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Problemi morali della penitenza (2)

sintesi della relazione di Giannino Piana
Verbania Pallanza, 18 marzo 1971

Partecipazione personale del penitente al sacramento della penitenza

In tutti i sacramenti, come abbiamo già sottolineato, va rivalutata la fede come atteggiamento personale. In particolare, nella disciplina attuale della penitenza si presta poca attenzione all'atteggiamento personale, agli atti del penitente, a causa della riduzione della penitenza a un fatto prevalentemente oggettivo e meccanico, all'ex opere operato, all'assoluzione del ministro ordinato. Della riscoperta della dimensione sia comunitaria che cultuale della penitenza cristiana si è già parlato in questo corso.
Il sacramento della penitenza come oggi è celebrato presenta sotto questo profilo due grandi pericoli.
1°abitudinarietà, la ripetizione meccanica della confessione legata alla eccessiva frequenza di questo sacramento, soprattutto perché dal tridentino in poi si sollecita la confessione dei peccati almeno mortali per accostarsi alla comunione.
2° superficialità, la tendenza a materializzare la confessione riducendola ad un atto convenzionale che non scalfisce la profondità della persona, ad una pratica per mettersi al sicuro di fronte a Dio, per tranquillizzare la coscienza (atteggiamento farisaico).
Compito di oggi è rendere più personale e responsabile la partecipazione al sacramento della penitenza. Abbiamo già visto che il sacramento presuppone la conversione personale e la rende efficace attraverso il segno sacramentale.
Ad esempio la partecipazione al sacramento della penitenza non deve basarsi su ritmi prefabbricati o imposti, ma sui ritmi personali di vita spirituale di ciascuno.

Rivalutare alcune disposizioni fondamentali del penitente
Questa presa di coscienza nel partecipare personalmente e responsabilmente al sacramento suppone la rivalutazione di alcune disposizioni fondamentali che il penitente deve avere.

Lo spirito di povertà e di umiltà
II penitente deve accettare di essere pellegrino, di essere in cammino. Il peggiore atteggiamento è quello dell'autogiustificazione, di colui che pretende di salvarsi da solo, come il fariseo della parabola. In tal modo si è impediti di riconoscersi a fondo e soprattutto di riconoscersi peccatori. Nel peccatore che si rende conto della sua povertà il regno di Dio è già presente.

Accettazione della legge del progresso
Dio ci chiama a crescere progressivamente nella libertà e nella responsabilità secondo la misura di grazia che concede a ciascuno di noi. Questa è la verità della parabola dei talenti: a ciascuno è dato in una certa misura, e a ciascuno verrà richiesto secondo quella misura che gli è stata data.
Ognuno perciò deve proporzionare il proprio itinerario alla santità in rapporto alle sue capacità ed alla situazione in cui vive. Questo comporta un tendere ad ideali sempre più grandi, e contemporaneamente l'accettare la legge della gradualità, della crescita progressiva.

Lo spirito di carità
La preoccupazione fondamentale del penitente non deve essere quella di interrogarsi dettagliatamente sulle colpe commesse, ma quella di interrogarsi sull'amore e di operare una conversione progressiva all'amore. S. Giovanni Crisostomo ha a questo riguardo una espressione bellissima: "Alla sera della vita saremo interrogati sull'amore". L'oggetto del nostro incontro con Dio sarà l'amore. Come san Paolo afferma, in 1 Corinzi, non valgono a nulla tutti i carismi e i doni, dalla profezia alla fede che trasporta le montagne, se manca la carità.
Conseguentemente dobbiamo porre la nostra attenzione sulla scelta di fondo, sull'amore, e sul rapporto che le varie azioni della mia vita hanno con l'amore.

Nuovo significato degli atti del penitente
In questa prospettiva (non autogiustificazione, legge del progresso e centralità della carità) acquistano un significato nuovo gli atti del penitente, da non vedersi disarticolati, ma come momenti di un unico processo.

Esame di coscienza
in questo momento si prende coscienza del proprio stato di peccato, ci si riconosce peccatori di fronte a Dio. L'esame di coscienza è perciò una conoscenza di se stessi ma in vista della conversione, in vista del superamento dello stato di peccato. È una vera revisione di vita in rapporto all'amore, in rapporto alla scelta di fondo. Occorre evitare a questo proposito sia il minimalismo, l'autogiustificarsi, sia l'estrinsecismo, non tenendo conto degli atteggiamenti interiori, delle motivazioni profonde che hanno causato il nostro comportamento, riconducibili sempre all'egoismo personale, all'opposizione radicale alla carità.

Atto di dolore
Questo momento di conversione non deve ridursi ad un pentimento per una mia azione che può aver offeso una legge morale, ma deve essere una decisione radicale di me stesso al bene, che coinvolge tutte le dimensioni della mia vita, tutta la mia personalità, intelligenza, affettività, volontà.

Il proposito
Non deve essere visto come un atto meccanico da assumere in rapporto ad una certa azione cattiva ripetuta abitudinariamente. Il proposito è lo sforzo che io faccio per superare la mia situazione e contemporaneamente è un atteggiamento di fiducia e di apertura di fronte a Dio che mi salva.
Occorre evitare sia l'atteggiamento fatalista di chi pensa di non poter uscire dalla propria situazione e perciò rimane in attesa di qualcosa che gli cada dall'alto, sia l'atteggiamento di scoraggiamento che nasce nella persuasione perfettistica di attingere immediatamente quel risultato che invece è il frutto di un progresso continuo.

Formazione della coscienza

Alla formazione della coscienza contribuiscono tante realtà, come la famiglia, la scuola, le comunità cristiane, l'ambiente in cui viviamo. È opportuno però anzitutto chiedersi cosa è la coscienza da un punto di vista cristiano.
La coscienza è la capacità fondamentale dell'uomo di sperimentare, dentro di sé in modo dinamico il proprio rapporto con Dio, cioè è quella facoltà che sta alla radice della mia realtà di uomo che mi consente di percepire la chiamata di Dio e di rispondere a questa chiamata. La coscienza perciò suppone un modo di essere, cioè un atteggiamento globale dell'uomo, della sua intelligenza, volontà, sentimento, a percepire la chiamata di Dio e a risponderci.

Criteri per una retta formazione della coscienza

Formazione di una personalità globale completa
La formazione della coscienza non può ridursi alla educazione intellettuale ma deve avvenire attraverso una esperienza esistenziale che coinvolge tutte le dimensioni della persona. L'educatore (genitore, formatore, prete...) deve avere una umanità pienamente integrata per poter aiutare l'uomo che matura a realizzare una unità armonica di intelligenza, volontà e cuore nella propria vita. L'azione educativa è complessa e non può ridursi all'impartire una serie di nozioni astratte che riguardano solo l'intelligenza, ma comporta l'entrare in un rapporto dialogo, in un rapporto di vita. C'è differenza tra informazione ed formazione.

Educazione al senso della libertà e responsabilità personale
Ogni educatore deve aiutare ogni persona a cercare quotidianamente il tipo di risposta che Dio vuole da lei, rispettando la libertà e la volontà di ciascuno. Educare non è rendere l'altro ciò che noi siamo o vorremmo essere, ma vuol dire aiutare l'altro ad essere se stesso, a maturare, a tirar fuori le sue potenzialità, a crescere secondo la sua vocazione e i suoi valori. Occorre denunciare l'atteggiamento di molti educatori che concepiscono l'educazione come una proiezione di se stessi sull'altro, come una proiezione sull'altro della propria mentalità, delle proprie idee, del proprio modo di porsi di fronte alla realtà.
Se educare è abituare al senso della libertà e responsabilità personali quello che conta è soprattutto creare una mentalità di fede, che indica dal di dentro le esigenze dell'amore, le esigenze del vivere cristiano.
Spesso ci si è preoccupati di educare in termini eccessivamente moralistici, indicando quello che si deve e non si deve fare, trascurando invece di creare una mentalità di fede che di conseguenza porta anche a fare certe scelte morali.
In questa prospettiva educare è anche alimentare nell'altro la fedeltà alle situazioni concrete come atteggiamento cristiano fondamentale. La coscienza cristiana matura non è applicazione meccanica di una legge, ma un continuo adattarsi alle situazioni concrete, un continuo rivivere i valori in cui si crede all'interno delle situazioni che cambiano, un leggere con occhi nuovi, in prospettive nuove le situazioni in rapporto a certi valori di fede.

Educazione sempre aperta al senso comunitario
La coscienza non è mai una coscienza individualistica. In qualsiasi situazione in cui ci si trova sentiamo sempre lo stretto legame che abbiamo con gli altri. Occorre però evitare oltre l'individualismo anche la massificazione, distinguendo fra massa e comunità. Comunità è un insieme di persone che vivono in stretta connessione, legate da rapporti interpersonali, i quali favoriscono la realizzazione della vocazione di ciascun membro della comunità. Perciò sviluppo della persona e comunità sono profondamente uniti. La massa invece è una realtà anonima, insignificante, che riduce la persona a numero. L'educazione aperta al senso comunitario ha il suo presupposto fondamentale nel fatto che la salvezza cristiana è una salvezza comunitaria. Il rapporto con gli altri non è essenziale solo all'uomo in quanto uomo, ma è anche essenziale all'uomo in quanto cristiano.
Questo comporta dare rilievo al significato sociale del peccato e della conversione. E comporta l'esigenza di porre l'accento sui peccati sociali, oggi così frequenti e trascurati, come i peccati di ingiustizia. L'attenzione alla educazione della coscienza in senso comunitario soprattutto deve orientare a vivere le proprie relazioni con gli altri nella prospettiva dei doni di Dio. L'educazione al senso comunitario deve aiutare a superare un certo atteggiamento individualistico molto frequente di chi tende a mettersi a posto la coscienza con Dio prescindendo dagli altri.

Presa di coscienza della vita cristiana come vita di continua conversione all'amore
S. Paolo, nella lettera ai Filippesi (3,12) ci rivela il senso profondo della vita cristiana: "Non che abbia già conseguito il premio e raggiunta la perfezione, ma continuo a correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato di Gesù Cristo". Una coscienza cristiana è matura nella misura in cui acquisisce il senso di questa esigenza di continuo cambiamento, di superamento di sé, di conversione. La coscienza cristiana non è matura se ha la convinzione di essere arrivata al traguardo.
Leggevo questa espressione in un libro che mi ha colpito (è un romanzo): "La condizione umana è quella di un viaggiatore che insegue l'orizzonte della perfezione il quale si allontana sempre di più". Quanto più andiamo avanti nella ricerca di superamento di noi stessi, nella ricerca di una sempre maggiore esplicitazione della nostra vita interiore e spirituale tanto più ci accorgiamo che ci rimane moltissimo da fare. Solo coloro che sono superficiali che possono accontentarsi di quello che stanno facendo. L'inquietudine è una caratteristica propria del cristiano, convinti che in fondo non abbiamo dato tutto, che non siamo arrivati al traguardo, che dobbiamo andare continuamente avanti, rompendo gli schemi che ci siamo fatti. Nessuno può affermare che la propria coscienza è pienamente formata: ciascuno vive in uno stadio di continua formazione della coscienza.

Dibattito

penitenza e comunità
Il problema che affligge tutti i sacramenti e quindi anche quello della penitenza è la mancanza di comunità cristiane autentiche. Il sacramento della penitenza acquisterebbe maggiore espressività come segno se ci fosse una vera comunità. Forse anche tanti problemi che oggi ci creiamo per rinnovarlo troverebbero una immediata soluzione nella misura in cui la comunità viva, che matura un'esperienza di fede, fosse messa in grado di assumere da se stessa quelle forme, quei ritmi, quegli atteggiamenti più corrispondenti alla vita di quella comunità. La mancanza della comunità crea la mancanza di queste scelte di espressione a livello di sacramento. Non bisogna fare della comunità un'ideale perfettistico: non ci sarà mai una comunità perfetta. Quello che conta è mettersi su una strada della costruzione di una comunità, il più possibile aderente alle esigenze di quella popolazione.
Nel rapporto tra preti e laici nella vita della comunità è importante il confronto continuo e il dialogo, il maturare insieme tutte le esperienze.
Una modifica della disciplina penitenziale che nascesse dal prete, per quanto rispondente ai criteri teologici e pastorali più aggiornati, se non nasce insieme da esigenze della comunità rischia di non avere significato. Il criterio vero è quello di maturare insieme, cioè di fare insieme esperienza, del mettere in comune ansie e problemi, del proporre e verificare esperienze nuove. Non esistono soluzioni taumaturgiche, ma è necessario un atteggiamento di ricerca e disponibilità continua a cambiare. Far maturare esperienze con libertà e con la capacità di criticarle e di superarle.
l'azione del prete e quella della comunità nella celebrazione della penitenza comunitaria
Il prete rimane nell'amministrazione dei sacramenti il centro di unità della comunità, nel senso che è colui che presiede la comunità, che fa convergere, che coordina la comunità. Ma questo presuppone l'esistenza di una comunità, senza la quale il segno del prete è un segno vuoto.

l'azione del prete e quella della comunità nella celebrazione della penitenza personale
Dal punto di vista pastorale l'attuale "confessione" così come è amministrata ha ancora senso? Bisogna ristudiare molto profondamente le forme attuali della penitenza personale per integrarla in modo anche decisivo con la penitenza comunitaria. È innegabile che l'attuale amministrazione del sacramento "confessione" emargini la dimensione comunitaria. Occorrono nuove esperienze guidate da una riflessione teologica seria, attenta alle esigenze degli uomini di oggi e alla fedeltà alla dimensione evangelica del sacramento.

importanza dell'aspetto psicologico nella celebrazione della penitenza
Può darsi che sia stato unilaterale nel presentare questo aspetto, ma occorre distinguere la cura psicologica dalla penitenza come sacramento soprannaturale. La cura psicologica è sempre una cura di una malattia ed è sempre orientata ad un'autoliberazione dell'uomo, seppure con l'ausilio e la competenza dell'esperto. La confessione invece, nella sua natura più profonda è un fatto soprannaturale, sacramentale. La confessione non è un'autoliberazione, ma un'eteroliberazione, una liberazione che viene dall'alto, come dono di Dio. Non cura una malattia psicologica, ma cura un peccato, uno stato di peccato liberamente e volontariamente scelto dalla persona.
Secondo il mio parere nella confessione si è indugiato troppo sullo psicologismo più ancora che sulla psicologia. Si è fatto della confessione uno strumento per tranquillizzare le coscienze, per risolvere certi stati di ansietà, con scarsissimi risultati sul piano psicologico e con uno snaturamento del significato più profondo del sacramento. Non sono contrario alla psicologia, ma all'uso dello psicologismo nella confessione perché porta allo snaturamento del sacramento e spesso a una deformazione della coscienza. Spesso oltretutto il prete è incompetente in materia psicologica.
Siccome poi la penitenza si rivolge all'uomo concreto e tocca tutte le situazione dell'uomo concreto, è evidente che il prete deve essere un uomo competente in umanità e quindi deve anche conoscere entro certi limiti certe leggi della psicologia, per potere mettersi in sintonia con il penitente e capire la sua situazione, per esempio cogliere certi condizionamenti che hanno pesato su certe azioni, per non dare giudizi superficiali, astratti, disincarnati dalla condizione concreta del penitente che ha davanti, e magari orientando il penitente perché si rechi dallo psicologo per affrontare i problemi psicologici che lo affliggono.
La confessione non è una psicoterapia. Ha a che fare con una colpa liberamente e consapevolmente commessa, non con malattie o condizionamenti psicologici da curare e da affrontare.

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