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Da paese di migranti a paese di immigrazione

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sintesi delle relazioni di Chiara Colombo e Giovanni Mari
Verbania Pallanza, 7 novembre 2009

premesse

Giovanni Mari

Innanzitutto ci presentiamo per indicare come intendiamo svolgere il nostro intervento a due voci.
Mentre Chiara Colombo è sociologa, io sono storico. Avremo quindi un ruolo complementare nel presentarvi alcuni elementi che riteniamo interessanti per l'analisi del fenomeno migratorio.
La parte centrale dell'intervento riguarda la presentazione di dati del fenomeno migratorio in Italia.
Poi vorremmo aprire delle "finestre", affrontando con voi, anche se in modo ovviamente sintetico, punti più specifici.
Nostro intento generale, trasversale a tutto quello che diremo, sarà quello di mettere a fuoco anche il lessico che si usa quando si parla di migrazione, cercando di evidenziare come l'uso di certe parole sia a volte molto impreciso, a volte anche proprio fuorviante. E, senza voler essere provocatori a tutti i costi, facendo questo cercheremo anche di non accettare il senso comune di certe espressioni, perché ci sono convinzioni molto diffuse, che secondo noi possono invece essere messe in discussione.

importanza e limiti della memoria storica

La prima premessa, più tematica, prende lo spunto, in modo un po' pretestuoso, sia dal titolo del ciclo: "Ero forestiero e mi avete ospita­to", sia dal titolo del terzo incontro: "Ricordati che sei stato forestie­ro in Egitto", e dall'idea sottostante. In modo chiaro questi titoli esprimono un intento pedagogico, che ha e ha avuto anche una ver­sione laica, nel tentativo di far ricordare agli italiani quello che han­no vissuto nei decenni precedenti, per far sì che, con un'ombra di im­medesimazione, si possano mettere nei panni di chi sta vivendo oggi un'esperienza di migrazione, e possano avere quindi un atteggiamen­to di maggiore apertura, più solidale, ecc.
Sul piano religioso abbondanti sono i riferimenti biblici che sotto­stanno a tutto questo ciclo. Sul piano civile probabilmente è noto a molti di voi il libro "L'orda" di Gian Antonio Stella, giornalista del Corriere della Sera, che è stato un tentativo evidentissimo di ricorda­re agli italiani il motivo per cui non devono assumere atteggiamenti razzisti nei confronti di chi arriva adesso nel nostro paese, visto che fino a pochissimo tempo fa, erano gli italiani a subirli. Pensate che fino agli anni 70 c'erano in Svizzera ancora decine di migliaia di bambini italiani clandestini, nascosti in casa, impossibilitati a fre­quentare la scuola!
Credo che questo intento pedagogico sia giusto e sensato, però biso­gna stare attenti, perché spesso non funziona. Infatti, non è che gli italiani siano poco accoglienti o anche un po' razzisti, "nonostante" il fatto che siano stati fino a poco tempo fa a loro volta migranti, ma proprio "perché" sono stati migranti. Spesso, chi ha vissuto l'espe­rienza dura, dolorosa, faticosa della migrazione, considera chi vive adesso una situazione analoga un concorrente diretto. In altre epoche si sarebbe detto che chi riusciva a emergere dalla situazione di po­vertà, di proletariato, raggiungendo la condizione di piccolo-borghe­se, diventava il più acerrimo nemico del proletariato, perché si senti­va il più minacciato dall'eventuale ascesa sociale dei proletari. Non è un caso che l'Italia, come dicono i dati europei recenti, è il paese in cui nell'ultimo anno ci sono stati più fenomeni di razzismo. Purtrop­po proprio perché queste esperienze sono così recenti e la nostra sta­bilità ancora precaria, l'arrivo di migranti è vissuto come evento mi­naccioso.
Ciò non vuol dire che un lavoro di analisi storica di quello che è suc­cesso negli ultimi decenni non vada svolto. Il fatto che l'intento pe­dagogico, pur giusto, non funzioni sempre, non significa che si deb­bano accettare le mistificazioni che circolano in abbondanza. Per chi ha letto il libro, che consiglio, di Gian Antonio Stella, risulta eviden­te che i tentativi di descrivere i fenomeni migratori italiani, che sono durati fino a pochi decenni fa, come diversi da quelli che sono in corso adesso (gli italiani non facevano certe cose, non erano crimina­li, erano puliti, ecc.) sono tentativi ridicoli, senza alcuna base storica.
Un altro libro di uno storico (Sandro Rinauro, Il cammino della spe­ranza. L'emigrazione clandestina degli italiani nel secondo dopo­guerra, Einaudi)), uscito recentemente, dimostra come l'emigrazione italiana sia stata caratterizzata sempre da un'altissima proporzione di irregolarità, di clandestinità, con tutto quello che ne consegue. Tra gli italiani che migravano non c'erano solo erano eroici lavoratori che si rimboccavano le maniche, ma, come succede tutte le volte che una massa di popolazione si sposta, anche tra i nostri predecessori c'era di tutto, c'erano persino bombaroli... il primo attentato a Wall Street è stato compiuto da italiani! E, naturalmente, i nostri connazionali su­bivano discriminazioni e incontravano problemi di ogni sorta.

movimenti migratori complessi

Proprio perché ritengo che comunque un lavoro sulla storia vada fat­to, vorrei provare, in estrema sintesi, a fissare alcuni punti fermi.
Il primo punto mi porta, ancora una volta a contestare amichevol­mente il titolo scelto per la conferenza di oggi: "Da paese di migranti a paese di immigrazione". La ricerca storica più attuale ci dice che non possiamo considerarci un ex paese di migranti diventato un pae­se di immigrazione. Prima di tutto perché (i sociologi probabilmente lo sapevano da tanto tempo, gli storici lo hanno imparato più recen­temente), distinguere tra immigrazione ed emigrazione in modo netto è abbastanza difficile, se non impossibile. E difatti si parla più nor­malmente di "fenomeni migratori", o di "migrazioni". E poi perché l'Italia vede tra i suoi caratteri originari quello di essere un paese coinvolto da complessi movimenti migratori. L'Italia ha accolto mi­grazioni, non solo quelle antiche, dei Greci, o quelle dei Goti, ecc., ma anche quelle di epoche più recenti, chiaramente con ordini di grandezza diversi da quelli di oggi. E gli italiani hanno iniziato ad emigrare molto prima del 1876, quando sono iniziate le rilevazioni statistiche. E continuano ad emigrare ancora oggi: sia a livello di mi­grazioni interne dal sud al nord, sia a livello di migrazioni interna­zionali, ci sono dei flussi rilevanti. Anche se il profilo di chi emigra è molto cambiato. Correggerei quindi così il titolo della conferenza di oggi: "Un popolo di migranti, un paese di migrazioni".
Invece, a proposito della connotazione dell'Italia come paese di "mi­grazioni", vorrei far notare il carattere strutturale di tale fenomeno in Italia. Voi sapete che i rapporti Caritas che vengono pubblicati tutti gli anni e che sono il principale strumento per conoscere ciò che suc­cede in Italia a livello migratorio in questi anni, ci dicono quali sono gli indicatori principali della strutturazione del fenomeno immigrato­rio nel nostro paese. Ma in realtà la migrazione in Italia è un fenome­no strutturale da molto prima degli anni 70, da prima che comincias­sero ad essere pubblicati i rapporti Caritas.
Altri due accenni, sempre sul piano storico. Ci sono due aspetti si­gnificativamente molto simili tra quello che vediamo adesso e quello che è successo agli italiani. In primo luogo il fatto che ci siano stati e ci siano ancora oggi dei pionieri (tradizionalmente maschi - anche se oggi sono sempre più spesso femmine - di questo parlerà Chiara), che sono persone in età di lavoro, e che si tratta quindi di migrazioni economiche, che poi nel giro di tempi più o meno brevi diventano migrazioni familiari, stabilizzandosi. È quello che vediamo oggi per gli stranieri che vengono in Italia, ma che è anche stato tipico dell'e­migrazione italiana.
L'altro aspetto è che tutte le migrazioni sono state caratterizzate da un insieme, da un "mix", con proporzioni diverse, di costrizione e autonomia, di scelta individuale o familiare e di spinte ad emigrare di carattere esterno, determinate dalla povertà o dalle guerre. Allora, a parte il caso della tipologia di chi scappa a causa di guerre o care­stie, tutti gli altri protagonisti di vicende migratorie sono persone spinte in parte da fattori esterni, in parte da motivazioni personali. Questo è importante anche per sapere come relazionarsi con le per­sone che sono oggi tra noi.

Non confondere i piani. La differenza religiosa è solo una delle differenze

Un'altra premessa riguarda l'impostazione del ciclo. Osservando la sequenza degli interventi, vedete che alcuni sono di carattere stretta­mente biblico-teologico, di riflessione interna all'ambito religioso, e altri, in particolare il nostro, che riguardano invece l'immigrazione in generale, oltre quello di Paolo Branca, che riguarda l'islam. Notate che c'è un sovrapporsi di due ambiti, quello religioso, della riflessio­ne teologica, della diversità religiosa e invece quello della diversità in senso lato. Ora, sono due ambiti che, sul piano pratico, va benissi­mo tenere insieme, ma che invece, a livello di comprensione dei fat­ti, è fondamentale tenere distinti. Una cosa è capire i fenomeni mi­gratori, e una cosa è pensare alla diversità religiosa, al dialogo inter­religioso, all'islam.
L'Italia è sempre stato un paese diversificato, plurale, ben prima del­le ultime ondate migratorie, le quali hanno del resto accentuato plu­ralità e diversità. Storicamente, l'Italia è un paese plurale per mille ragioni da sempre. Ad esempio, voi sapete che il nostro paese ospita una delle più antiche comunità ebraiche al di fuori di Israele. Ma al di là di questo, facciamo qualche esempio riferito all'attualità. Sul piano nazionale potremmo parlare della vicenda del crocefisso, a li­vello locale al recente dibattito sulla moschea. Non entro nello speci­fico né di un argomento né dell'altro. Ma rilevo soltanto che nell'af­frontare questi argomenti c'è stata una grande confusione tra la que­stione dei diritti, e il fatto che in Italia ci sia un'immigrazione anche di musulmani. Una confusione tra il fatto che ci sono delle persone non cattoliche, o non cristiane, che chiedono di esercitare quelli che ritengono essere loro diritti (di aprire una moschea, di non avere il crocefisso in classe), e invece il fatto che, per dirla in modo sbrigati­vo, come certa stampa in questo periodo afferma, "in Italia siamo pieni di musulmani". Due o tre giorni fa, in seguito alla sentenza del­la Corte europea, un giornale titolava "non moriremo musulmani", collegandosi in modo molto esplicito alle polemiche antimigratorie.
Allora, così come è sbagliato che queste persone mescolino la loro avversione agli immigrati con la loro avversione ai musulmani nella fattispecie, allo stesso modo noi non dovremmo rispondere con la versione "buona" di questa confusione. Cioè, per esempio, che noi, cittadini italiani cattolici, diamo a queste persone il diritto di aprire la moschea perché siamo buoni, aperti. Sono piani diversi. Una cosa è il trattare con persone che non sono italiane, e che, quindi, secondo la costituzione, hanno alcuni diritti universali, e altri no perché riser­vati ai cittadini, altra cosa è trattare questioni, per esempio, legate al­l'esercizio del diritto di culto, per le quali la costituzione non distin­gue tra cittadini e stranieri.
Poi è vero che in Italia la presenza musulmana è ancora largamente determinata da persone che non hanno la cittadinanza italiana. Ma ri­cordiamoci che i fantasmi evocati da certa retorica e da certa stampa non corrispondono alla realtà, amche solo per il fatto statistico che una gran parte degli stranieri che arriva in Italia non è musulmana, ma cristiana.
Bisogna sempre stare attenti quando si maneggia la categoria della diversità di religione come criterio costitutivo della differenza: a sen­tire alcuni opinionisti, o a leggere alcuni giornali, sembra che i mu­sulmani siano di per sé "gli altri", "l'altro" per eccellenza. Ma se facciamo una scansione rapidissima degli ultimi dieci anni, ci accor­giamo che altri gruppi sono stati caratterizzati come "gli altri", e quindi come i "cattivi", per eccellenza. Alcuni anni fa, all'inizio di quella che riteniamo essere un'esplosione dei fenomeni di immigra­zione, si usava molto il termine dispregiativo di "marocchino" per indicare tutte le persone di origine più o meno nordafricana o medio-orientale, che forse erano i più "altri" che si potesse immaginare. Ma nella definizione di queste persone come "altri", l'aspetto religioso aveva pochissima rilevanza. Poi c'è stata una fase, nella prima metà degli anni 90, in cui probabilmente il primato di "più altro" e "più cattivo" lo avrebbero preso gli albanesi. Ma il fatto che gli albanesi fossero prevalentemente musulmani, non c'entrava per nulla con le ragioni per cui erano avversati. C'è stata una stagione, un paio di anni fa, che adesso forse sta terminando, in cui i cattivi per eccellenza erano i rumeni, che notoriamente sono in gran parte ortodossi con minoranze significative cattoliche: anche in questo caso la differenza religiosa come criterio per definire "l'altro" era veramente poco significativa. Se poi andiamo più indietro nel tempo e ci ricordiamo delle nostre esperienze di emigrazione in Svizzera, gli italiani piemontesi, che erano cattolici e in parte protestanti, con un aspetto fisico probabilmente non molto dissimile da quello degli autoctoni, erano considerati totalmente altri. Gli italiani del centro-sud emigrati negli Stati Uniti sono stati definiti, secondo criteri che all'epoca venivano ritenuti scientifici, verso la fine dell'800, dagli organi federali che si occupavano di statistica, appartenenti al gruppo "afro", africani! (Negli Stati Uniti i censimenti incasellano la popolazione anche secondo presunti gruppi razziali. Noi saremmo caucasici.) E il fatto che fossero cattolici in grandissima parte, non ha impedito scontri furibondi, anche sul piano religioso, con i cattolici irlandesi, che reputavano il cattolicesimo degli italiani come qualche cosa di tribale, di primordiale, ecc.
Poi di fatto ci accorgiamo che la gran parte delle persone non di reli­gione cattolica che troviamo in Italia, è costituita da stranieri, da im­migrati, però le questioni che questa presenza solleva vanno almeno concettualmente affrontate in modo distinto.
Concluse le premesse, passo la parola a Chiara.

la situazione dell'immigrazione oggi in Italia

Chiara Colombo

Il mio compito nell'incontro di oggi è più di tipo sociologico. Vi pre­sento dei dati ma in maniera critica. Veniamo spesso bombardati di numeri, cifre e percentuali che non dicono molto o niente se non vengono letti con un'attenzione specifica. Ci è stato chiesto di parlarvi della situazione dell'immigrazione in Italia oggi e siamo fortunati perché è uscito da pochissimo il nuovo rapporto della Caritas 2009, quindi i dati che vi presentiamo ci consentono di avere uno spaccato della realtà attuale.
Come premessa iniziale bisogna dire che i dati del dossier Caritas sono quelli oggi più attendibili sull'immigrazione.
In generale, i dati sull'immigrazione vanno sempre presi un po' con le pinze perché sono tendenzialmente delle stime. I data-base esi­stenti, infatti, gli organi di ricerca che si occupano di censire la popo­lazione, non riescono a raggiungere tutta la popolazione immigrata, perché una parte sfugge ad ogni conteggio. I dati Istat, per esempio, raccolgono i residenti, i dati delle questure hanno altri tipi di fonti... I dati della Caritas, che utilizzerò oggi, sono basati su una ricognizio­ne che cerca di dare lo spaccato dei cittadini residenti in Italia, in re­gola, con regolare permesso di soggiorno ed iscritti all'anagrafe. La questione della regolarità e dell'irregolarità è uno degli argomenti centrali nelle trattazioni sull'immigrazione, che merita un'attenzione specifica.

Le presenze: situazione attuale e tendenze

Analizziamo ora alcuni dati, riguardo ai quali cercherò di mettere in luce gli aspetti più significativi.

Presenza complessiva ormai ragguardevole(1)

La presenza degli stranieri in Italia ormai ha raggiunto un peso signi­ficativo. L'Istat al 31 dicembre 2008 contava 3.891.295 residenti con cittadinanza non italiana. La Caritas per il 2009 ha stimato, e di soli­to le stime Caritas poi vengono confermate dai dati Istat, 4,5 milioni di residenti regolari, che arrivano ad essere 5 milioni considerando anche quelli che non verranno regolarizzati nel corso di quest'anno. Sapete che l'ultima regolarizzazione ha coinvolto solo le persone che lavoravano presso le famiglie e con compiti di cura, e non tutti i la­voratori irregolari presenti sul territorio. In ogni caso l'incidenza de­gli immigrati regolari sulla popolazione è del 7,2%, che vuol dire che ogni 100 cittadini ci sono 7 immigrati.
Il motivo per cui si ha la percezione che l'Italia sia diventata adesso paese di immigrazione, deriva dal fatto che il flusso di immigrati è cresciuto notevolmente durante gli ultimi 40 anni. Negli anni 70 c'e­rano 143.838 stranieri, che nell'arco di 10 anni sono raddoppiati. Il mezzo milione è stato superato negli anni '90 e dagli anni successivi al 2000 c'è stata un'ulteriore forte crescita con raddoppi della popola­zione straniera anche in meno di cinque anni. Nel 2007 si è raggiunto il picco storico del saldo, cioè della differenza tra i nuovi arrivati e gli stranieri presenti l'anno prima. Tra il 2007 e il 2008 gli immigrati sono aumentati di 115 000 unità, e anche nel 2008 c'è stata una crescita considerevole.
La crescita è stata pertanto esponenziale nell'arco di questi anni, no­nostante la crisi di cui parlano tutti i giornali, e nonostante la presen­za di governi di destra, solitamente più ostili all'immigrazione e a quella non regolamentata in particolare. Le proiezioni per il 2020 dell'Istat danno su un totale di 63 milioni di cittadini italiani 7 milioni di im­migrati, con un'incidenza dell'11%, il che significa che è prevista una ulteriore crescita dell'immigrazione.

Uno sguardo d'insieme(2)

I movimenti migratori che riguardano il nostro paese sono da inqua­drare a livello mondiale. Secondo le stime dell'ONU sono previsti per il 2009 duecento milioni di migranti, il che significa che il 3% delle popolazioni del mondo si spostano. Una parte di loro, un quinto circa, lo fa per sfuggire a guerre e a persecuzioni. I restanti per altri motivi, come vedremo nel dettaglio.
Gli spostamenti non sono solo verso i paesi a sviluppo avanzato, ma anche tra paesi in via di sviluppo, soprattutto per quanto riguarda la fuga da guerre e persecuzioni. Le persone che fuggono, per esempio, dalla Somalia, dal Sudan, dall'Afghanistan, non hanno di norma la possibilità di compiere lunghi viaggi e si rifugiano nei paesi limitro­fi, andando a pesare su nazioni che già hanno non poche difficoltà.
Ricordiamo inoltre che l'Italia ha tagliato i fondi per la cooperazione e lo sviluppo. L'obiettivo del 2015 per il nostro paese era di destinare lo 0,7% del prodotto interno lordo alla cooperazione per aiutare i paesi in via di sviluppo, ma non solo non sono aumentati gli aiuti già modesti, ma sono addirittura diminuiti. Quelle forze governative che sostengono che per contrastare o frenare l'immigrazione sarebbe me­glio "aiutare gli stranieri a casa loro", manifestano una grave incoe­renza per le decisioni da loro assunte in tema di aiuti per lo sviluppo.
All'interno dell'Europa il 6,2% della popolazione è immigrata. La concentrazione più significativa è nei paesi ex coloniali, come la Francia, il Regno Unito e la Germania, ma paesi di più recente immi­grazione sono, oltre l'Italia, anche l'Irlanda e la Spagna, che ospitano circa l'11% della popolazione immigrata in Europa.
Occorre però prestare particolare attenzione al significato di questi dati, pena gravi travisamenti. Dire che in Europa il 6,2% della popo­lazione è immigrata, può apparire l'indicazione di un fenomeno di proporzioni contenute. Bisogna invece analizzare meglio cosa si na­sconde dietro al dato. Ad esempio ci sono casi, come quello della Francia, dove l'incidenza degli immigrati sui francesi appare bassa, sotto il 5%, benché la Francia sia un paese multietnico, abitato da molte persone di origine straniera. L'apparente esiguità numerica de­riva dal fatto che la Francia ha delle normative sulla cittadinanza dif­ferenti da quelle dell'Italia, del Regno Unito, della Germania. Per i bambini che nascono in Francia è più facile avere la cittadinanza francese. Da una ricerca fatta dieci anni fa, nel '99, risultava che il 23% dei francesi aveva i genitori o i nonni immigrati, provenienti non solo dai paesi del Nordafrica, notoriamente principale punto di partenza dell'immigrazione in Francia, ma anche dall'Italia e da altri paesi europei.

Flussi regolari e irregolari(3)

Molti stranieri entrano regolarmente nel nostro paese con un visto. Il più diffuso è quello a breve durata, per turismo o per affari. Sicura­mente l'Italia è una meta di turismo notevole a livello internazionale, ma ci sono anche persone che entrano nel nostro paese con un visto turistico per poi rimanervi, diventando irregolari.
Per quanto riguarda gli ingressi irregolari, nel 2008 ci sono stati 665 sbarchi in Italia, soprattutto di uomini, non solo in Sicilia, ma anche in Sardegna, in Puglia, in Calabria. Tutte le nostre coste del Mediter­raneo sono state raggiunte dalle carrette del mare che hanno portato soprattutto profughi, richiedenti asilo, e quindi persone bisognose di un'accoglienza e di un trattamento diversi rispetto agli stranieri che vengono in Italia per altri motivi, per lavoro o per ricongiungimenti familiari.
I respingimenti alla frontiera sono stati 6.358. Non si tratta di un nu­mero particolarmente elevato. La politica dei respingimenti alla fron­tiera, tanto decantata, è problematica. Non è semplice respingere uno straniero, perché anzitutto non è semplice identificarlo e capire se ef­fettivamente è nella condizione di avere il diritto d'asilo. Inoltre il re­spingimento ha un costo notevole, di cui lo stato deve farsi carico. A tutto questo si aggiunge la questione dei CIE, i centri di identifica­zione e di espulsione, che nel 2008 hanno lavorato a pieno ritmo. Anche se è stato annunciato dai giornali e dai telegiornali che i centri di Lampedusa sono vuoti, quelli che si trovano altrove, come a Roma, a Milano, e in altre parti d'Italia, sono affollati. Stare in questi centri di identificazione ed espulsione comporta vivere una situazio­ne, che può protrarsi sino a due mesi, in cui non è semplice la tutela dei diritti... L'Italia è sotto osservazione da parte delle associazioni che si occupano di diritti umani proprio per le modalità in cui queste persone vengono trattate e trattenute all'interno dei centri. È interes­sante notare che tendenzialmente i posti di respingimento sono gli aeroporti, ma anche nella vicina Domodossola ci sono stati 777 re­spingimenti. Si tratta di una frontiera, come quella di Como-Chias­so, attraversata da persone che arrivano dall'Europa, spesso cittadini dell'Unione Europea, che hanno quindi la possibilità di restare. Ecco perché i respingimenti in questo caso sono diminuiti.

La distribuzione sul territorio nazionale(4)

All'interno dell'Italia, la distribuzione degli immigrati è a macchia di leopardo. Forte è l'attrazione delle zone del nord e del centro. Il nord ospita la maggioranza degli immigrati: 62% ed è nel nord est che l'incidenza degli immigrati su tutta la popolazione è maggiore. A dif­ferenza di altri paesi d'Europa come la Francia o la Spagna, l'inciden­za di immigrati è forte non solo nelle grandi città, ma anche nei cen­tri minori, come a Prato, e in diverse cittadine dell'Emilia.
Altro caso interessante in Italia riguarda alcuni paesi che si stanno spopolando e che sono a rischio di estinzione: in alcuni di questi pae­si sono andate a vivere delle consistenti comunità di immigrati. Nel sud tre paesi di montagna, isolati, in via di estinzione, hanno fatto una campagna di richiamo mettendo a disposizione le case, e sono stati così ripopolati da persone immigrate.
Ci sono poi delle migrazioni interne. Gli immigrati non si fermano nel punto in cui arrivano, ma si spostano in altri luoghi d'Italia, in maniera meno problematica rispetto agli italiani, anche perché sono più sradicati, senza forti legami. I loro spostamenti sono dettati dalla presenza delle attività produttive sul territorio e dalle reti etniche. Dove già esiste una certa comunità è più facile che arrivino altre per­sone della stessa comunità.

Le provenienze(5)

Un dato interessante è che l'Italia, diversamente dai paesi che hanno avuto le colonie, non ha immigrati di un'unica provenienza, ma di quasi tutte le cittadinanze del mondo. Le linee di tendenza della si­tuazione attuale indicano però dei cambiamenti. Innanzitutto le citta­dinanze con un numero consistente di soggetti sono 105 su 190 e quasi la metà degli immigrati proviene da 16 cittadinanze, le più im­portanti delle quali sono, nell'ordine, la Romania, l'Albania, il Ma­rocco, la Cina e l'Ucraina. In un certo senso ci stiamo anche noi spe­cializzando su certe provenienze. In particolare è cresciuto fortemen­te il gruppo rumeno. Degli 800 000 residenti conteggiati nel 2008, uno su cinque è rumeno. E uno su quattro proviene da paesi di nuova immissione nell'Unione europea. Quando sono state allargate le fron­tiere dell'UE, i movimenti di popoli sono stati resi più semplici e quindi le persone si sono spostate in maniera più massiccia anche verso il nostro paese.
Noi parliamo di cittadini extracomunitari. Ma extracomunitaria è una persona che viene da un paese esterno all'Unione europea. I rumeni non sono extracomunitari: è importante che questo concetto sia chia­ro, che questa riflessione venga fatta, perché la parola "extracomuni­tario" ha un forte valore simbolico. "Extra" vuol dire "fuori", e rin­via all'opposizione noi-loro, loro-noi. Extracomunitario è un termine spesso non legittimo, in quanto una persona straniera su quattro, che vive nella nostra nazione, è una persona comunitaria.

Generi e generazioni(6)

Un altro dato interessante riguarda l'aumento della presenza femmi­nile, diventata, anche se di poco, maggioranza tra la popolazione im­migrata. La femminilizzazione dell'immigrazione significa essenzial­mente due cose. Anzitutto che cominciano ad esserci sempre più fa­miglie, perché gli uomini di più antica immigrazione, provenienti in particolare dal Marocco, dal Senegal, dalla Cina, sono stati raggiunti dalle mogli. In secondo luogo, poi, che sono sempre più le donne a spostarsi - provenienti da altri paesi - per venire a lavorare in Italia. È il caso che tutti conoscono delle donne occupate in professioni di cura, non solo nel lavoro delle cosiddette badanti, ma anche in quello di infermiere o di altre occupazioni.
Infine, la popolazione immigrata è giovane. L'incidenza sul totale de­gli italiani è del 7% ma se dovessimo andare a verificare nelle varie fasce di età, vedremmo che c'è un'incidenza molto più alta sui minori e molto più bassa sugli anziani.
Se rappresentassimo l'andamento della popolazione con delle pirami­di, vedremmo che nella piramide italiana c'è una fetta molto ampia di anziani, una fetta discreta di adulti più giovani e una fetta ristretta di bambini, mentre nella piramide degli stranieri la fascia dei bambini è molto ampia, quella degli adulti incide notevolmente rispetto agli ita­liani, e quella degli anziani è molto ridotta. Questo significa che l'im­migrazione ha un peso sulla demografia italiana. La natalità in Italia è forte grazie agli immigrati, come pure la popolazione adulta lavo­rativamente attiva ha al proprio interno un consistente numero di im­migrati.

Il mondo del lavoro

Per quanto riguarda il lavoro(7) faremo solo brevi cenni, nonostante il tema meriti ben altri approfondimenti. In Italia, tra la popolazione at­tiva, cioè quella della fascia lavorativa, un lavoratore su dieci è nato all'estero. In realtà sarebbe un lavoratore su 15, in quanto nel primo dato sono compresi i rientri degli italiani vissuti all'estero per un cer­to periodo.
Gli immigrati prevalentemente svolgono un lavoro dipendente all'in­terno dell'industria, dell'agricoltura e dei servizi. La tabella, riportata a pag. 29, indica che l' 11 degli immigrati lavora nel settore dei servizi alle famiglie, ma questo è sicuramente un dato poco attendibile, nel senso che si riferisce ad un periodo (2008) antecedente alla regolarizzazione delle badanti. Tutta la fetta di sommerso, quest'anno in parte regolarizzata, andrà a cambiare questi numeri.
Un altro dato significativo della situazione italiana è che continua ad esserci bisogno di mano d'opera straniera. L'immigrazione ha risenti­to della crisi, ma in misura minore rispetto agli italiani. Addirittura all'inizio del 2009 l'occupazione immigrata è aumentata. Questo si­gnifica che c'è ancora un ampio spazio di impiego per la popolazione immigrata in segmenti del mercato del lavoro che non vengono col­mati dalla popolazione italiana. Sono i lavori che Maurizio Ambrosi­ni, un sociologo che si occupa di immigrazione, definisce "i lavori delle cinque P": precari, pesanti, pericolosi, poco pagati, penalizzanti socialmente. Ciò significa che c'è una serie di occupazioni che gli italiani non vogliono o non possono o non si sentono di fare, e che invece gli immigrati per motivazioni varie, non solo per necessità o per fame, accettano. Quindi non è necessariamente vero che gli stra­nieri ci rubano il lavoro o che se non ci fossero gli stranieri la crisi sarebbe meno forte, proprio perché i due mercati del lavoro si diffe­renziano.
Però non è vero neppure che gli immigrati servono all'Italia solo per­ché svolgono certi lavori che gli italiani non sono più disposti ad ac­cettare, o che gli immigrati lavorano solo in certi settori. Gli studi sul lavoro degli immigrati hanno fatto emergere il fatto che sempre più presente è l'imprenditoria immigrata, soprattutto nel settore della ri­storazione e della panificazione (a Milano quasi tutte le panetterie sono gestite da egiziani, e moltissimi ristoranti e pizzerie sono gestiti da cinesi o da nordafricani). Sono sorte anche piccole imprese edili, imprese di pulizie, ditte di trasporti, ecc ad opera di persone che han­no iniziato a lavorare come dipendenti e poi si sono messe in pro­prio. C'è tutta un'effervescenza di lavoro immigrato che non rientra nella nicchia dei lavori penalizzanti. Certo sono pochissimi i liberi professionisti, o le persone che lavorano come quadri o come diri­genti (tolte alcune persone provenienti dai paesi della vecchia Unio­ne europea e dall'America). Questo significa che nel mondo del lavo­ro c'è ancora una forte discriminazione, incoraggiata anche dal non riconoscimento dei titoli di studio. L'immigrato adulto spesso e vo­lentieri ha un titolo di studio elevato, come nel caso di moltissime donne dell'est o dell'America del sud le quali, seppure laureate, lavo­rano come infermiere o badanti.
Un altro problema importante è quello del lavoro sommerso e degli infortuni. L'incidenza degli infortuni sul lavoro per gli stranieri è alta, tenendo conto che i numeri riguardano quelli denunciati, e quin­di di chi lavora in regola. Il monitoraggio del lavoro sommerso, ne­cessario per quello degli italiani, lo è ancor di più per gli immigrati.

Le religioni(8)

Sulle religioni ha già ampiamente argomentato Giovanni Mari. Vi invito solo a notare come la dimensione religiosa sia vissuta in forme molto diversificate: un immigrato su dieci è stimato non credente, e all'interno del milione di musulmani presenti nel nostro paese ci sono persone che, come diversi albanesi, sono poco praticanti e non si attengono alle diete e alle osservanze tradizionali. Bisognerebbe quindi non incasellare le persone: anche noi non amiamo essere incasellati relativamente alla nostra vita di fede.

Le problematiche(9)

Sono moltissime le problematiche emergenti all'interno del fenome­no dell'immigrazione. Ho cercato di evidenziare quelle di cui si parla maggiormente, come la questione della criminalità e della devianza, innanzitutto. Le opinioni sulla criminalità e sulla devianza degli immigrati sono divergenti e anche gli studi dei sociologi, degli sta­tistici, dei politologi non si trovano d'accordo: c'è chi sostiene che la presenza degli immigrati in Italia abbia determinato un aumento della criminalità, e c'è chi sostiene che ciò non sia avvenuto. È difficile stimare questo fenomeno innanzitutto perché i dati sono difficili da reperire, non esistendo una banca dati sulla criminalità immigrata in Italia. Inoltre, parlare di criminalità e di crescita della criminalità comporterebbe un confronto con altri stati, cosa anche questa difficile da fare.
Si possono comunque leggere delle linee di tendenza. Innanzitutto il fatto che, tendenzialmente, per quanto riguarda gli immigrati, la maggior parte delle denunce è legata a reati di microcriminalità, mentre reati gravi di tipo economico sono ancora esclusivi degli ita­liani.
Inoltre la maggioranza degli addebiti penali riguarda persone che non hanno il permesso di soggiorno. E' necessario a questo proposito un supplemento di riflessione, in quanto il non avere il permesso di soggiorno non vuol dire essere criminali. E' comunque comprensibile però che la situazione prolungata di irregolarità - che impedisce l'ac­cesso a determinati servizi - comporti l'essere messi maggiormente a rischio di microcriminalità. Inoltre la criminalità organizzata, sia ita­liana che straniera, sta cominciando a coinvolgere manovalanza stra­niera.
Per quanto riguarda i fatti di sangue, a cui quotidianamente i giornali danno grande risalto, stranieri di norma non sono solo i carnefici, ma anche le vittime.
Al policentrismo etnico non corrisponde il policentrismo criminale: ci sono alcune popolazioni per le quali si registra maggiore crimina­lità. E i reati sono quasi sempre commessi da persone di prima gene­razione, cioè persone che sono venute a vivere in Italia da adulti o che comunque sono arrivate in Italia autonomamente.
Le seconde generazioni, cioè i figli degli immigrati, non risultano commettere molti reati. Questo è un dato interessante relativo all'at­tuale situazione in Italia, ma suscita anche interrogativi sul futuro, come testimoniano le rivolte delle banlieues francesi.
A proposito della popolazione carceraria, la consistenza numerica di stranieri va più correttamente interpretata. Infatti l'accesso alle carce­ri è più automatico per gli stranieri perché privi di tutta quella rete di protezioni che hanno gli autoctoni, come l'alloggio per gli arresti do­miciliari, i riferimenti familiari, ecc., che consentono di accedere a misure alternative alla pena detentiva.
Per quanto riguarda la tratta, bisogna dire che non è solo a carattere sessuale, ma anche lavorativo (ci sono persone che vengono portate in Italia per lo sfruttamento lavorativo), e che gli attori della tratta non sono solo stranieri ma anche italiani. A proposito di prostituzio­ne, il progetto del ministro delle pari opportunità, che vuole punire la prostituzione in strada, ha aumentato le situazioni di difficoltà, per­ché le vittime della tratta sono spinte a diventare a loro volta attrici della tratta, tenendo sotto controllo altre donne, nascoste negli appar­tamenti. Il formarsi di una rete di connivenza e di paura rende più difficile scoprire e intervenire su queste situazioni.
Relativamente al diritto d'asilo, bisogna dire che vengono accolte cir­ca la metà delle domande e che finalmente in Italia, nel 2008, è stata recepita una sorta di normativa sul diritto d'asilo, che, seppure lacunosa, costituisce un progresso.
Altro tema importante è la questione della salute. Nonostante il dato incontestabile che chi emigra normalmente gode di buone condizioni di salute, proprio sul tema della salute si aprono delle grosse proble­matiche. Oltre agli infortuni sul lavoro, ci sono le malattie professio­nali, ci sono le malattie specifiche delle nostre zone, che, per persone provenienti da altri paesi, possono essere più insidiose. Ci sono poi le dipendenze (droghe, alcolismo...), i problemi psicologici, su cui non si sta riflettendo a sufficienza. Oltre a ciò c'è la questione, am­piamente dibattuta nei mesi scorsi, del rischio di essere denunciati per chi è in situazione irregolare. Gli immigrati in situazioni di irre­golarità tendono a non andare a farsi curare per paura, e questo è un problema le cui conseguenze ricadono su tutta la popolazione e non solo su quella immigrata.
Un altro fatto problematico è che in Italia le misure di accoglienza, gli interventi a favore degli immigrati, sono spesso deboli. C'è una delega al privato-sociale, alle associazioni, con scarso coordinamen­to da parte dello stato. C'è uno scaricarsi di responsabilità tra istitu­zioni, comuni ed enti locali, che rende difficile il lavoro sull'immi­grazione.
E poi, nella società italiana, come diceva prima Giovanni Mari, si ri­leva una forte crescita di sentimenti xenofobi, e una viva inquietudi­ne per la presenza degli stranieri. Certo non è solo l'Italia in questa situazione: l'intera Europa vive un'ondata di razzismo e di xenofobia. In Italia, però, la situazione è sicuramente grave. Il libro bianco sul razzismo in Italia del 2009 rileva che il razzismo non si presenta più in casi isolati e sporadici, ma è un fenomeno ordinario. E mentre pri­ma si poteva sentir dire: "non sono razzista, però...", oggi molti ra­gazzi dicono che essere razzista "fa figo", fa bello, fa interessante. I media hanno sicuramente contribuito alla diffusione di questo feno­meno, favorendo soprattutto l'islamofobia. E accanto a questi senti­menti, sono cresciuti moltissimo anche gli atti di razzismo, estrema­mente rari fino a pochi anni fa. Oggi ci sono molti crimini a sfondo etnico, anche gravi. Questo significa che il razzismo è diventato un importante problema, da affrontare e da gestire.
Se, da un lato, certi italiani commettono reati di tipo razzista, è inte­ressante notare che alcuni degli stranieri di più antica immigrazione manifestano, per paura, atteggiamenti maggiormente ostili nei con­fronti dei nuovi arrivati
Nella lista ufficiale delle vittime del terremoto in Abruzzo del 6 apri­le 2009 ci sono 19 nominativi stranieri. L'Abruzzo è la regione del sud con l'incidenza di immigrati più alta, il 5,2%. Mi sembra impor­tante e significativo ricordare che anche in quelle tragiche vicende che ci hanno emozionati, degli immigrati hanno vissuto, pianto e sof­ferto con noi.
Non da sociologa, ma da educatrice, aggiungo che, giustamente, le­gittimamente, si è pianto per i morti dell'Abruzzo, ma che quasi mai ci si ricorda di tutti coloro che muoiono nel tentativo di arrivare in Italia. Nella logica delle disparità di trattamento e delle discrimina­zioni è un dato significativo: sicuramente le risonanze mediatiche sono diverse a seconda di chi è la vittima, di chi è l'attore della situa­zione.

Gli indicatori di stablizzazione(10)
Per chiudere questa prima parte, passiamo ora a considerare qualche elemento positivo. Giustamente Giovanni Mari diceva prima che le migrazioni sono un fenomeno strutturale, stabile, all'interno della no­stra società. E ci sono degli indicatori che ce lo ricordano.
Se consideriamo i progetti familiari, vediamo che nel corso di questi anni sono aumentati moltissimo i ricongiungimenti familiari (le mo­gli che vengono a raggiungere i mariti, o i mariti che vengono a rag­giungere le mogli, i figli che raggiungono i genitori).
Sono aumentati i matrimoni misti, cioè i matrimoni di italiani con stranieri, dove tendenzialmente la sposa è straniera, e anche i cosid­detti matrimoni misti-misti, cioè tra stranieri di provenienze diverse. Il matrimonio già di per sé è un evento interculturale tra due persone e quando le persone provengono da paesi diversi si è ulteriormente stimolati all'incontro, allo scambio. Questo tipo di matrimoni quindi è un indicatore di quella mescolanza che sta diventando caratteristica anche del nostro paese.
Altro indicatore è il tasso di fecondità. I minori figli di stranieri inci­dono sempre di più sulla popolazione italiana. Ci sono state 72 mila nascite nel 2008 in Italia da genitori stranieri. Questo significa che queste persone hanno intenzione di rimanere nel nostro paese, perché metter su famiglia vuol dire, almeno temporaneamente, mettere radici. I progetti migratori stanno cambiando: non c'è più l'idea di venire in Italia solo per un periodo per poi ritornare - una volta guadagnato quanto basta - al proprio paese, ma si pensa di rimanere definitivamente o perché lo si è scelto, o perché vivendo qua si sono messe radici. Con la nascita dei figli, i progetti cambiano e si tende a rimanere.
È significativo anche il dato sulle morti, anche per il fatto che la po­polazione straniera comincia ad invecchiare (anche se non ci sono solo morti per anzianità). Interessante è il fatto che le popolazioni presenti chiedono la possibilità di avere un luogo per i propri defunti. La questione della morte è una questione importante per tutte le cul­ture, per tutti i popoli, per tutte le persone. Mostrare attenzione a questi problemi è sicuramente segno di civiltà e di accoglienza, an­che delle differenti visioni religiose. Molte persone scelgono di non rimpatriare la salma, non solo perché costa, ma per poter avere vici­no i propri cari. In alcuni casi le cremazioni rendono più semplice il problema.
Un altro indicatore di stabilità sono gli acquisti immobiliari. Nono­stante le maggiori difficoltà causate dalla crisi, le famiglie immigrate tendono a comprare casa. La questione della casa è uno degli indica­tori forti di discriminazione. In Italia, le più frequenti denunce per di­scriminazione riguardano il lavoro e la possibilità di affittare o acqui­stare un alloggio. Acquistare casa significa radicarsi. Anche la mobi­lità interna si sta riducendo: soprattutto gli immigrati di più antica immigrazione tendono a spostarsi meno, un po' come gli italiani. Per seguire il lavoro, tendono a diventare pendolari, evitando di spostare la famiglia.
Riguardo alle nuove professionalità, è significativa la presenza del­l'imprenditoria, anche al femminile. E poi ci sono gli scrittori immi­grati che scrivono in italiano. Anche in questo c'è stato un passaggio. Mentre i primi scrittori scrivevano di immigrazione, dei loro paesi, delle loro esperienze di venditori ambulanti, o di stranieri, gli scritto­ri attuali scrivono romanzi, poesie, racconti, in italiano. Ciò significa essere parte della nostra cultura e volervi dare il proprio contributo.
Aumenta la partecipazione nelle associazioni, nei sindacati, nella po­litica, dove è possibile perché si può votare. Aumenta anche la parte­cipazione al femminile, e questo è significativo.
Ci sono state 53 000 acquisizioni di cittadinanza. Il 63% delle acqui­sizioni è avvenuta per matrimonio, quindi in qualche modo sono sta­te favorite le donne. L'acquisizione della cittadinanza con le nuove normative sarà più difficile, e comporterà una serie di problemi per i figli degli immigrati che sono nati e cresciuti in Italia.

Prospetto riassuntivo dell'immigrazione in Italia (2006-2008)
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                                                    2006                    2007                     2008

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Popolazione residente 59131287 59619290 60045068
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di cui stranieri 2938922 3432651 3891295
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incidenza stranieri sul tot. dei residenti 5 5,8 6,5
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presenza regolare complessiva (stima Dossier) 3690000 3987000 4329000
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% donne sulla popolazione straniera 50,6 50,4 50,8
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Nati nel corso dell'anno 57000 63000 72472
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Minori 666000 767000 862453
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Iscritti a scuola (1) 500512 574133 628937
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Acquisizioni di cittadinanza (2) 35766 38466 39484
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Quote nuovi lavoratori 170000 + 350000 170000 150000
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Domande presentate (2) 486542 740277 residuo 2007
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Ripartizione territor. dei residenti 2938922 3432651 3891295
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Nord Ovest 36,2 35,6 35,1
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Nord Est 27,3 26.9 27
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Centro 24,8 25 25,1
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Sud 8,5 8,9 9,1
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Isole 3,3 3,6 3,7
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Totale 100 100 100
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Prime cinque collettività 293892 3432651 3891295
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Romania 342200 624741 796477
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Albania 375947 401915 441396
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Marocco 343228 365908 403592
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Cina 144885 156634 170265
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Ucraina 120070 132581 153998
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Ripartizione continenti d'origine 2938922 3432651 3891295
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Europa 46,9 52 53,6
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Africa 22,3 23,2 22,4
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Asia 18 16,1 15,8
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America 9,7 8,6 8,1
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Oceania 0,4 0,1 0,1
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Totale 100 100 100
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Occupati per settore (3) 2194271 2704450 2998462 _________________________________________________________________________________________________________
Agricoltura 6,4 7,3 7,7
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Industria 35,2 35,3 33,6
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di cui costruzioni 13,3 15,1 14,2
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di cui industria dei metalli 5,1 5,1 5
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servizi 53,6 53,8 54,5
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di cui alberghi e ristoranti 10,1 10,3 10,1
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di cui servizi alle imprese 12,2 11,7 12,2
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di cui servizi alle famiglie 9,7 11,3 11,5
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Attività non determinate 4,8 3,7 4,2
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Totale 100 100 100
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I dati sono dell'Istat ad esclusione di: (1) Ministero Pubblica Istruzione; (2) Ministero dell'Interno; (3) Inail.
FONTE: Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes, Elaborazione dati su fonti varie.

apertura del sindacalismo italiano

Giovanni Mari

Dopo aver offerto un quadro generale sullo stato dell'immigrazione nel nostro paese, vorremmo affrontare ora alcuni temi più specifici del fenomeno, evidentemente nel limite posto dal tempo a disposi­zione.
Tra le questioni cui abbiamo accennato prima, due possono avere un chiarimento in chiave storica. Uno, a mio avviso, molto positivo.
Accennando alla crescita di domanda di partecipazione, Chiara Co­lombo citava anche il sindacato, dove gli immigrati sono in forte cre­scita, sia tra gli iscritti che tra i quadri. Forse è una cosa poco nota il fatto che il sindacato italiano, nelle sue varie configurazioni, è l'unica esperienza sindacale del mondo occidentale a non aver reagito con richieste di politiche di chiusura nei confronti dell'emigrazione. Anzi, nonostante le contraddizioni che inevitabilmente la presenza di lavo­ratori stranieri rischiano di generare (sfruttamento del lavoro, abbas­samento del costo della manodopera, crumiraggio, ecc.) il mondo sindacale italiano in modo compatto ha mantenuto una grande aper­tura nei confronti del fenomeno migratorio. Si tratta di una posizione che si contraddistingue nel panorama del sindacalismo europeo e nordamericano in cui invece spesso sia i leader che la base sindacale hanno reagito alla presenza di immigrati con atteggiamenti di chiusu­ra. Negli Stati Uniti uno dei principali esponenti del cosiddetto nati­vismo, cioè di quel movimento che voleva chiudere le frontiere fin dalla fine dell'800 nei confronti non degli inglesi o degli irlandesi, ma dei cinesi e degli italiani, era Samuel Gompers (1850-1924), il leader della allora principale centrale sindacale degli Stati Uniti (l'A­merican Federation of Labor). Come italiano, e anche come apparte­nente a un sindacato, provo un certo orgoglio.

L'aiuto non frena l'emigrazione

Chiara Colombo accennava anche al motivo per cui non ha senso l'affermazione "li aiutiamo a casa loro". Prima di tutto è poco serio fare affermazioni di questo genere in un paese che, anno dopo anno, taglia i suoi contributi per la cooperazione allo sviluppo, violando tutte le promesse fatte al G8 o in altre occasioni. Ma se anche l'Italia si impegnasse, come fanno tradizionalmente per esempio i paesi del nord Europa, a investire quote più significative del Pil per la coope­razione, la storia ci dice che i meccanismi migratori sono spesso in­nescati o accentuati non da situazioni di povertà assoluta, ma proprio dall'irrompere dello sviluppo. Per un effetto che può sembrare para­dossale, le popolazioni iniziano a muoversi di più, quando il reddito comincia a crescere. Questo, sul piano storico, è molto evidente nella vicenda italiana. I due momenti di maggior crescita dell'industrializzazione italiana, cioè l'epoca giolittiana all'inizio del '900, e il secondo dopoguerra, sono anche i momenti maggiormente caratterizzati dalle emigrazioni, e, nel caso del secondo dopoguerra, anche dalle migrazioni interne. Tra l'altro, soprattutto nel primo '900, l'Italia è stata tenuta in piedi dalle rimesse degli emigranti. Se non ci fossero state queste rimesse, l'Italia sarebbe fallita come paese, come gli storici dell'economia hanno chiaramente dimostrato.
Se gli Stati Uniti avessero emanato norme più restrittive in ordine al­l'immigrazione nel periodo antecedente la prima guerra mondiale (come fecero negli anni '20) bloccando così l'immigrazione italiana e scegliendo di aiutare gli italiani a casa loro, probabilmente lo svilup­po dell'Italia avrebbe subito un significativo rallentamento.
In generale, le persone che decidono di partire dal loro paese, tranne il caso di catastrofi naturali o di guerre, non sono le più povere, non solo perché non ne avrebbero la possibilità, ma anche perché la par­tenza presuppone una scelta strategica e un investimento, sia in ter­mini monetari sia in termini di capitale umano, di conoscenze, ecc., che normalmente i più poveri non hanno. Se l'Italia, ad esempio, aiu­tasse moltissimo un certo paese, il fatto che quel paese passi da una situazione di povertà ad una posizione di sviluppo iniziale, da un lato sicuramente genererebbe maggiori possibilità di occupazione in quel paese, ma dall'altro, almeno nelle prime fasi, l'aumento del benessere non provocherebbe nelle persone un maggior desiderio di restare a casa propria. Proprio la disponibilità di maggiori risorse favorirebbe il loro investimento in migrazione. Infatti, anche se il paese entrasse in una dinamica di sviluppo producendo maggior benessere e mag­giori risorse, offrirebbe comunque minori opportunità di reddito ri­spetto ai paesi a sviluppo avanzato. Le ragioni per emigrare restano tutte.

Gli immigrati sono i nuovi poveri della nostra società?

Chiara Colombo

Non necessariamente gli immigrati sono i nuovi poveri della nostra società. Va modificata l'idea che gli immigrati siano sempre povera gente. Il motivo per cui alcuni lo pensano, dipende dal fatto che sono poveri gli immigrati che vengono intercettati da chi ha una par­ticolare attenzione nei loro confronti, per esempio dall'associazioni­smo, dal mondo del volontariato, ecc. Ma gli immigrati che vengono intercettati da queste persone sono solo una fetta dell'immigrazione presente in Italia. Le persone che accedono ai centri di ascolto della Caritas, alle mense sociali, ai servizi di base dei comuni e degli enti locali, non sono rappresentative in maniera automatica di tutta la po­polazione immigrata, anche se sono le più visibili. È importante per chi vuole avere a che fare con l'immigrazione ricordarsi che non tutti gli immigrati sono equiparabili alle persone che arrivano a chiedere aiuto.
In primo luogo perché emigrare, arrivare in Italia, è conseguenza di scelte, di motivazioni e di percorsi molto diversi. Non c'è solo la fame, non ci sono solo le guerre o le catastrofi naturali, che spingono a scappare. In questi casi le persone - gli sbarchi lo testimoniano - hanno bisogno di assistenza totale immediata per poter sopravvivere.
C'è chi si sposta invece per una scelta motivata, pesata, familiare o personale. Tra queste persone, c'è chi in Italia si trova in una situa­zione di indigenza momentanea e, non riuscendo a trovare subito le modalità per portare avanti da sola la propria vita, ha bisogno di aiu­to e per questo accede a determinati servizi sociali. Ma c'è anche chi arriva in Italia e non accede ai servizi, o perché non ne ha effettiva­mente bisogno, o per orgoglio, o perché trova all'interno della sua comunità già presente - si pensi a questo proposito ai cinesi - una rete di sostegno che gli consente di condurre una vita soddisfacente. È difficile che nei centri d'ascolto arrivino dei cinesi.
Per il problema del lavoro, gli immigrati possono essere poveri eco­nomicamente per un periodo più o meno lungo, ma attenzione a non equiparare l'immigrato al povero italiano, deprivato socialmente e culturalmente. Le persone che emigrano tendenzialmente fanno parte dell'élite del paese da cui provengono, hanno studiato e con una si­tuazione nel paese d'origine economicamente sostenibile.
Le persone che emigrano a volte lo fanno perché hanno voglia di cambiare aria, di cambiar vita, di cambiar posto. In Italia si ritiene importante che i figli vengano mandati un anno all'estero a studiare, o a lavorare, anche solo a fare il lavapiatti, per imparare la lingua e conoscere un'altra cultura. Perché questa scelta, decantata dagli ita­liani, dagli americani, dagli inglesi, non potrebbe essere fatta con lo stesso spirito dalle persone del Ghana o del Perù? Un dato significa­tivo in questo senso è che c'è in Italia una buona percentuale di per­messi per studio, di giovani che vengono a studiare nelle nostre uni­versità. Vengono qui perché vogliono studiare in un paese occidenta­le, perché vogliono un titolo di studio riconosciuto. Non si viene in Italia solo per fare le badanti e per fare i raccoglitori di pomodori, ma per mille altri motivi.
C'è però un grosso rischio per gli stranieri, quello che è stato definito dell'"assimilazione segmentaria", che in America si chiama down­word assimilation. A causa di un contesto che non è in grado di ac­cogliere l'immigrato o che gli pone delle barriere, quest'ultimo fini­sce per andare a collocarsi in una fetta della società che è quella dei "nuovi poveri italiani", dei poveri non solo economicamente ma an­che culturalmente, di quelle persone che hanno magari bisogno di ostentare ricchezza o uno status sociale perché questa è la richiesta culturale della nostra società. Quando al centro d'ascolto arriva l'im­migrato maghrebino con il mercedes o il cellulare, ci si chiede come sia possibile che venga a prendere alimenti o vestiti, mentre ha i sol­di per la macchina. Ma in realtà si tratta di una fascia sociale presen­te in Italia, a cui l'immigrato si assimila.
È importante quindi che la nostra società, con le politiche sull'immi­grazione, lavori su più canali. Da un lato occorre tutelare i soggetti a rischio, le vittime della tratta, gli asilanti, che continueranno ad es­serci purtroppo. Su questo è molto interessante il lavoro di Fortress Europe (http://fortresseurope.blogspot.com/) che monitora tutti gli sbarchi, tutte le situazioni di emergenza, ecc. Dall'altro lato è impor­tante, contemporaneamente, investire sull'integrazione alta e a lungo termine, sul riconoscimento dei titoli di studio, sulle possibilità di la­voro, sulla non disuguaglianza. Anche perché mentre le problemati­che qui ricordate riguardano gli immigrati di prima generazione, in Italia avremo sempre più a che fare con la "seconda generazione", con "stranieri" che stranieri non sono, perché sono nati qua, qua hanno vissuto a lungo e hanno le loro relazioni, ecc. Se non si inve­ste in un'integrazione alta e a lungo termine, avremo tra le mani una bomba a orologeria che prima o poi scoppierà. Se lasceremo incan­crenire e ingigantire i bisogni e le questioni, allora sì che formeremo dei nuovi poveri che poi presenteranno problematiche esplosive.

problema della cittadinanza

Giovanni Mari

La legge sulla cittadinanza è la legge fondamentale che in un paese stabilisce i confini a livello civile tra un gruppo di persone apparte­nenti a una comunità, che godono di determinati diritti, e gli altri, che possono essere più o meno tutelati, ma che non sono considerati pienamente appartenenti alla comunità nazionale.
Nella legge sulla cittadinanza di un paese trovano in un certo senso il loro imprinting le politiche di integrazione, quindi non solo le politi­che di frontiera, ma anche il modo di gestire le differenze, la scuola, ecc.
Prendiamo ora in considerazione le politiche e le leggi italiane sul­l'immigrazione, con tutti i loro enormi limiti, contraddizioni e scarsa applicabilità, per cercare di capire quello che ci sta dietro. Esaminan­do la legge sulla cittadinanza, credo che alcune cose emergano con maggiore chiarezza.
L'Italia ha avuto la sua prima legge organica sulla cittadinanza nel 1912 (prima c'erano leggi ereditate dagli stati preunitari, circolari della polizia, ecc.). Siamo in un periodo di fortissima emigrazione. Il 1913 è stato l'anno in cui, statisticamente, c'è stato il picco di emigra­zione italiana (tra i 500 e i 600 mila espatri). In questa situazione, i governi e in generale l'apparato statale cercano di salvaguardare i le­gami con l'Italia, con la madrepatria, delle ormai consolidate e molto ampie comunità (o colonie, come si usava dire allora) di italiani all'e­stero. Quindi la legge del 1912 pone con grande forza il principio dello ius sanguinis: è cittadino italiano chi è figlio di cittadini italia­ni. Esistono anche divieti molto forti sulla doppia cittadinanza, che poi, per ragioni tattiche o di opportunità, sono stati via via allentati. Ritenendo che la cittadinanza passasse per via genetica, la si poteva perdere solo volontariamente, cioè chiedendo di non essere più citta­dini italiani, oppure prestando servizio militare per l'esercito di un al­tro paese (poi anche lì ogni tanto chiudevano un occhio). Il principio opposto, al di là delle sfumature, a quello dello ius sanguinis, cioè del diritto di sangue, è il cosiddetto ius soli, cioè l'attribuzione della cittadinanza a chi nasce in un determinato territorio.
Nel 1992 il Parlamento italiano ha votato praticamente all'unanimità una riforma della legge sulla cittadinanza. Nonostante fossero già av­venuti grandi sbarchi di albanesi in Puglia, nonostante la crescente presenza di tunisini, di marocchini e di eritrei, nonostante cioè il fat­to che l'Italia fosse già largamente un paese con un saldo migratorio attivo, il parlamento italiano inasprisce ulteriormente il criterio dello ius sanguinis, prendendo in considerazione l'attribuzione della citta­dinanza solo per i figli degli italiani, rendendo più facile la riacquisi­zione della cittadinanza per chi l'aveva persa (per esempio grazie a questa riforma gli argentini figli di emigrati italiani hanno potuto ottenere quella cosiddetta "cittadinanza di riserva" negli anni della crisi in Argentina). Questa riforma non contempla, se non come ipotesi del tutto residuale, la categoria della naturalizzazione, che è la modalità per cui una persona che vive per un certo numero di anni in un determinato paese può chiedere di diventarne cittadino. Dalla relazione introduttiva, si capisce che quella legge non era pensata per un'Italia che era già, e lo stava diventando sempre di più, un paese multiculturale, in cui i problemi di attribuzione di cittadinanza sarebbero diventati sempre più numerosi, ma si concentrava sugli eredi della nostra emigrazione. Con l'aggravante di rendere molto facile l'acquisizione di cittadinanza via matrimonio. Fino a qualche anno fa, come i giornali illustravano ampiamente, i matrimoni misti erano per molti un escamotage per acquisire la cittadinanza. Di contro la cittadinanza per naturalizzazione non è stata mai un diritto certo. L'autorità ha la possibilità, al termine di tutto l'iter burocratico, di dire di no senza fornire alcuna spiegazione. Ci sono, a questo proposito, casi diventati famosi, come quello dello scrittore iracheno che dopo molti anni vissuti a Torino, dopo aver fondato un centro culturale, ecc. si è visto rifiutare la domanda da parte dell'autorità pubblica senza alcuna spiegazione. Anche se non tutti gli stranieri presenti in un territorio desiderino sempre e comunque acquisire la cittadinanza di quello stato, le difficoltà frapposte per ottenerla creano un blocco, dato che l'acquisizione della cittadinanza rappresenta pur sempre un orizzonte alto di integrazione, una prospettiva ideale in riferimento alla quale collocare tutte le tappe intermedie. In Italia, invece, questo traguardo resta bloccato, e di­venta il segno di politiche di integrazione carenti, aggravate dal ta­glio dei fondi per l'integrazione, da politiche di frontiera inefficaci, criminogene, ecc.

cittadinanza e seconde generazioni

Chiara Colombo

A proposito della cittadinanza esiste anche un grave problema per le seconde generazioni. È molto difficile diventare cittadini italiani an­che per i minori che sono nati e cresciuti nel nostro paese, perché, non valendo lo ius soli ma lo ius sanguinis, per esser cittadino si deve essere figli di cittadini. Per poter avere la cittadinanza italiana, secondo la legge peggiorativa del 1992, un ragazzo straniero deve essere nato in Italia, deve aver vissuto in Italia i primi 18 anni della sua vita senza significative interruzioni (al massimo può andare all'estero per le vacanze o per trovare i nonni, ma a volte neanche quello), deve ricordarsi di fare domanda in una finestra di tempo molto breve, dopodiché l'autorità ha facoltà o meno di concedergli la cittadinanza.
La scarsa informazione sui tempi della procedura ha costituito sino ad oggi un serio problema per i ragazzi della seconda generazione, che comunque si stanno attivando per diffondere tra di loro le neces­sarie notizie.
In secondo luogo alcuni gruppi di immigrati (come i Filippini, i Ci­nesi...), per poter lavorare, poco tempo dopo la nascita mandano il fi­glio in patria dai nonni o da altri parenti, e lo riportano in Italia al momento dell'inserimento a scuola. Questi bambini, che, pur essendo rimasti per due o tre anni fuori dall'Italia, hanno poi vissuto da italia­ni fino al loro diciottesimo anno, frequentando la nostra scuola, ecc., non possono chiedere la cittadinanza al compimento dei 18 anni, ma devono accedere al lungo percorso di naturalizzazione.
Sono facilmente immaginabili le reazioni di un ragazzo o di una ra­gazza che sono nati e cresciuti qua, parlano la lingua italiana, hanno compagni e amici italiani, nel sentirsi dire che non sono italiani, non per loro libera scelta, ma perché viene loro negata questa facoltà. Si pensi anche che cosa significhi il raggiungimento dei 18 anni per gli adolescenti italiani: significa poter votare, poter fare tutta una serie di cose comunque significative, e che invece ai ragazzi di "seconda generazione" sono negate in nome del fatto che i loro genitori non sono nati qua. Con la normativa vigente adesso, il tutto si è ulterior­mente complicato, a causa della registrazione all'anagrafe: i figli di irregolari rischiano di non essere registrati in anagrafe, di non risulta­re quindi nati in Italia, anche se sono nati nel nostro paese.
Sino ai 18 anni i minori stranieri godono del permesso di soggiorno della famiglia. Al compimento dei 18 anni devono essere in grado di ottenere il permesso di soggiorno, per motivi di studio o di lavoro, al pari dei loro genitori.

diritto di voto

Giovanni Mari

Un altro aspetto su cui vale la pena di fare una riflessione di carattere civile e politico, è quello del diritto di voto. È un principio base del liberalismo, dalla rivoluzione americana in poi, quello che dice che non si può essere tassati se non si ha diritto ad esprimere una rappre­sentanza politica. Ora, in Italia ci sono 4,5 milioni di persone, di cui una grossa parte lavora e contribuisce a tenere in ordine i conti del­l'Inps, che sono prive del diritto di voto!
Negli anni successivi al 1992, cioè dopo l'approvazione della legge sulla cittadinanza, si è sviluppato un grande dibattito sul diritto di voto degli italiani all'estero, sfociato in una legge sostenuta dal mini­stro Tremaglia, approvata nel 2001-2002 quasi all'unanimità. È una legge che, al di là del giudizio personale di ognuno di noi, provoca degli effetti per lo meno bizzarri.
Va segnalato invece che la prima versione della legge poi passata come legge Turco-Napolitano, che per la prima volta regolava in modo organico tutte le questioni relative alla presenza degli stranieri in Italia, facendo un notevole sforzo di semplificazione normativa, prevedeva anche l'attribuzione del diritto di voto amministrativo agli stranieri.
L'allora primo governo Prodi ha accantonato, per una scelta tattica, questa parte perché riteneva che sarebbe stato più facile far passare la legge, che ha avuto comunque l'ostruzionismo parlamentare dal­l'allora opposizione, e della questione del diritto di voto amministra­tivo non si è più parlato. Nella scorsa legislatura (2006-2008) sono stati presentati altri progetti di legge di iniziativa governativa sia per la cittadinanza sia per il diritto di voto, mentre adesso ci sono delle proposte di Fini, mai messe in discussione in Parlamento. Noi facciamo votare chi aveva il trisavolo in Italia, che magari in Italia non ci è mai stato, che non sa una parola di italiano e non paga le tasse in Italia, e invece non diamo nessun tipo di diritto alla partecipazione politica a persone che vivono qui.
La via del matrimonio misto per ottenere cittadinanza e diritto di voto presenta tutta una complessa casistica. Chi sposa un italiano mantiene il diritto di chiedere la cittadinanza, nonostante siano state inasprite alcune condizioni, come la convivenza dopo il matrimonio portata da sei mesi a due anni.
La legge prevede anche la naturalizzazione, che però è concepita come una possibilità "di nicchia" per chi risiede in Italia da almeno 10 anni. Al momento in Italia la pratica della naturalizzazione sem­plicemente annega nel mare della burocrazia, per cui ci vogliono co­munque normalmente molto più di dieci anni, e soprattutto non è mai considerata giuridicamente un diritto, per cui l'autorità può semplice­mente negare la richiesta.
Attualmente ci sono le prime naturalizzazioni di persone immigrate molti anni fa (venti, trenta...). Da noi si è naturalizzato qualcuno del­la comunità marocchina...
Un elemento innovativo della legge Turco-Napolitano era la carta di soggiorno, che oggi si chiama permesso comunitario per residenti di lunga durata. Era un elemento di apertura solo parziale, perché era un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, che consentiva l'accesso ai diritti sociali, ma non ai diritti politici. La legge funzio­nava molto bene, ma poi nella prassi le interpretazioni sempre più re­strittive delle questure l'hanno resa di complicata applicazione. Tutto ciò che riguarda l'immigrazione viene complicato a livello burocrati­co, viene gestito molto più a livello di circolari, di prassi delle singo­le questure, di decisioni del singolo funzionario che non per decisio­ne del parlamento.

identità e alterità: accogliere la diversità

Chiara Colombo

La questione dell'identità e dell'alterità, la questione dell'incontro con l'altro, tocca profondamente ciascuno di noi. Le differenze esistono e non vanno negate, ma a seconda della situazione, del contesto, del dato storico, possono essere vissute come una ricchezza o come un limite, come una cosa bella o come un problema che fa paura.
La nostra società vive un momento di forte crisi e incontra gravi dif­ficoltà a trovare un orientamento, a capire in che cosa ci si deve rico­noscere. Anche a livello personale, se si vive un momento di difficol­tà - è quanto sostengono gli psicologi, gli educatori, i sociologi - l'ar­rivo della diversità spiazza. Per essere pronti ad accogliere la diversi­tà, per essere pronti a rapportarsi con l'altro bisogna essere integrati con se stessi. Invece in questo momento, a livello della nostra socie­tà, il confronto con la diversità spaventa. Siamo chiamati a risponde­re a questa sfida dell'oggi: è un problema reale e scottante, che va affrontato. Peraltro le diversità ci sono sempre state, anche quando nelle classi elementari non c'erano bambini stranieri. Possono esserci infatti diversità etniche, o di religione, o di carattere fisico, o di genere o di età. Ci vuole il senso dell'intercultura. Più da educatrice che da sociologa, ritengo che l'incontro con l'altro richieda una risposta di tipo educativo. Dobbiamo educarci ad incontrare l'altro, educarci al pensiero critico, a riflettere, a ritrovarci insieme e a discutere, prima che la situazione diventi esplosiva.

Quali modelli di convivenza in Europa?

Giovanni Mari

La Germania ha avuto una storia abbastanza simile a quella dell'Ita­lia nel senso che fino agli anni 90 ha rifiutato istituzionalmente di considerarsi paese di immigrazione e ha inventato la categoria dei "Gastarbeiter", dei lavoratori ospiti, considerando quindi gli immi­grati solo come manodopera, tollerandone le manifestazioni cultura­li, ecc., purché avvenissero in modo molto privato, e con una legge sulla cittadinanza molto simile a quella italiana, improntata sullo ius sanguinis. Con il governo Schröder-Fischer c'è stata una svolta con l'accettazione di considerare la Germania, che è il paese con più im­migrati in Europa, un paese di immigrazione. Adesso è in vigore una politica di immigrazione a punti, un po' come quella del Canada e dell'Australia, una politica di selezione dei flussi.
La Francia è il paese in cui si realizza, nel modo più vicino al mo­dello astratto, il principio della assimilazione, secondo il quale esi­stono valori universali, quelli della repubblica e della rivoluzione, di fronte ai quali tutti sono uguali. Le differenze individuali, di religio­ne, di cultura, ecc. sul piano della sfera pubblica, in linea di princi­pio, non esistono. Per la Francia, il fatto che un cittadino francese sia cattolico, buddista o musulmano, è irrilevante. In teoria, non si rico­nosce pubblicamente nessun gruppo religioso. Non c'è un concordato con la Chiesa cattolica, ma dal 1905 esiste una legge di drastica se­parazione tra Stato e Chiesa. Ci sono poi delle eccezioni, perché fin dall'epoca napoleonica, la Francia ha stipulato una sorta di concordato con gli ebrei, e adesso sta cercando di fare una cosa simile coi musulmani, attraverso la creazione dall'alto di un organismo di governo dei musulmani.
Ma anche i francesi non sono sempre del tutto conseguenti rispetto a quello che affermano. In teoria tutti sono uguali, tutti hanno le stesse opportunità, ma nella realtà persistono dei problemi.
Invece, il modello che si contrappone in teoria al modello dell'assi­milazione è quello del multiculturalismo.
Un'avvertenza di carattere lessicale: occorre distinguere "multiculturale", da "multiculturalista". La multiculturalità è un dato di fatto, quando più culture sono presenti in una determinata società. Multiculturalismo è invece la definizione di un progetto politico, che, a differenza del modello di assimilazione, riconosce pubblicamente l'esistenza di gruppi umani diversi (per religione, per cultura, ecc.) e attribuisce loro dei diritti. Ci sono dei diritti a cui gli individui accedono in quanto membri di un gruppo. L'esempio più tipico potrebbe essere quello dell'Olanda (fino a qualche anno fa), del Canada, in parte della Gran Bretagna, dell'Australia e della Svezia, tutti paesi in cui delle risorse, anche in termini finanziari, vengono attribuite non a politiche di integrazione su base individuale ma per gruppi. Questo ha delle conseguenze anche sul piano giuridico. In certi paesi si creano delle eccezioni giuridiche, soprattutto sul piano del diritto di famiglia. In Canada ci sono dei diritti di famiglia separati, sulla base dell'appartenenza al gruppo. Tutto questo comporta difficoltà e problemi. Chi stabilisce per esempio se una persona appartiene a un gruppo o a un altro? E' possibile per un individuo cambiare il gruppo a cui appartiene per nascita? I problemi aumentano quando il multiculturalismo interferisce col diritto penale. Ricordate il caso avvenuto in Germania, in cui un italiano di origine sarda, accusato di sequestro e di sevizie nei confronti della fidanzata lituana, ha avuto delle attenuanti per motivi etnici e culturali...
L'Italia segue una via a se stante, un po' complicata e contradditto­ria, ma anche con aspetti interessanti, come la creazione di una com­missione sull'integrazione (legge Turco-Napolitano) che ha elaborato una positiva strategia per l'integrazione, come documentano i libri di Giovanna Zincone.

disumanità e inefficacia delle politiche di chiusura

Giovanni Mari

Non credo che si possa parlare di un modello perfetto, ma ci sono più modelli, alternativi tra loro. E credo che sia importante non con­trapporre l'azione concreta alla riflessione: l'impegno in azioni con­crete deve coniugarsi ad orizzonti teorici ben chiari. L'impegno per l'assimilazione comporta significati e obiettivi molto diversi dai si­gnificati e dagli obiettivi soggiacenti all'impegno per il multicultura­lismo. Nei fatti poi nessuno dei due modelli funziona tanto bene.
L'assimilazionismo a livello teorico può piacere di più, ma nella real­tà concreta le banlieues francesi sono ugualmente in ebollizione e le persone di origine maghrebina non sono contente di essere da un lato riconosciute come cittadini francesi, e dall'altro discriminate sul lavoro. Il multiculturalismo, forse più contraddittorio sul piano teorico, sembra in certi paesi funzionare in modo discreto.
È vero che oggi la maggioranza degli italiani, se sondata a livello statistico, direbbe che gli immigrati se ne devono tutti andare e che le frontiere devono rimanere chiuse. Ma le politiche attualmente adotta­te non sono solo cattive e disumane ma sono ridicole, inadatte a rag­giungere gli obiettivi dichiarati, anche perché non effettivamente vo­luti. Le persone con responsabilità governative che dicono pubblica­mente di voler essere cattive, di voler mandare a casa tutti gli stranie­ri, in realtà non lo vogliono, perché la presenza di stranieri sfruttabili col lavoro nero fa comodo.
Il nord est è la zona d'Italia non solo con la maggior incidenza di stranieri ma anche con il più alto livello di integrazione, come ad esempio è il caso di Treviso, famosa per le stravaganti e intolleranti espressioni utilizzate dalle autorità cittadine.
Non si tratta di un paradosso, ma di un prodotto voluto. Come dice un economista famoso, Tito Boeri, l'idea è colpirne uno per tenerne sottomessi cento.

note
(1)
- Dati Istat al 31 dicembre 2008: 3.891.295 residenti con cittadinanza non italiana
- Stima Caritas per il 2009: 4,5 milioni di residenti regolari (5 milioni considerando anche i non regolarizzati con forte aumento annuale) con un'incidenza del 7,2% sul totale della popolazione.
- Quarant'anni di crescita dell'immigrazione:

	Anno            Presenze di cittadini stranieri
	1970                        143.838
	1980                        298.749
	Anni '90       superato il mezzo milione
	2000                     1.341.000
	2004                     2.402.000
	2007                     3.432.651

- Proiezioni Istat per il 2020: prospettiva di crescita del numero di stranieri a quasi 7 milioni di persone, con un'incidenza dell'11% sul totale della popolazione

(2)
- Stima ONU per il 2009: 200 milioni di migranti nel mondo (3% della popolazione mondiale).
- Migrazione verso i Paesi a sviluppo avanzato, ma anche tra Paesi in via di sviluppo.
- Europa: 30.798.000 immigrati, il 6,2% della popolazione. Concentrati in Francia, Germanio e Regno Unito, Irlanda, Spagna e Italia in forte crescita.
- Italia Nord-Ovest: 1.368.138 immigrati, l'8,6% della popolazione totale.
- VCO: 7.379 immigrati, il 4,5% della popolazione.

(3)
- Motivi dei visti: lavoro (9%), famiglia (8,3%), studio (3,4%), religione (0,5%).
- La questione dei visti per motivi turistici (58,2%) e di affari (12,6%): quanti rientrano effettivamente allo scadere del visto?
- 665 sbarchi: 30.256 uomini, 3.935 donne e 2.751 minori (di cui il 77% non accompagnato).
- 6.358 respingimenti alla frontiera, e 17.880 ritorni forzati.

(4)
- Resta maggiore la forza d'attrazione delle regioni del Nord (62% degli immigrati) e del Centro (25,1% degli immigrati).
- Incidenza più elevata nel Nord Est (9,1%).
- Regioni a forte incidenza: Emilia Romagna, Veneto, Lombardia e Umbria.
- Grandi città, ma anche centri minori (Prato, cittadine venete e emiliane, paesi con "disagio insediativo").
- Migrazioni interne e modelli insediativi connessi ad attività produttiva e reti etniche.

(5)
- Pluralità dei paesi d'origine e delle tradizioni culturali e religiose: 105 cittadinanze con almeno 900 rappresentanti ("arcipelago" o "policentrismo").
- Il 75% degli immigrati è comunque appartenente alle prime 16 cittadinanze in ordine di rappresentatività.
- il 50% proviene, nell'ordine, da: Romania, Albania, Marocco, Repubblica Popolare Cinese e Ucraina.
- Crescita forte del gruppo rumeno: quasi 800.000 residenti, un quinto del totale degli immigrati.
- Uno straniero su quattro proviene da Paesi di nuovo inserimento in Ue.

(6)
- Incidenza delle donne, cresciuta fino ad essere leggermente superiore a quella maschile (50,8% degli immigrati), ma con spiccate differenze tra le varie cittadinanze.
- Incidenza di giovani: un nato ogni sei ha almeno un genitore straniero e nella fascia 0-39 anni una persona su 10 è straniera. I minori sono 862.937.

(7)
- Un lavoratore su dieci è nato all'estero.
- Immigrati concentrati nelle province con i redditi più alti e i livelli di occupazione più bassi.
- persistente fabbisogno di manodopera aggiuntiva (decreti flussi sempre insufficienti).
- Ampio impiego nei segmenti poveri del mercato del lavoro, 5 P: Precari Pesanti Pericolosi Poco Pagati Penalizzanti socialmente (o 3 D).
- Impatto della crisi sul lavoro immigrato, ma meno dirompente rispetto agli italiani.
143.651 infortuni, di cui 176 mortali: l'incidenza infortunistica è più elevata per gli stranieri rispetto agli italiani.
- Il problema del lavoro sommerso.
- Rimesse: una risorsa per i paesi di origine ridotta in conseguenza della crisi.
- Più di un milione gli iscritti ai sindacati: spia della domanda di partecipazione e cittadinanza.
- L'imprenditoria
- Il lavoro delle donne

(8)
- Pluralismo religioso, con prevalenza di cristiani: 2.011.000, il 50,3% degli immigrati.
- il 26,5% dei cristiani è ortodosso e il 19,3% è cattolico.
- 1.292.000 musulmani, il 33,5% degli immigrati
- un immigrato su dieci non è credente.

(9)
- Criminalità e devianza:
. divergenze di opinioni sul fatto che la presenza di immigrati in Italia determini un aumento della criminalità
. la maggioranza delle denunce è per reati comuni o della microcriminalità
. la maggioranza degli addebiti penali riguarda persone prive di permesso di soggiorno
. nei fatti di sangue è spesso straniera anche la vittima
. inizio della presenza nella criminalità organizzata come manovalanza
. al policentrismo "etnico" non corrisponde un policentrismo "criminale"
. reati ascrivibili alle prime generazioni
. più frequenti ingressi in carcere per gli stranieri rispetto agli italiani
- Sfruttamento e tratta
. sessuale e lavorativo
. vittime: prevalentemente donne rumene e nigeriane, anche uomini e minori
. attori: prevalentemente connazionali, ma anche italiani
- Asilo e protezione sussidiaria:
. le domande accolte: 45%
. asilanti principalmente africani, ma anche europei e asiatici
. innovazioni nella normativa nel corso del 2008, ma permangono problematiche
- La questione della sicurezza
- La salute dei migranti: tema sottovalutato dall'agenda politico-istituzionale
- Debolezza delle misure di accoglienza e volontarismo degli interventi sociali
- Il problema del razzismo e le disparità di trattamento:
. crescita di sentimenti xenofobi e inquietudine per la presenza straniera
. crimini a sfondo etnico
.islamofobia
. denunce (all'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) di discriminazione nell'ambito del lavoro, della casa, della vita pubblica
- 6 aprile 2009, terremoto in Abruzzo: nella lista ufficiale delle vittime 19 nominativi stranieri

(10)
- I progetti familiari: ricongiungimenti, matrimoni misti, fecondità
- 72 mila nascite e 4.278 morti
- gli acquisti immobiliari e la riduzione della mobilità
- la questione del rientro in patria
- nuove professionalità
la partecipazione
- 53.696 acquisizioni di cittadinanza (63% per matrimonio e 37% per naturalizzazione)

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