altro, ad ogni altro, di essere se stesso, di essere rispettato nella sua dignità, di essere soprattutto riconosciuto di fatto nei suoi diritti.

presupposti antropologici dell'economia civile

il superamento di una concezione individualista

Il primo presupposto antropologico di questa visione è il superamento di una concezione individualista dell'uomo, a favore di una concezione dell'uomo come persona, insieme individuo irripetibile e essere relazionale.
L'uomo in quanto persona è sì individuo originale, irripetibile, ma è anche soggetto di relazioni, soggetto che si autocomprende e si autorealizza solo rapportandosi, come le scienze umane hanno ampiamente evidenziato. Il processo di crescita dell'individuo, e quindi di autocoscienza di sé, avviene sempre in un contesto relazionale, che va dalle relazioni fondamentali, quelle parentali, a quelle più estese.
Anche l'economia, che è una scienza umana come tutte le altre, non può che fare appello a questa visione dell'uomo nella sua integralità, cioè come soggetto insieme individuale e relazionale.
L'economia allora non può non svilupparsi che secondo la logica del soggetto in quanto essere relazionale, secondo la logica della reciprocità e della solidarietà interumana.

rapporto tra sussidiarietà e solidarietà

Un secondo presupposto è il corretto rapporto tra sussidiarietà e solidarietà. C'è stato un lungo periodo della nostra storia occidentale, in cui la preminenza è stata data al concetto di solidarietà. Oggi si sta riscoprendo la sussidiarietà, ma spesso in contrapposizione alla solidarietà. Credo invece che si debba pervenire a una visione unitaria di sussidiarietà e solidarietà. Se si vuole restituire centralità alla società civile, come perno tra stato e mercato, occorre certamente favorire processi di libera iniziativa dal basso, però senza escludere l'esigenza di una regolazione istituzionale. Il rapporto tra libera iniziativa dal basso, che si sviluppa attraverso le varie soggettività sociali che si aggregano spontaneamente, e lo Stato non può essere concepito come un rapporto in cui lo Stato entra in gioco soltanto in maniera accidentale o residuale. Lo Stato ha una funzione permanente, insostituibile. Compete alla politica il compito di favorire processi di estensione del benessere, di garantire a tutti i diritti fondamentali, come afferma chiaramente l'art. 3 della Costituzione italiana. Lo stato sociale nasce per questo, per creare le condizioni perché i diritti fondamentali (lavoro, istruzione, salute) siano garantiti a tutti
La sussidiarietà, la libera iniziativa dal basso, è la via, il mezzo, ma il fine da perseguire è la solidarietà, cioè una società nella quale a tutti i livelli, quindi anche a livello economico, avvenga un arricchimento reciproco, dato dall'esercizio di una solidarietà reale, effettiva.

la ricerca della felicità

Un terzo presupposto antropologico è la ricerca della felicità come obiettivo. Un modello di società guidato da logiche di solidarietà ha come finalità non solo e non tanto il benessere economico, ma la felicità. Oltre ad un benessere economico volto a soddisfare bisogni essenziali, sono necessari i beni immateriali, i beni relazionali dai quali dipende la qualità della vita

le vie da percorrere

Quali vie percorrere per realizzare alternative funzionanti al sistema economico, centrate sul paradigma della reciprocità, della relazionalità?
Il problema di fondo non è quello di avviare esperienze pilota parziali, ma di investire il sistema economico nella sua totalità.

il terzo settore

Le esperienze pilota parziali non mancano. Basta pensare a tutto il terzo settore, sia no profit che profit, al settore del privato-sociale.
Ci sono già effettivamente delle esperienze interessanti che, però, dal punto di vista quantitativo, sono marginali, e lo saranno sempre. Per quanto il terzo settore possa crescere non andrà mai oltre una percentuale del 4% o 5%, interessandosi soprattutto di quei settori, come i servizi, dove è più facile far valere elementi di tipo qualitativo.
Laddove il terzo settore non vive solo di logiche assistenziali, ma si muove anche in una logica di efficienza e di produttività, può avere un valore simbolico per la macroeconomia, come modello di una società civile tra stato e mercato, che non annulla né il mercato né lo stato, consentendo all'economia di democratizzarsi, favorendo l'attenzione sia alle singole persone, sia alla qualità dei prodotti. Il valore simbolico pertanto potrebbe svolgere una funzione importante.

la Responsabilità Sociale di Impresa (RSI)

Il problema però non è tanto quello di avere come riferimento il terzo settore, quanto di riuscire a creare condizioni perché nella macroeconomia, cioè quella più estesa quantitativamente, si introducano logiche alternative rispetto a quelle del passato. Qualche tentativo in questa direzione già c'è, come la Responsabilità Sociale di Impresa (RSI), che considera l'impresa come impresa civile.
È importante distinguere tra impresa sociale e impresa civile. L'impresa sociale è quell'impresa che ha una finalità sociale, cioè la cui attività è finalizzata a dei beni che sono socialmente utili. L'impresa civile invece è quell'impresa in cui la società civile entra come elemento determinante nella conduzione dell'impresa stessa.
Ci può essere un'impresa sociale che è anche impresa civile. Le due realtà normalmente si sovrappongono nel senso che laddove si fa attraverso l'impresa attività sociale, l'impresa tende a diventare anche impresa civile, a coinvolgere di più i soggetti.
I soggetti coinvolti nell'impresa civile non sono solo i soggetti interni - i lavoratori, le varie maestranze - che prendono parte alla definizione dell'organizzazione, degli obiettivi, alla distribuzione degli utili, ma anche gli utenti stessi, cioè coloro che sono esterni all'impresa ma con cui l'impresa deve fare i conti per esempio per il consumo dei beni che vengono prodotti.
Il concetto di responsabilità sociale di impresa è un concetto importante, che è stato accolto da diverse imprese, anche se qualche volta solo come copertura, perché più funzionale a chi gestisce l'attività che non agli utenti. Molte imprese hanno i codici etici. È una strada da percorrere, anche se da vagliare attentamente..

rivalutazione del locale

Un'altra strada da percorrere è la rivalutazione del locale.
L'attenzione al globale, necessaria in un'economia globalizzata, va unita alla rivalutazione del locale (glocal), alla capacità di favorire processi dal basso che nascano anche all'interno del locale, che sfruttano risorse, per esempio, che sono sul territorio.
Al posto delle cattedrali nel deserto, sarebbe meglio sfruttare le culture locali, i beni locali, sfruttare le potenzialità che ci sono sul posto e favorire il processo di partecipazione dal basso, la democratizzazione del processo economico. Se si è attenti alla cultura del territorio, se si favoriscono processi economici che sono legati al territorio, che sfruttano beni che sono propri di quel territorio, evidentemente cresce una corresponsabilità civile all'interno della società che favorisce il processo di un'economia sempre più partecipata, sempre più democratizzata.

la riforma dello stato sociale

È presente oggi una volontà politica a ridimensionare fortemente lo stato sociale, accusato di essere fatto solo di sprechi.
Non si tratta, anche a questo riguardo, solo di ridurre sprechi e burocratizzazioni, ma anche e soprattutto di chiamare in causa le soggettività sociali nella gestione e nel controllo dello stato sociale, in un rapporto positivo tra società civile e istituzioni pubbliche.
Lo stato sociale è stato gestito in forma verticistica, con il solo intervento della politica. Il risultato quello di ridurre i cittadini a semplici utenti invece di farne soggetti attivi. Nei confronti dello stato si rivendicano dei diritti (alla salute, all'istruzione ecc.) ma non ci si sforza come cittadini di assumersi i propri doveri, di dare un contributo positivo nella gestione dello stato sociale.
Perché si realizzi questo positivo rapporto tra soggettività sociali e istituzioni pubbliche è necessaria una visione meno verticistica e più legata al territorio, dove sono presenti i soggetti e dove è possibile creare condizioni per una loro partecipazione effettiva.

Mi rendo conto che ho fatto soltanto alcune riflessioni un po' a ruota libera soprattutto intorno alla parte applicativa, che è la più difficile, evidentemente. Però questa idea (l'idea cioè di uscire da un sistema economico con una visione alternativa che parte da presupposti antropologici diversi, personalisti e non individualisti, che quindi coinvolge nel processo di creazione dei beni economici la società tutta, contribuendo a democratizzarla, senza negare spazio allo stato, chiamato ad esercitare una funzione di orientamento e di controllo con regole precise), mi pare una strada da percorrere se si vuole tentare di uscire dalla crisi economica non riproponendo il vecchio sistema, ma creando le basi per un sistema diverso, alternativo, che davvero sia in grado di interpretare i bisogni di tutti e di favorire lo sviluppo di un'economia che sia davvero a misura di uomo e a servizio dell'uomo.

riassunto

Poiché l'attuale crisi, finanziaria culturale ed etica, è una crisi di sistema e non solo congiunturale il suo superamento comporta non semplici aggiustamenti ma cambiamenti veramente radicali e alternativi, sia sul piano delle strutture, sia negli stili di vita. Per poter indicare delle prospettive di fuoriuscita dall'attuale sistema in crisi è necessario anzitutto individuare le ragioni strutturali e culturali della crisi
Una prima causa è l'affermarsi di un capitalismo selvaggio e senza regole, diventato unico sistema senza alternative dopo la caduta del muro di Berlino. L'esplosione del processo di globalizzazione, con i processi economico-finanziari e informativi che scavalcano le frontiere nazionali, rende sempre più difficile agli stati-nazione, in assenza di un'autorità mondiale, di controllare la situazione. Le ideologie del Novecento sono state sostituite dalla nuova ideologia del mercato unico mondiale, senza regole e senza controllo, proprio del capitalismo selvaggio.
Trionfa l'unico criterio della massimizzazione della produttività e del profitto, con conseguenze deleterie per l'ambiente, per l'ecosistema, e con crescenti divari tra le classi sociali e tra paesi. La delocalizzazione di aziende in paesi senza diritti dei lavoratori e con salari bassissimi ha arricchito alcuni e impoverito molti.
Seconda causa è la finanziarizzazione dell'economia, il primato dell'economia finanziaria su quella reale, produttiva. Il reddito mondiale dell'economia finanziaria è sette volte quello dell'economia reale. L'economia finanziaria è un'economia fittizia in cui il denaro riproduce se stesso, con giochi complessi dei mercati finanziari che tengono in scacco l'economia mondiale.
Terza ragione è il perseguimento di un ideale benesseristico' che identifica la realizzazione umana, la felicità, con l'aumento del Pil (prodotto interno lordo). Si dimentica però che il Pil è una media quantitativa che non tiene conto della crescente sperequazione tra le persone. Inoltre, al di là di un livello economico discreto di base, ci sono altri criteri non economici che influenzano lo star bene, come l'istruzione, la sanità, la sicurezza, tutti fattori che hanno a che fare con la qualità della vita.
Quarta e ultima causa è il presupposto individualistico, alla base del sistema capitalista, secondo il quale è l'interesse individuale la molla dello sviluppo economico.
Questa visione dell'uomo in Occidente ha delle radici che vengono da lontano e che è opportuno analizzare bene perché l'uscita dalla crisi è possibile solo ribaltando il presupposto individualistico con principi più relazionali.
Il teorizzatore di tale visione individualistica e pessimista dell'uomo, già presente in Macchiavelli e nella riforma protestante, è stato Hobbes per il quale l'uomo allo stato di natura è mosso dal principio dell'autoconservazione e dall'egoismo del desiderio. L'uomo è lupo per l'altro uomo: il rapporto tra umani è di sopraffazione, di violenza. Per evitare esiti disastrosi, il bellum omnium contra omnes, è necessario un patto sociale con il quale si rinuncia a una parte di libertà, che consente l'esercizio della libertà altrui. Per garantire l'osservanza del patto è necessario il sovrano assoluto.
Questa visione individualistica e pessimistica si riflette anche nell'ambito dell'economia, con l'avvio del processo di industrializzazione e la nascita del capitalismo. La scienza economica non fa altro che razionalizzare il sistema, sacralizzandone le leggi.
Oggi trionfa l'ideologia del mercato come pensiero unico. La logica del mercato, che è la logica dell'interesse individuale e della massimizzazione della produzione e del profitto, diventa la logica secondo cui avvengono tutte le scelte di vita. Tutto, quasi istintivamente, viene visto in una prospettiva utilitaristica. Sempre meno ci chiediamo "che senso ha?" e sempre più "a che serve?".
Come uscire da questa situazione? Che fare? Quale ipotesi alternativa, funzionante, di sistema economico, quindi insieme efficiente e giusta, cioè capace di promuovere una crescita umana complessiva?
Se la crisi è di sistema sono necessarie vere alternative. Bisogna tornare, come sostiene Amartya Sen, a rieticizzare l'economia. Oggi, ciò che è eticamente negativo è anche economicamente improduttivo. Inoltre sempre sul piano etico si ritiene importante non solo un'equa distribuzione della ricchezza, ma anche il tipo di produzione, cioè quali beni vengono prodotti e in che modo.
Un primo presupposto etico per un'economia a servizio dell'uomo è un modello di sviluppo sostenibile o compatibile, che tenga conto delle risorse limitate, dei problemi di inquinamento, dei bisogni anche immateriali, quali quelli relazionali. Al primo posto è messa la qualità della vita, cioè la qualità delle relazioni con se stessi, con gli altri, con il mondo.
Occorre poi restituire centralità al lavoro, con il superamento della concezione del lavoro come merce. Il profitto inoltre non va considerato solo come profitto aziendale, ma anche come profitto sociale.
Altro presupposto è il primato dell'economia produttiva su quella finanziaria.
Ultimo e quinto presupposto è il ruolo insostituibile della politica, a cui va ridato il primato rispetto all'economia, non occupandola ma orientandola.
Quale modello di economia?
Il modello proposto è quello della economia civile (espressione che sottolinea soprattutto il ruolo della società civile tra Stato e mercato nell'attività economica), o della democrazia economica (espressione che sottolinea il fine di democratizzare l'economia).
Oggi ci rendiamo sempre più conto di dover ripensare radicalmente l'economia in rapporto alla sfera sociale, perché il processo di democratizzazione si espanda a tutti i settori della vita, in particolare all'economia e all'informazione. Sfera economica e sfera sociale non possono più essere concepite come sfere separate, in base a cui all'economia spetta la produzione dei beni, mentre allo Stato la distribuzione di questi beni per venir incontro alle esigenze sociali. C'è interdipendenza tra le due sfere e ognuna delle due non può pensarsi a prescindere dalla relazione con l'altra.
La compenetrazione positiva tra dimensione economica e dimensione sociale richiede l'assunzione di tre principi regolativi dell'economia: lo scambio di equivalenti proprio del mercato, la distribuzione della ricchezza da parte dello Stato, la dimensione della fraternità, del dono, del riconoscimento dell'altro (oltre la spinta egoistica) da parte della società.
I presupposti antropologici di questa visione sono la concezione dell'uomo come persona, insieme individuo irripetibile e essere relazionale; un corretto rapporto tra sussidiarietà e solidarietà, tra libera iniziativa dal basso da promuovere e intervento non marginale e insostituibile dello Stato; la ricerca della felicità come obiettivo (la qualità della vita oltre il benessere economico).
Solo partendo da questi presupposti antropologici diversi (personalistici) con il coinvolgimento dell'intera società nel processo di produzione dei beni economici è possibile elaborare vie alternative di uscita dall'attuale crisi. Interessanti sono alcune esperienze del terzo settore, sia no profit che profit, per il loro valore simbolico.
La RSI (Responsabilità Civile di Impresa) introduce logiche alternative, con il coinvolgimento della società civile nella conduzione dell'impresa. Anche la rivalutazione del locale (il glocal) favorisce la partecipazione dal basso e un uso più corretto delle risorse. Infine, anche per la riforma dello stato sociale, è indispensabile la chiamata in causa delle soggettività sociali nella gestione e nel controllo.

dibattito

spese militar

Una vostra domanda riguarda l'ambiguità della situazione in cui ci troviamo, anche in rapporto ad altri paesi. Di fronte alla drastica austerità a cui siamo tenuti, anche su richiesta dell'UE, per evitare di aumentare il nostro debito pubblico, la Nato ci chiede di contribuire maggiormente alle spese per gli armamenti. È evidente l'assurdità della richiesta.

ambivalenza del progresso tecnologico

Un'altra domanda riguarda il pensiero unico e le ambivalenze della scienza e della tecnica. Il livello di capacità tecnologica che è stato raggiunto, ha modificato profondamente la società in cui viviamo, determinando la nascita di un modello culturale totalmente diverso da quello umanistico. È difficile coniugare i due modelli, perché i valori dell'umanesimo rispondono a domande di senso, mentre, vivendo nella società attuale, soprattutto i giovani assorbono un modo di pensare tendenzialmente utilitaristico. C'è una vera mutazione antropologica.
L'ambivalenza dei progressi tecnologici è evidente: da un lato la tecnica risolve molti problemi prima irrisolvibili (nell'ambito ad esempio della medicina o dell'informatica, permettendo di migliorare le condizioni di vita in certi paesi o la durata della vita di persone affette da certe malattie, ecc.), dall'altro fa sorgere situazioni problematiche nuove (nell'ambito ad esempio della bioetica, o della comunicazione, per l'uso distorto dei mezzi informatici, ecc.)

relativizzazione del conflitto

A proposito della relativizzazione del conflitto, ritengo che si debba superare una forma mentis di individualismo esasperato, che proviene dal pessimismo antropologico cui facevo riferimento, che parte dal presupposto che l'altro sia sempre il nemico (in tutti gli aspetti della vita: il nemico religioso, ideologico, ecc.), colui che mi impedisce di realizzarmi e che quindi devo distruggere. Il superamento di tale concezione non significa però che io non possa riconoscere l'altro come diverso da me e quindi che non possa avere con lui un rapporto conflittuale. Teniamo presente che per certi aspetti il conflitto è anche positivo (i conflitti genitori-figli sono fondamentali per la crescita, così come i conflitti sociali per la rivendicazione di diritti...). Il conflitto diventa liberante quando considero l'altro non un nemico, ma semplicemente portatore di una verità diversa rispetto alla mia, con cui mi devo confrontare per arrivare ad una più grande.

Adriano Olivetti

Mi avete parlato di Adriano Olivetti: ricordiamo il fatto che proprio Olivetti ha contribuito, nel nostro paese, al ripensamento delle basi dell'economia nella prospettiva personalistica o socialista grazie alla divulgazione in Italia, con le edizioni di Comunità, delle opere di Mounier. La sua concezione di azienda era basata sul personalismo di ispirazione cristiana e sul socialismo umanitario. La sua è stata un'esperienza pilota, anche se forse con aspetti paternalistici. Nell'azienda i soggetti cercavano la propria realizzazione, non solo attraverso il lavoro, che pure era la componente fondamentale, ma anche in altri ambiti (c'era la biblioteca di fabbrica, l'asilo nido...). Per attuare il suo progetto, Olivetti aveva scelto come dirigenti della sua azienda grandi umanisti, che si sono poi affermati in campo filosofico, scientifico, letterario...
Tanto l'azienda quanto lo Stato hanno delle uscite, che spesso vengono definite "perdite". Ma un conto è se tali perdite sono dovute a sprechi inutili, e un altro se invece si tratta di uscite, ad esempio, per prestazioni sociali fondamentali da parte dello Stato, che permettono alle persone di fruire di certi diritti. E in un'azienda, la ricerca di per sé può costituire una "perdita", che è però funzionale a guadagni su altri piani (come cambiamenti positivi nella società, nell'economia, nella crescita complessiva dell'uomo...)

commercio equo e solidale

Così come le attività del terzo settore, anche il commercio equo e solidale, che realisticamente non può espandersi più di tanto, rappresenta però un grande valore dal punto di vista simbolico. Infatti stimola l'attenzione su alcune pratiche che possono essere importate anche nel sistema economico generale. Rispetto ad altre forme di privato-sociale, ha in più il fatto di tener conto della sperequazione esistente a livello mondiale, di favorire crescite, sia pure parziali, di ambiti di sottosviluppo. Si preoccupa cioè di una promozione più allargata, che tiene conto di quel "terzo" di cui parlava Ricoeur (quello che tu non conosci, con cui non entrerai mai in rapporto, ma di cui devi sentirti responsabile).

decrescita

A proposito del discorso sulla decrescita (o per lo meno crescita zero), molto sviluppato in questi anni soprattutto da Serge Latouche, non so fino a che punto possa essere recepito. Certo, tenuto conto che, soprattutto dal punto di vista dell'impatto ambientale, abbiamo largamente superato i limiti, nel ripensare profondamente il nostro modello di sviluppo, occorrerà forse anche fare dei passi indietro rispetto alla "quantità" dei beni che produciamo e consumiamo, per favorire l'aspetto qualitativo del nostro modo di vivere.

rappresentanza

Il tema della rappresentanza è di difficile soluzione. Le difficoltà sono presenti già all'interno di uno Stato. Se il discorso si allarga alla politica globale, io non credo tanto in un'autorità mondiale accentrata, che potrebbe diventare una forma di autoritarismo non sufficientemente controllata. Credo invece in un processo dal basso di aggregazione di Stati nazione, che oggi sono ancora troppo chiusi su se stessi. Il tentativo di fare l'Europa andava in questa direzione. Anche per il funzionamento di organizzazioni internazionali, come l'ONU, è importante la rinuncia da parte degli Stati nazione ad alcuni poteri, per permettere a tali organismi di svolgere pienamente la loro funzione.

società civile

È difficile definire che cos'è la società civile. Non bisogna pensarla come una massa di individui gli uni accanto agli altri, ma come una realtà dinamica e articolata, formata innanzitutto dai "mondi vitali", cioè quelli in cui avvengono le forme di socializzazione e di personalizzazione primarie, ma poi anche da tutta un'altra serie di aggregazioni dal basso, variamente composte. Insieme costituiscono quella realtà magmatica, difficilmente definibile, ma alla quale si fa riferimento anche per certe operazioni di carattere economico. Faccio un esempio che aiuta a spiegare.
Esistono nella società civile dei soggetti culturali che esprimono ideologicamente posizioni diverse, e che potrebbero fare informazione. Per arrivare a questo, devono però poter disporre degli strumenti necessari. Quando in Italia c'è stato il passaggio da televisione e radio di stato alla liberalizzazione, nell'immediato sono nate televisioni e radio locali, dietro le quali c'erano gruppi interessati a fare informazione. I costi di queste attività sono però tali che quei gruppi hanno finito per essere assorbiti da chi era più forte, fino a giungere al monopolio della televisione cosiddetta privata. Occorre invece favorire lo sviluppo di realtà locali, con processi di sostegno, nel campo dell'informazione, ma anche dell'economia. Si tratta di creare le condizioni perché certi gruppi possano effettivamente interagire con il mercato e con lo Stato, per far sì che la partecipazione non sia limitata a pochi soggetti, ma si allarghi a soggetti diversi, che promuovono iniziative, interagiscono, allargano il discorso, e soprattutto permettano la nascita e lo sviluppo di un tipo di produzione qualitativamente diverso.

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