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L'etica della pace

Dalla guerra giusta all'ingerenza umanitaria

sintesi della relazione di Giannino Piana
Verbania Pallanza, 13 marzo 2004

La questione della promozione della pace è oggi un tema chiave dell'etica politica. Le minacce nei suoi confronti sono infatti divenute più inquietanti. La presenza di enormi apparati militari dotati di armi sempre più micidiali - si pensi a quelle atomiche, ma anche a quelle chimiche e batteriologiche - pone in una situazione di gravissimo rischio l'umanità, mentre i profondi squilibri economico-sociali tra Nord e Sud del mondo e la costante distruzione della biosfera alimentano forme crescenti di conflittualità tra i popoli. A questo si deve aggiungere (e non è cosa di poco conto) il determinarsi sullo scenario mondiale di una situazione geopolitica non ben definita e in permanente fluttuazione. Dopo il periodo della guerra fredda, che si è protratta dall'inizio dell'ultimo dopoguerra fino alla caduta del muro di Berlino (1989) - periodo caratterizzato da un equilibrio basato sulla deterrenza per il fatto che le due superpotenze Stati Uniti e URSS godevano di una schiacciante superiorità nel campo degli armamenti atomici - si è entrati in una nuova fase di assestamento, contrassegnata da forti tensioni tra poli diversi, incapaci di dare vita a un nuovo equilibrio.
Lo sviluppo di un'etica della pace implica l'impegno a ridurre gli armamenti (istituendo controlli sempre più sicuri a livello internazionale) e a superare le sperequazioni in campo economico dando vita ad assetti nuovi fondati sulla giustizia, nonché a processi di autodeterminazione dei popoli e di partecipazione politica. La ricerca della pace non può avere infatti come obiettivo esclusivo quello di impedire la guerra - questo è l'aspetto negativo, da cui è necessario partire, ma al quale non ci si deve arrestare -; deve dare fondamento e forme storiche alla positiva costruzione di un mondo in cui acquisisce primaria importanza l'impegno verso la vita di tutti e nel quale la pace diviene pertanto un obiettivo assolutamente necessario non solo perché ad essa non c'è alternativa che quella dell'annientamento del genere umano, ma perché essa ha il carattere di un dovere etico incondizionato.

la definizione di pace

Mentre nel linguaggio religioso l'accezione del termine "pace" è positiva - si pensi allo shalom biblico come stato di integrità e di benessere che coinvolge tutto l'uomo e l'intera comunità umana e che è frutto di un'opera di giustizia, la quale troverà la sua piena realizzazione nei tempi messianici - nel linguaggio politico l'accezione prevalente è di segno negativo, come assenza di guerra.
L'insufficienza di una concezione puramente negativa della pace è evidente. L'accesso a una concezione positiva implica tuttavia attenzione a un insieme di fattori, che vanno tra loro correlati per dare vita a un progetto in divenire: la pace non può infatti venire concepita come uno stato ma come un processo evolutivo, come un cammino che prende avvio da un'istanza negativa, il bisogno di sopravvivenza, e si sviluppa in positivo facendo spazio a una serie di altre istanze, quali la piena affermazione dei diritti civili e politici, il superamento delle differenze economico-sociali e culturali, la nonviolenza e la rinuncia all'uso della forza, il riconoscimento del valore inestimabile di ogni persona e il rispetto della sua dignità, nonché l'attenzione a migliorare la qualità della vita di tutti.

l'elaborazione della dottrina della guerra giusta

Nonostante il pacifismo cristiano soprattutto presente nei primi tre secoli il pensiero greco romano ha continuato ad esercitare un ruolo di primaria importanza sulla mentalità, condizionando poi la stessa dottrina ecclesiale.
S. Agostino per primo formula il concetto di guerra giusta. Pur ritenendo compito supremo della comunità politica, a cui la comunità cristiana deve concorrere, la promozione della pace, ammette in alcuni casi l'ineluttabilità della guerra, a motivo del suo pessimismo antropologico (l'uomo sta sotto il dominio del male), del dovere di farsi carico per i cristiani dei diritti civili, di una interpretazione riduttiva del discorso della montagna (il porgere l'altra guancia e l'amore del nemico) in senso spiritualizzante e privatistico. S. Agostino così elabora la dottrina della guerra giusta con l'obiettivo non di legittimare la guerra, ma di porre dei limiti alla possibilità di dichiararla (jus ad bellum), fissando tre condizioni: la giusta causa, la retta intenzione, la legittima autorità.
La Scolastica e in particolare S. Tommaso d'Aquino riprenderanno le posizioni di Agostino, aggiungendo altri due criteri: la ultima ratio (solo dopo aver esperito tutti i tentativi di trovare soluzioni per via diplomatica) e il debitus modus, che riguarda lo jus in bello (uso dei mezzi legittimi e protezione dei civili).
In epoca moderna c'è la piena formulazione della dottrina della guerra giusta, favorita dalla nascita degli stati assoluti che rivendicano il monopolio della forza (basta faide private), dalla ripresa della distinzione tra il diritto di fare la guerra e la condotta da tenere in occasione della guerra, dal recupero del diritto di legittima difesa allargandolo dalla sfera individuale a quella comunitaria o sociale: licet vim vi repellere. Le novità sono significative: il concetto di guerra giusta non è più elaborato per porre dei limiti alla guerra ma per legittimarla pienamente; il criterio fondamentale di legittimazione della guerra non è più quello oggettivo della giusta causa ma quello soggettivo della legittima autorità (assolutismo).
La manualistica cattolica continua a mantenere un giudizio negativo sulla guerra, giusitificandola solo all'interno di un'etica del compromesso, ricorrendo alla dottrina del male minore o al principio del duplice effetto e limitandone il campo all'ambito della sola difesa, nonché riconducendo le condizioni tradizionali, che fondano il diritto (mai il dovere) del ricorso ad essa all'esistenza di una vera aggressione, all'uso della forza nei limiti della necessità di difesa e alla proporzione tra il bene difeso e il male arrecato.

il superamento della dottrina della guerra giusta

La legittimazione della guerra, non solo in termini negativi come male minore in alcune situazioni particolari e ben identificate, ma come via normale di regolamentazione e di soluzione dei conflitti, continua a persistere (anzi tende persino a radicalizzarsi) nell'800 e nel '900. La guerra è infatti ritenuta - è questa la posizione di C. von Clausewitz - come mezzo legittimo e addirittura inevitabile della politica, o come "la continuazione della politica con altri mezzi". Si fa strada così una vera e propria politicizzazione della guerra, considerata come evento naturale inevitabile - si pensi all'espandersi del darwinismo sociale basato sulla convinzione che chi non cresce è destinato inesorabilmente a diminuire - ma soprattutto come un fattore decisivo per il costituirsi degli stati e come una necessità - è questa la tesi di Hegel - per la salute morale dei popoli, in quanto assicura loro espansione esterna e stabilità interna. Bellicismo e militarismo, nonostante qualche minoritaria presenza di pacifismo (anche radicale), continuano ad occupare un ruolo di primo piano, sollecitando la corsa agli armamenti e dando sempre più corpo all'immagine del nemico nonché stabilendo relazioni strette con le forme nuove di nazionalismo e coinvolgendo le stesse religioni.
A determinare una svolta rispetto a questa escalation è stata soprattutto la tecnologia, che ha messo a disposizione dell'uomo un potenziale bellico di enorme portata distruttiva e lo ha spinto a domandarsi se la minaccia dell'uso della forza e il suo uso possano essere ancora considerati vie ragionevoli di tutela della pace; o, più radicalmente, se i mezzi bellici oggi disponibili siano conciliabili con il fine della sopravvivenza dell'umanità. Dinanzi al rischio di autoannientamento sembra entrare in crisi ogni giustificazione di liceità della guerra: la portata distruttiva totale che essa possiede investe il diritto all'esistenza storica dell'umanità, che è il fondamento di ogni diritto. La pace mondiale acquista così il valore di un bene irrinunciabile, e diviene una obbligazione assoluta, un vero imperativo categorico.
Inoltre i criteri alla base della dottrina della guerra giusta, sia nel dichiararla che nel condurla, sono sempre più inapplicabili.
Che senso ha parlare di autorità legittima riferita agli stati nazionali in un contesto di crescente globalizzazione e di interdipendenza tra i popoli?
Come valutare la retta intenzione, le reali intenzioni, quando gli interessi in gioco sono complessi e molteplici, da quelli economici a quelli politici, a quelli culturali e religiosi?
In che senso può essere la guerra rimedio estremo? Non ci sono altre strade da battere per risolvere problemi di conflitto?
Inoltre la gravità degli effetti prodotti dalle armi oggi a disposizione rende sempre più difficile distinguere gli obiettivi militari da quelli civili, come risulta anche dalle guerre in corso. Allo stesso modo è sempre più difficile utilizzare il criterio della proporzionalità tra costi e benefici. Le ripercussioni che una guerra ha sono sempre maggiori e di più lunga durata.
È in crisi anche la dottrina della deterrenza (succeduta alla dottrina della guerra giusta), che si basa sul terrore, sul pericolo di rappresaglie, sulla rincorsa agli armamenti. Vi è un limite radicale: l'idea che la pace possa essere assicurata tecnicamente e non organizzata politicamente.

ingerenza umanitaria e operazioni di polizia internazionale

Le ragioni addotte implicano l'abbandono tanto della dottrina della guerra giusta quanto dell'opzione per la deterrenza, e l'assunzione della prospettiva che collega strettamente la realizzazione della pace con la scelta della nonviolenza, con l'affermazione della giustizia e con la creazione di istituzioni giuridiche capaci di mantenerla; istituendo un rapporto di stretta coerenza tra il fine cui si tende e i mezzi che si utilizzano per raggiungerlo. Ciò comporta la necessità di superare la mentalità, molto diffusa, di ritenere la sicurezza garantita dalla moltiplicazione e crescente sofisticazione degli armamenti, rinunciando a risolvere con la forza questioni che vanno invece affrontate con la pazienza del negoziato e della mediazione diplomatica e mettendo in atto una strategia graduale di disarmo controllato.
L'abbandono della dottrina della guerra giusta e della deterrenza non significa rifiuto totale all'uso della forza, se questo è necessario per impedire il genocidio o la persecuzione di massa, come il recente conflitto dei Balcani ci ha mostrato. È nata così la dottrina della ingerenza umanitaria e degli interventi di polizia internazionale, il cui scopo è quello di dare soccorso alle vittime dell'aggressione mediante il coinvolgimento della comunità internazionale. Non si tratta di reintrodurre la dottrina della guerra giusta, infatti il fine perseguito è quello di arrestare un processo di grave violenza, con un'azione circoscritta destinata solo a disarmare l'aggressore.
La legittimità di tali forme di intervento è legata al verificarsi di alcune condizioni, quali l'imparzialità, la volontà di promuovere una vera de-escalation della violenza e della guerra e la prudenza nell'uso delle armi. Per questo la loro plausibilità è tale solo in presenza di situazioni estreme, nelle quali l'uso coercitivo della forza è reso necessario sia dal fallimento registrato sul terreno della trattativa politica sia dalla considerazione che gli effetti negativi del mancato intervento risulterebbero più gravi di quelli prodotti dall'intervento stesso; o ancora per questo è necessario come garanzia di imparzialità il controllo delle grandi organizzazioni internazionali (oggi in particolare all'ONU) in grado di valutare oggettivamente (al di fuori e al di sopra di interessi particolaristici) l'opportunità (o la necessità) di intervenire.
Il modello al quale la politica deve, anche in questo caso, ispirare la propria condotta è il modello di un'etica della responsabilità, basata sulla verifica delle conseguenze, cioè sul bilancio degli effetti positivi e negativi delle azioni. L'uso della violenza è reso possibile solo a seguito di un giudizio formulato in termini di "male minore".
La politica non può infatti lasciarsi guidare dalle sole buone intenzioni o ridursi a una astratta proclamazione dei principi; deve avere come obiettivo la ricerca del "possibile" e saper correre, in alcuni casi - quando si è di fronte a situazioni drammatiche -, anche il rischio di sbagliare intervenendo piuttosto che evitando di intervenire per non sbagliare.

il profeta e il politico

La distinzione tra etica della responsabilità e della convinzione viene da Weber applicata a due categorie di persone: al profeta, a colui che ha vocazione profetica, e al politico, a colui che invece è chiamato a esercitare il potere con senso di responsabilità e che, pur avendo una intenzionalità positiva e anche una grande attenzione ai valori, deve mediare valori e principi in rapporto alle situazioni reali, deve compromettersi con la realtà.
La politica è compromissione con la realtà, nel senso più nobile del termine, come ricerca del possibile, che non è mai l'ideale, ma neanche il reale così com'è, altrimenti si cadrebbe in una forma di realismo politico che giustifica tutto.
Queste due vocazioni, sia quella del profeta che quella del politico, tutte e due nobili, dovrebbero riuscire a rapportarsi tra loro, in modo positivamente dialettico, nel senso che chi esercita l'attività politica dovrebbe costantemente misurarsi con chi ha la vocazione profetica per tener desta la tensione verso quegli ideali, e chi ha la vocazione profetica a sua volta dovrebbe costantemente confrontarsi con chi agisce sul terreno politico, non condannando a priori tutto ciò che è mediazione, compromissione con la realtà.
Dalla contrapposizione di queste competenze deriva la contrapposizione tra due pacifismi, quello più politico e quello più profetico.
Si tratta di esercitare fino in fondo la propria funzione, sapendo che quella funzione è importante nella società, non demonizzando però chi esercita l'altra funzione, anzi riuscendo a cogliere la positività dell'esercizio dell'altra funzione in quanto complementare alla propria, all'interno di una realtà molto più complessa di quanto non possa apparire.

le posizioni della chiesa cattolica

Analoghe riflessioni sono maturate nell'ambito della chiesa cattolica soprattutto a partire dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963), che rifiuta ogni tipo di guerra in quanto "contraria alla ragione". Questo superamento della tradizionale dottrina della guerra giusta si basa su motivazioni razionali (l'enciclica è rivolta a tutti gli uomini di buona volontà) quali la presenza nel nostro tempo di armi micidiali, come l'atomica, che hanno il potere sconvolgente di distruggere l'intera umanità. Occorre, in positivo, assumere comportamenti che favoriscano il disarmo integrato da controlli efficaci, la messa al bando delle armi nucleari, la ricerca di soluzioni di conflitti mediante il negoziato ispirato dalla volontà di una equa composizione delle parti.
Successivamente nella Gaudium et spes, sempre all'interno del superamento della dottrina della guerra giusta, si ricupera il principio della legittima difesa anche a livello collettivo come strumento per far fronte a situazioni critiche, nella piena salvaguardia del criterio di proporzionalità. Di qui si apre la strada ad interventi di ingerenza umanitaria o di polizia internazionale.
Giovanni Paolo II ha ribadito più volte con grande fermezza il no alla guerra, pur riconoscendo l'esigenza di intervenire per evitare il dilagare di mali maggiori, come la tortura di massa, l'eliminazione di interi gruppi etnici, le violenze efferate contro donne e bambini. In certe situazione è obbligo fare ricorso alla forza come male minore, sviluppando "azioni circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un'autorità riconosciuta a livello sopranazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi".

un nuovo modello di costruzione di convivenza umana

La costruzione di una cultura della pace ha come presupposti alcuni valori, come ad esempio quello della considerazione dell'altro come soggetto di diritto. La violenza si esercita sempre dove l'altro viene oggettivato, reso cosa, dove il diritto viene negato, perché viene negata la persona. La costruzione di una cultura della pace presuppone l'attenzione all'altro come soggetto di diritto, come essere unico, irripetibile, che non può mai essere ridotto a oggetto, a cosa, a strumento. Presuppone l'accettazione fino in fondo dell'assioma kantiano di considerare sempre l'altro come fine e mai come mezzo.
La cultura della pace passa attraverso la capacità di percepire la diversità come valore, il rapporto con l'altro come prospettiva di arricchimento della propria stessa identità.
La cultura della pace si sviluppa nell'assunzione di valori come la riconciliazione, come la ricomposizione dei conflitti. La conflittualità, che fa parte costitutivamente della condizione umana, deve essere elaborata positivamente, trasformandola da sorgente di contrapposizione, di inimicizia radicale, a elemento di integrazione della diversità.
La cultura della pace si esprime anche nel valore del perdono, della gratuità. Ci sono situazioni nelle quali la violenza è così radicalmente presente, che soltanto il perdono può risanare.
Vi è poi l'enorme compito di creare un ordine socioeconomico giusto. Paolo VI ricordava nella Populorum progressio che il vero nome della pace è la giustizia, la giustizia tra i popoli.
Prima della violenza privata esiste una violenza strutturale, legata alle sperequazioni che sussistono in questo mondo. A scatenare la violenza è anche questo ordine/disordine ingiusto, per cui il mondo dei ricchi diventa sempre più ricco e il mondo dei poveri sempre più povero. La globalizzazione, che di per sé può essere un fatto positivo, anziché ridurre le distanze, le ha accentuate. Anche istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale che erano nate per sostenere i paesi sottosviluppati hanno ribaltato radicalmente le loro finalità, favorendo l'arricchimento dei ricchi.
Da ultimo c'è tutto il discorso più positivo sulla nonviolenza come via da percorrere in alternativa alla via della guerra. Per nonviolenza si intendono una serie di operazioni, come la resistenza attiva, la disobbedienza civile, l'obiezione di coscienza, che hanno anche un significato non solo personale, ma anche sociale e politico.

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