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L'annuncio della buona notizia di Gesù e su Gesù nelle Scritture cristiane

sintesi della relazione di Rinaldo Fabris
Verbania Pallanza, 26 gennaio 2013

Abbiamo oggi l'occasione di trascorrere un po' del nostro tempo meditando sulle Scritture del Nuovo Testamento. Rifletteremo in particolare sulla figura di Gesù, ricordata dai testimoni storici nei vangeli e da Paolo di Tarso, ebreo militante, primo organizzatore della missione cristiana, pensatore non sistematico ma occasionale della fede in Gesù, il Cristo, in colui che chiama "il mio Signore". Nella linea dei vangeli sinottici e (per certi aspetti) del quarto vangelo si colloca anche il secondo volume di Luca, conosciuto impropriamente come "Atti degli Apostoli" (in realtà sono gli Atti dello Spirito Santo che anima i testimoni: innanzitutto i Dodici, e in seguito Paolo, che indirizzerà la sua missione al mondo dell'ellenismo).
Come premessa, in aggiunta a quanto ha detto Giancarlo sulle trasformazioni della religiosità degli italiani (soggettivizzazione dell'esperienza religiosa e sua marginalità nel mondo giovanile), cito una frase della cosiddetta "lettera agli ebrei". Questo testo in realtà non è rivolto agli ebrei, non è di Paolo e non è neppure una lettera, ma un'omelia rivolta a dei cristiani in crisi. E pare che i cristiani siano permanentemente in crisi di perseveranza, di tenuta. Se non sono in crisi, vuol dire che hanno perso la fede, perché la fede è inseparabile dalla ricerca, da una domanda di superamento delle difficoltà che sono insite in ogni esistenza umana. La condizione dell'essere in ricerca e quindi in crisi vale per ogni essere umano ed anche per chi ha indirizzato la sua vita nell'orizzonte religioso che Gesù ci ha rivelato. La domanda su Gesù è una domanda aperta, che richiede approfondimenti, contributi, ricerca.
Al termine dell'omelia, in Ebrei 13,8, si afferma: "Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio. Considerando attentamente l'esito finale della loro vita, imitatene la fede". L'invito è a ricordare non solo le parole, ma anche la vita coerente con la parola annunciata.
E così prosegue il testo: "Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre!" (Ebrei 13,8), Contro nostalgie del passato, contro fughe in avanti o contro negazioni del presente, Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre.
L'autore aveva iniziato la sua omelia con un bellissimo testo di apertura, un proemio, in cui dice: "Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell'alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato." (Ebrei 1,1-4)
È un testo redatto da un autore che scrive in un greco magnifico, il più elaborato in tutto il Nuovo Testamento, e che sviluppa una riflessione così sistematica e profonda su Gesù sacerdote unico da tener lontani dalla lettura la maggior parte dei cristiani, forse spaventati dalla complessità dell'impianto.

il profilo di Gesù Cristo nei vangeli

La prima parte della riflessione sarà dedicata alla figura di Gesù come ci è consegnata soprattutto dai tre vangeli sinottici (cioè che si possono leggere con un solo sguardo), senza trascurare il quarto vangelo e gli Atti degli apostoli. Non dimentichiamo che i vangeli non sono stati scritti per essere archiviati e conservati in una biblioteca, ma per essere proposti come biografie narrative di Gesù alle comunità cristiane, per incoraggiarle e per sostenerle nelle loro difficoltà. In particolare la comunità di Marco è in crisi per le persecuzioni; quella di Matteo, che deve affrontare il problema della rottura con la sinagoga, è alla ricerca di una coerenza tra fede e vita pratica, tra parola e vita; quella di Luca infine è ormai lontana dalle radici ebraiche e dà maggior rilievo alla collocazione nella storia, dentro la quale si manifesta l'azione di Dio in Gesù.

oltre una visione catastrofica del mondo

La nostra realtà di oggi è profondamente diversa rispetto a 20 secoli fa, la distanza è enorme. Ma anche oggi incontriamo delle difficoltà nel perseverare nella fede: facciamo fatica a pensare e a formulare la fede a 50 anni dal concilio, che ci ha invitato non a buttare via il passato ma a ripensarlo secondo le esigenze, le domande e le categorie delle donne e degli uomini di oggi. È necessario prendere in considerazione quella serie di situazioni critiche del modo di vivere la fede oggi (pluralismo culturale e religioso, frammentazione dei rapporti e delle esperienze, "laicità" etica...)
È una metodologia vecchia, a lungo prevalente nella chiesa, quella di guardare al mondo in termini negativi e catastrofici (anche l'ultimo libro del cardinal Bagnasco "la porta stretta", che contiene le sue prolusioni alla Cei, è una lunga serie di lamentazioni sulla malvagità del secolo presente, e presenta la navicella della chiesa come unico luogo in cui si sono custodite la verità e la salvezza per tutti).
Questa visione catastrofica (ricordo che durante l'ultimo conflitto mondiale le chiese erano piene e i confessionali affollati: solo le disgrazie riescono a ravvivare la fede?) non ha nulla a che vedere con la metodologia di Gesù e di Paolo.

il lieto annuncio del regno

Nei vangeli e nelle lettere non si trova un elenco delle disfunzioni del mondo ebraico o greco-romano, ma si parla di quello che Dio ha fatto da sempre: e cioè che Dio crea, libera e rende giustizia, in una parola regna. Annunciare e proclamare il regno di Dio vuol dire annunciare e proclamare che Dio fa esistere l'universo (crea), che interviene come un buon re per liberare il suo popolo dalla schiavitù e condurlo nella terra promessa, e che infine rende giustizia ai poveri vessati e oppressi dai potenti. Il regno è la vita, la libertà e la giustizia. È quello che propone Gesù: è la lieta notizia.
E quale buona notizia possiamo noi proporre oggi? Non è tanto il Regno di Dio in astratto, il Regno di Dio non è più una metafora per indicare l'intervento liberatorio di Dio, atteso e annunciato dai profeti. Il regno di Dio è Gesù stesso. È lui la buona notizia, è lui il contenuto del lieto annuncio, in lui il Regno di Dio viene.
È quanto possiamo ricavare dai tre vangeli sinottici (a partire da quello di Marco che è il capofila rispetto a Matteo e Luca) e dal quarto vangelo, che, contrariamente a quanto riteneva Strauss (1808-1874), contiene preziose e attendibili informazioni sul calendario e sulla geografia riguardanti la vita di Gesù e la sua passione e morte. Anche Paolo offre qualche elemento, ma i suoi scritti sono occasionali e non offrono un racconto ordinato e sistematico.

nuove scoperte e metodologie

A cinquant'anni dal Concilio Vaticano II (1962-1965) il profilo storico, umano e spirituale di Gesù, riconosciuto e proclamato "Cristo e Signore" (Fil 2,11), è cambiato, grazie a una lettura più approfondita dei Vangeli e delle altre fonti storiche. A partire dagli anni sessanta del secolo scorso, si sono precisati i criteri per stabilire la storicità dei Vangeli. Viene ampiamente utilizzato il metodo storico critico e successivamente si diffonde la lettura strutturale, semiotica, linguistica che prende in considerazione il testo come un tessuto, come un racconto che funziona
Dal 1975 prende avvio la cosiddetta "terza ricerca" sul Gesù storico. Si amplia il campo della documentazione nell'ambiente giudaico, in particolare con l'eccezionale scoperta di circa 800 manoscritti di varie dimensioni nelle grotte di Wadi Qumran presso la riva nordoccidentale del Mar Morto. I Qumranici sono una comunità di ebrei scismatici, rifugiatisi sulle rive del Mar Morto, con una comunità centrale e vari insediamenti più a sud. È una comunità intellettuale, in grado di produrre degli scritti, in un contesto in cui la maggior parte della gente era analfabeta.
Si valorizzano inoltre le fonti archeologiche, con scavi effettuati dagli americani in Galilea che hanno consentito il formarsi di un'altra immagine della patria di Gesù (come erano i villaggi, quale lingua si parlava, quale commercio, quali classi sociali, ecc).
Si affina inoltre il metodo storiografico (antropologia e sociologia).
Le nuove scoperte e l'affinamento delle metodologie hanno reso possibile un modo più approfondito di leggere i vangeli, con una maggiore attenzione al contesto sociale, politico, culturale, economico. Il risultato è uno studio su Gesù molto più realistico.

chi è Gesù?

Chi è Gesù sulla base dei Vangeli come fonti storiche? Un maestro, un fariseo illuminato, un pio giudeo? Un profeta apocalittico o escatologico? Un visionario ragionevole (visione del battesimo: si aprono i cieli e si ode una voce)? Un taumaturgo, guaritore-terapeuta? Un filosofo cinico-stoico? Un rivoluzionario zelota o pacifista sfortunato (Gesù opera quasi un secolo dopo l'occupazione romana avvenuta nel 63 a.C. in una terra in cui continue sono le rivolte politico-religiose contro l'occupante)? Il proclamatore del regno di Dio, che affida a Dio Padre la conferma del suo annuncio, sigillato dal dono della sua vita?
Proviamo a leggere alcuni testi dei vangeli sinottici, in accordo col quarto vangelo, il cui autore, di Gerusalemme, è stato probabilmente un testimone storico di Gesù, mai chiamato apostolo, con un rapporto privilegiato con il nazareno tanto da essere chiamato "il discepolo che Gesù amava".

Gesù annuncia il regno di Dio con gesti potenti e parole sapienti

al seguito di Giovanni

Gesù è stato inizialmente al seguito di un riformatore, eliminato dalla polizia di Erode Antipa, chiamato Giovanni il Battezzatore (non "Battista", che non rende il greco "o baptistès"), che predicava e praticava un rito di purificazione e di iniziazione (immersione nell'acqua corrente). Lasciato Giovanni, continua per un certo tempo l'attività battesimale per poi allontanarsi dal deserto e dai riti di purificazione. Incomincia una vita diversa tra le persone dei villaggi e annuncia la venuta del Regno senza bisogno di bagni di purificazione e di penitenze, inaugurando un modo alternativo di essere discepoli di Dio.
Tutti i vangeli sono concordi nell'iniziare la vita pubblica di Gesù con il battesimo ricevuto da Giovanni, episodio difficilmente inventato dato che sembra far trasparire un ruolo subordinato di Gesù rispetto al battezzatore. Ecco perché nel racconto evangelico la visione e la voce rivelano l'identità e la missione di Gesù, diverse da quelle di Giovanni.

gesti risananti liberanti e accoglienti

Gesù incontra nei villaggi persone disabili, disturbate, lacerate nella loro psiche, persone malate, persone messe ai margini (peccatori, pubblicani), le donne, i bambini, gli stranieri. Opera delle guarigioni, come narrano abbondantemente i sinottici. Gesù è un terapeuta, un guaritore, anche se non si lascia irretire nel ruolo di guaritore. Il quarto vangelo parla di segni, talvolta malamente indicati come miracoli. Il termine miracolo fa subito pensare a qualcosa di sorprendente, a Dio che interviene per guarire o per salvare qualcuno. Rimane l'ambiguità, espressa anche dal quarto vangelo: ma perché costui che ha guarito il cieco, non poteva far sì che il suo amico Lazzaro non morisse? Non era più economico mantenerlo in buona salute, che fare quel miracolo spettacolare?
Gesù compie questi gesti di esorcismo e di guarigione per far capire che il regno di Dio (che crea, libera e rende giustizia) non è una teoria per imbonire o imbrogliare la gente, ma la manifestazione di come Dio, dalla creazione all'esodo, ha da sempre operato per il suo popolo guarendo, risanando, rendendo giustizia. "Se compio questi gesti con la potenza di Dio (il vangelo parla di "dito di Dio"), allora Dio è presente, è arrivato". Dio è vita, giustizia, libertà, rende la dignità alla persona. Se una persona riacquista la sua dignità, la sua libertà e ritorna alla convivenza umana, se l'indemoniato è reintegrato, vuol dire che il regno di Dio è qui.
Questo regno però non è solo salute, guarigione, pane dato in abbondanza, ma è riabilitazione della persona in tutti i sensi: "ti sono rimessi i tuoi peccati". Libera dall'angoscia del male, dalla necessità di andare al tempio con un capretto o un vitellino. Dato che la gente pensa, dopo il gesto della moltiplicazione dei pani, che sia il profeta che deve venire per dare inizio alla rivolta contro la dominazione romana, e vuole farlo re, Gesù scappa e fugge sulla montagna.
Lo schema dei sinottici è molto catechistico ed essenziale: dopo l'attività svolta in Galilea Gesù compie l'ultimo viaggio a Gerusalemme, dove viene arrestato nottetempo, con l'intervento della polizia del tempio perché lo consegni al governatore rappresentante di Roma, sottoposto ad un processo sommario e ucciso fuori città in una vecchia cava di pietre. Dalla narrazione evangelica si deduce che Gesù è stato più volte a Gerusalemme, dove ha dei supporters, dei personaggi importanti che possono mettergli a disposizione una stanza, ben imbandita e arredata con divani e tappeti, per consumare con tutto il gruppo una cena (non sappiamo se pasquale). Si accenna a una persona autorevole come Giuseppe di Arimatea, in grado di rivolgersi al governatore, o anche ad un capo dei giudei, il fariseo Nicodemo. Le autorità del tempio, allarmate del pericolo costituito dal profeta della Galilea, avrebbero potuto eliminare Gesù senza clamore tramite un sicario. Invece decidono per un processo spettacolare e per un pubblica condanna con la degradante e infamante morte di croce. Gesù era pertanto un personaggio noto.

una via originale

Anche oggi, come allora, per annunciare il vangelo dobbiamo rispondere a domande reali, senza imbrogliare e imbonire la gente. Il lieto annuncio di Gesù non è fatto di bei discorsi, di prediche, di lettere pastorali ed encicliche. Gesù non era un letterato, un diplomato, ma un autodidatta, che forse sapeva leggere. Aveva imparato a memoria alcune formule come lo Shemà Israel e ascoltava le Scritture il giorno del sabato nell'assemblea sinagogale. Il lieto annuncio non è un invito ad andare al tempio, sottoponendosi a riti di purificazione e offrendo sacrifici, o a osservare il digiuno totale nel giorno dello Yom Kippur, perché alla fine Dio libererà. Non è neppure un invito alla rivolta politico-militare contro i romani. Gesù propone una via veramente originale e annuncia il regno di Dio in modo molto concreto. Il lieto annuncio, l'euanghelion, è dato attraverso gesti che restituiscono dignità interpretati dalla sua parola efficace.

le parabole come interpretazione dei gesti

La chiave per capire il pensiero di Gesù e il suo lieto annuncio la si ha nelle parabole.

gli operai chiamati a lavorare nella vigna

Anzitutto la parabola sconcertante, che si trova in Matteo, dei lavoratori della vigna. Il racconto è diviso in due parti, l'ingaggio e la paga. Gran parte dei lavoratori a giornata erano occupati in queste grandi proprietà appartenenti ai romani o a facoltosi abitanti di Gerusalemme. Il responsabile della vigna, un'ora prima del sorgere del sole, esce a chiamare per il lavoro concordando un denaro come ricompensa. Ogni tre ore, lungo tutto l'arco della giornata esce a chiamarne altri concordando quanto è giusto. Un ultimo gruppo è invitato a lavorare senza accenni alla ricompensa. Al termine della giornata, al momento della paga, sono chiamati per primi gli ultimi arrivati che hanno lavorato solo un'ora. Ricevono anche loro un denaro e questo fatto alimenta le speranze e le attese dei primi chiamati. Ma tutti ricevono un denaro e così la giusta protesta dilaga. Non è giusto che gli ultimi siano pagati come chi ha sopportato caldo e fatica tutto il giorno. Si va contro ogni giustizia retributiva e sindacale.
Gesù, con le parabole, impiega una tecnica comunicativa molto coinvolgente. Non illustra verità statiche e astratte, come abbiamo fatto noi per secoli parlando della misericordia di Dio. Non è interessato all'aspetto morale dell'onestà (si pensi alla parabola dell'amministratore disonesto lodato per la sua scaltrezza). La parabola è un racconto drammatizzato per coinvolgere l'ascoltatore in modo che prenda una decisione. Gesù racconta queste storie per rispondere alle perplessità che nascono in coloro che osservano i suoi comportamenti che risultano contrari alla tradizione e non osservanti delle norme.
Quale giustizia c'è nel dare a tutti la stessa ricompensa per un lavoro diverso per durata e fatica? La giustizia di Dio non è forse quella dell'alleanza, in base alla quale chi osserva le dieci parole avrà le benedizioni e chi non le osserva le maledizioni?
"Amico, non abbiamo contrattato per un denaro? Prendi il tuo e vattene" "Non posso fare delle cose mie quello che voglio?" "Il tuo occhio è invidioso perché io sono buono?".

la giustizia di Dio è la sua bontà

Certo, si possono fare anche delle applicazioni, del tipo: "ci sono i primi chiamati, ma per la chiamata di Dio non è mai troppo tardi". Ma si tratta appunto di applicazioni. La parabola vuol dire altro e ci fa aprire gli occhi sulla giustizia di Dio.
La giustizia di Dio è forse, come dice un giurista del terzo secolo, Ulpiano, dare a ciascuno il suo?
Secondo la parabola la giustizia di Dio non è tanto dare a ciascuno il suo, ma è la bontà di Dio. La chiamata al lavoro nella vigna è qualcosa di gratuito, è il primo dono, che non fa maturare alcun diritto. E la ricompensa è il coronamento del dono. La giustizia di Dio è il suo donare gratuitamente. Questo è il volto di Dio che appare nelle parabole e che commentano i gesti di Gesù. Appare evidente la pretestuosità della tematica dei meriti che per tanto tempo ha diviso i cattolici dai protestanti. Ma chi ha dei meriti di fronte a Dio?
I gesti e le parole di Gesù narrano l'agire di Dio. È giusto salvare una vita in giorno di sabato? Il sabato è una legge da osservare perché Dio lo ha comandato, oppure il sabato è in funzione della vita e per il bene della persona?
Gesù apre gli occhi ai suoi contemporanei e viene percepito come pericolosissimo. Come giustamente hanno messo in rilievo alcuni valenti storici ebrei, Gesù è un genio della parabola, estremamente pericoloso perché con la sua visione mette in crisi Israele e la sua esistenza. Senza la Legge, senza la Torah da osservare, Israele non esiste, viene meno il privilegio del popolo eletto davanti a Dio. Ecco perché il processo pubblico e la pubblica condanna infamante e degradante.

il padre e i due figli

Anche nella parabola chiamata, con una titolazione tipicamente moralistica, del figliol prodigo, si presenta, con accenti simili, l'agire gratuito di Dio. Il titolo "figliol prodigo" indica la lettura che è stata fatta per tanti secoli della parabola, vista con gli occhi del figlio maggiore che rimprovera il padre di non essere trattato con giustizia, simile in questo alla reazione dei lavoratori della vigna della parabola precedente.
Ci viene presentato il volto di un padre sconvolgente che, mosso dalla compassione, accoglie il figlio a prescindere dal suo pentimento. Non lo accoglie perché pentito, come continuano a dire i catechisti per aiutare i ragazzi a far bene la confessione, manipolando il senso del racconto. Le parabole non sono per i bambini, ma sono per gli adulti, in quanto suppongono un coinvolgimento totale della persona.
Dio non può resistere di fronte alla miseria del figlio: lo abbraccia, lo bacia, lo accoglie e fa festa. È questo il volto di Dio che Gesù rende presente, non con discorsi e prediche, ma con gesti concreti. Le parabole spiegano il comportamento di Gesù, del perché mangia con dei disgraziati che non frequentano la sinagoga, che non osservano il sabato, che sono a contatto con gli stranieri. Gesù fa così perché così fa Dio, un pastore che va a cercare la pecora smarrita, un padre che accoglie il figlio perché è il padre e non perché il figlio ha confessato la propria colpa e ha fatto dei buoni propositi.
La parabola non vuole semplicemente informarci sull'agire di Dio ma spinge l'ascoltatore a prendere posizione nella sua vita, a scegliere di schierarsi o con il padre o con il fratello maggiore.

annuncio e testimonianza nella prima chiesa

Dal Gesù che annuncia il regno di Dio con gesti potenti e interpretati dalle sue parole (parabole), passiamo ora al Gesù proclamato dai primi discepoli, il gruppo dei dodici e poi da Paolo, che ha lasciato una documentazione scritta di prima mano.
La documentazione sull'annuncio fatto dai primi testimoni è riferita da Luca nel secondo discorso (gli Atti). Parla degli inviati, chiamandoli apostoli. Nel linguaggio greco di Luca, apostoli vuol dire delegati, ambasciatori di un personaggio importante, in questo caso di Gesù Signore (in greco kyrios), il rappresentante di Dio, il primo inviato. L'invio avviene attraverso una investitura, per mezzo della quale il delegato viene dotato di un potere, che è lo spirito di santità (spirito santo). Per indicare questo spirito conferito dall'alto, Luca usa il termine dynamis, cioè la forza esplosiva, la potenza che viene loro da Dio, per cui saranno capaci di rendere testimonianza "da Gerusalemme fino ai confini della terra".

i dodici

I dodici sono scelti da Gesù come rappresentanti di Israele. Il fratello di Esaù, Jakob (colui che soppianta), che ha soffiato la primogenitura con la connivenza della madre, Rebecca, dopo la lotta con l'angelo al torrente, avrà un nome nuovo, Israel. Israel sono i figli di Giacobbe, che sono dodici, a capo delle dodici tribù. Gesù sceglie i Dodici per dare un nuovo inizio a Israele.
Luca privilegia questa idea e ricompone il gruppo dei dodici dopo la defezione di Giuda, facendo scegliere dal Signore il dodicesimo, Mattia. Questi sono chiamati "inviati", "delegati" del Signore. Perciò, per Luca, Paolo non è un apostolo perché non fa parte dei dodici.
I primi testimoni sono il gruppo selezionato da Gesù come simbolo dell'intero popolo ebraico. Il portavoce di questo gruppo si chiama con un nome simbolico "roccia" (Kephas, traslitterata nell'alfabeto greco con Κηφας, quindi "petra" oppure "petros", da cui "Pietro", termine che però non suscita immediatamente l'immagine della roccia salda, del fondamento).

l'annuncio

Pietro con i dodici svolge la prima parte della sua missione verso Israele in Gerusalemme, dove nasce la prima comunità storica. Luca racconta la prima testimonianza messa in bocca a Pietro che il giorno di Pentecoste esprime il senso dell'investitura avvenuta tramite il conferimento dello Spirito Santo. I discepoli sono infatti resi capaci di comunicare in tutte le lingue dei popoli, cioè di proclamare il vangelo della salvezza a tutti gli esseri umani, senza distinzione di religione, etnia e cultura (Atti 2, 1-5).
L'annuncio degli apostoli riguarda la vicenda storica di Gesù, in cui si compiono le promesse di Dio riportate nella Sacra Scrittura, quel Gesù condannato a morte dagli uomini, ma risuscitato da Dio. L'annuncio sfocia nell'invito alla conversione per ricevere il perdono dei peccati e il dono dello Spirito santo, garanzia della salvezza definitiva (Atti 2, 14-41).
Tutti i battezzati annunciano Gesù Cristo, Signore e Salvatore, con la parola e con lo stile di vita (Atti 2, 42-48).

la testimonianza

All'inizio del cap. 3 degli Atti, Luca ci presenta il gesto di riabilitazione di un disabile, lo storpio che, guarito dalla sua infermità entra con Pietro e gli apostoli nel tempio "camminando, saltando e lodando Dio". La folla si assiepa attorno a Pietro e Giovanni, meravigliata per l'accaduto. E poiché Pietro parla alla folla annunciando la resurrezione di Gesù, implicitamente quindi accusando chi lo ha arrestato e consegnato all'autorità romana, intervengono i sacerdoti e il capitano del tempio che fanno arrestare i due (notate il fatto che sono due: nel diritto ebraico, occorrevano due testimoni concordi per la validità della testimonianza). Al processo, a Pietro e a Giovanni viene chiesto con quale autorità e in nome di chi hanno operato quella guarigione e parlato alla folla. Non avendo motivazioni per condannarli, i capi del sinedrio li lasciano liberi, ordinando loro però di non parlare più di Gesù. Ma Pietro risponde: "Se sia giusto dinnanzi a Dio obbedire più a voi che a lui, giudicatelo voi stessi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato". In un processo, la testimonianza è la presa di posizione per dichiarare ciò che si è visto e udito.
La risposta di Pietro è molto interessante per capire l'idea di martiria o martyrion (parola greca per "testimonianza"). Oggi molti sprecano parole e inchiostro per dire: "Basta con le conferenze e le prediche, vogliamo testimonianza! Basta con le chiacchiere, vogliamo fatti!"
Testimoniare è innanzitutto schierarsi in difesa di qualcuno: so che cosa ha fatto o detto e testimonio in sua difesa. La testimonianza può arrivare anche al prezzo massimo della morte, del "martirio", ma è innanzitutto il prendere la parola, il prendere posizione, lo schierarsi in difesa di qualcuno. Nel caso della vicenda di Gesù processato e condannato davanti alle autorità del sinedrio, Pietro dice: "Noi abbiamo udito e visto, non possiamo tacere".

obiezione di coscienza

Giungiamo ora al secondo processo (siamo verso la fine del capitolo 5 degli Atti). In questo caso è l'insieme degli apostoli, che viene fatto arrestare per aver trasgredito all'ordine di non parlare di Gesù. All'accusa, Pietro risponde: "Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (Atti 5, 29).
È un'affermazione molto importante, è il principio dell'obiezione di coscienza. È anche la risposta di Socrate, accusato di corrompere i giovani con nuove idee, che afferma che si deve obbedire al "daimon", allo spirito-guida, allo spirito suggeritore. Probabilmente Luca ha letto qualcosa della letteratura classica e vi fa riferimento. Ma la cosa importante è la testimonianza concorde degli apostoli davanti al sinedrio.
"Il Dio dei nostri padri ha resuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo alla croce. Dio lo ha innalzato con la sua destra, facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e del perdono dei peccati" (Atti 5, 30-31).
Bisogna ammettere che in questo caso Luca tende a scaricare sul sinedrio la responsabilità (storica o giuridica o teologica) della condanna a morte. In realtà la decisione finale è stata presa dal governatore, l'unico che ha diritto di vita o di morte sui sudditi locali. Appendere a una croce, è una morte romana, non ebraica.
"E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito santo, che Dio ha dato a coloro che gli obbediscono" (Atti, 5, 32). Questa è la testimonianza.

ob-audire

La testimonianza è resa efficace da quella forza interiore che è lo Spirito, la quale è data a tutti quelli che ascoltano obbedendo, cioè "aderendo". "Obbedire" vuol dire "ascoltare", "prestare l'orecchio". Il termine italiano "obbedienza" deriva da una parola composita latina (ob-audire) che significa ascoltare con attenzione. È il significato dello Shemà Israel: ascolta Israele! E cioè: aderisci con tutto il cuore, ama con tutto il cuore, l'anima, la forza. Obbedienza non vuol dire esecuzione di un ordine senza discutere (pensate al "credere, obbedire, combattere"...). Siffatta obbedienza è quella propria degli animali o dei bambini, che devono obbedire, perché non capiscono. L'adulto, invece, ascolta, cerca di capire che cosa vuole Dio, anche attraverso una determinata disposizione di autorità. È un ascolto che presuppone un'adesione critica, un'adesione amorosa a colui che parla, una relazione vitale. È in una parola la fede.

Filippo e l'eunuco

Molto significativo per lo stile dell'annuncio è l'episodio di Filippo (Atti 8,5-40), che in seguito all'uccisione di Stefano fugge da Gerusalemme, e, dopo aver svolto un'azione evangelizzatrice in Samaria, viene invitato da Dio ad andare verso Sud, verso Gaza per incontrare una persona. Si tratta di un uomo ricco, potente, un funzionario assessore alle finanze di Candace, regina di Etiopia, che però non ha futuro, perché eunuco. Il primo annuncio ad una persona fuori da Israele è a un impotente, che non ha vita. Lo Spirito invita Filippo a raggiungere il carro e a salirvi. Il viaggiatore sta leggendo Isaia e, alla richiesta di Filippo se capisce ciò che legge, lui risponde che non può capire se nessuno glielo spiega. Al di là della sua ricchezza, istruzione e posizione sociale, ha bisogno di qualcuno che gli si sieda accanto, che legga con lui la Scrittura, che faccia un tratto di strada insieme. È interessante questa concezione dell'annuncio fatto ad un escluso, ad un diverso, ad uno segnato nella condizione sociale e culturale. È un annuncio fatto mettendosi a fianco, procedendo insieme e non dall'alto di una posizione privilegiata. È una metafora, un'icona, del modo di annunciare ai lontani, ai diversi: fare strada insieme, sedersi accanto, rileggere insieme la scrittura. È la scrittura ad annunciare Gesù. Nel brano si giunge poi al battesimo, illustrando così il percorso dell'iniziazione cristiana.

Paolo, apostolo

Passiamo ora all'annuncio e alla testimonianza di Paolo, che, pur non facendo parte del gruppo dei dodici, nelle sue lettere si definisce "Paolo apostolo", nel senso di delegato, plenipotenzario, ambasciatore autorizzato da Dio, mediante la sua esperienza di incontro con il Figlio. Grazie a questa esperienza ritiene di poter testimoniare, annunciare, proclamare con autorità.
Paolo è un grande pensatore, originale, creativo, elaboratore di teorie sulla fede cristiana e formidabile organizzatore di comunità. Sa tessere la rete dei rapporti. Il fatto di essere figlio di commercianti lo favorisce nel muoversi e camminare per le strade dell'impero. Ha fatto le scuole superiori a Gerusalemme, il suo futuro di magistrato non si avvererà a causa di un'esperienza di visione, di rivelazione, che farà cambiare il corso della sua vita. Mentre va a Damasco come commissario di polizia, viene investito da una luce: Dio rivela a lui il suo figlio.
Paolo considerava il crocifisso un maledetto da Dio, un deviante messia pericoloso per la Torah, un appartenente al nazionalismo ebraico. Invece Dio glielo rivela come figlio. Allora vuol dire che Dio non è il tutore delle leggi del sistema ebraico. Non è il giudice, ma è il padre. Per incontrare Dio non c'è bisogno di diventare ebrei. Basta incontrare il volto amante di Dio attraverso il Figlio. Non la Torah, non un rotolo, ma un figlio che si manifesta attraverso quelli che lo hanno visto, l'hanno ascoltato e soprattutto lo possono contemplare nel dono che ha fatto nell'atto finale.
È vero che Paolo sembra ignorare il Gesù storico. Non accenna alle sue parabole, ai suoi miracoli. Dice solo una cosa: mi ha amato e ha dato se stesso per me. La morte di croce non è un incidente, non è una fatalità, non è neppure la richiesta di una sofferenza estrema da parte di un Dio vendicativo. Per Paolo la croce è il Padre che perdona nel Figlio. "Se Dio è per noi chi è contro di noi? Se ha dato suo Figlio, chi ci accuserà?" (Romani 8, 31) Ha capito che il volto di Dio è il figlio. Nonostante il suo passato di ebreo militante, osservante, fiero della sua appartenenza alla cultura ebraica, discendente della tribù di Beniamino, fariseo zelante, ha lasciato perdere tutto a causa del contatto vitale con Gesù Cristo, "il mio Signore".

l'euanghelion, la lieta notizia

Questa svolta sta all'origine di quello che Paolo propone come "euanghelion". In un testo della lettera ai Romani (Rom 1,14-17), scritto alla fine degli anni 50, Paolo presenta l'euanghelion, la lieta notizia, come forza di salvezza per tutti gli esserei umani, senza distinzione tra giudei e greci.
Paolo ha ormai alle spalle 10-15 anni di attività itinerante nelle provincie orientali che vanno dalla Siria (allora la capitale della Siria non era Damasco, ma Antiochia, che oggi è invece una città turca) all'Anatolia, dall'Asia minore alla Macedonia, alla Grecia: tutte provincie percorse da Paolo seguendo le strade militari e commerciali tracciate dai romani.
Nella lettera ai Romani, Paolo fa una specie di bilancio, dicendo che, avendo finito la sua attività in quelle regioni, può finalmente andare da loro, come desiderava fin dall'inizio, non per fermarsi, ma per uno scambio con loro nella fede ("per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune" - Rom 1,12) e per poi proseguire verso occidente (cioè verso le province romane di Spagna).
Fa un bilancio annunciando qual è il contenuto sostanziale dell'"euanghelion", dal greco "eu", cioè buono, bello e "anghelos", angelo, messaggero, inviato. "Euanghelion" è allora il lieto annunzio, la buona notizia. Si pensi a quale gioia può dare una "bella notizia" come quella di chi ti comunica una guarigione: il cancro è sparito! Oppure: la tua squadra ha vinto! Paolo parla del "vangelo di Dio", della bella notizia che viene da Dio, dell'evento che lui realizza.

la lettera ai Romani

Aristotele (maestro di Alessandro Magno) dice nella "Retorica", manuale ricco di insegnamenti, che occorre dire chiaramente all'inizio di un discorso quale sarà il tema affrontato (ad esempio, la domenica mattina, si dovrebbe capire subito - e non alla fine - dove va a parare il parroco nella sua omelia...). E Paolo, che ha studiato come si compone un discorso, segue questa indicazione.
"Sono in debito verso i greci come verso i barbari (ad annunciare il vangelo sia ai greci che ai barbari" - ai greci: colti, e ai barbari, cioè ai non greci), verso i sapienti come verso gli ignoranti, sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi che siete a Roma. Io infatti non mi vergogno del vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà (Ab 2,4)" (Romani 1,14-17)
La buona notizia, l'evangelo, non sono i valori non negoziabili, ma è Gesù Cristo crocifisso, la salvezza di chiunque crede, la potenza esplosiva salvifica di Dio.
Perché a un certo punto dice "Non mi vergogno del Vangelo"? Bisogna rendersi conto che la buona notizia che Paolo vuole annunciare è Gesù crocifisso, cioè un ebreo, ucciso dall'occupante romano. È come se oggi si dicesse che il salvatore, colui che può risolvere i problemi del mondo, è un terrorista africano ucciso dai colonizzatori: una follia!
"Non mi vergogno del vangelo perché è potenza di Dio": in greco dynamis, potenza esplosiva, salvezza di chiunque crede

salvezza dal peccato, dall'angoscia della morte

Riflettiamo su queste parole: "Salvezza di chiunque crede". Chiediamoci che cosa vuol dire oggi essere salvati e chi aspetta la salvezza (i giovani? gli anziani?) e quale salvezza (dal debito pubblico, dagli scandali, dalle malattie?).
Paolo lo dirà in modo chiaro nei capitoli 5, 6 e 7 della lettera ai Romani. Si tratta della liberazione da quell'angoscia che sta dentro di noi, dalla nascita in poi: l'angoscia della morte.
Ma non la morte come fatto biologico (che interessa tutti i viventi che nascono, si riproducono e muoiono, dalle piante agli animali), ma quella che nasce dall'odio, dall'invidia, quella che genera aggressività violenta.
La radice della morte per Paolo è nel peccato. La prima volta che si usa il termine peccato nella bibbia è nella storia di due fratelli, quando il maggiore, invidioso del minore che fa fortuna, cerca di eliminarlo. Dio si rivolge a Caino e dice: il peccato è accovacciato sotto la tua porta. È una bestia, è un mostro, ma tu puoi dominarlo! Possiamo definire peccato qualsiasi attività distruttiva o autodistruttiva, la disintegrazione dell'energia di amore, l'incapacità di amare.
Dal peccato ci può salvare quella forza che ci viene da Dio, tramite Gesù. Allora si capisce che, se la salvezza è questo, il vangelo non è dottrina, non è un pacchetto di verità ben organizzate. È una forza, una potenza che sta nella storia e che si accoglie nella fede.

la fede come accoglienza del dono di Dio che è la vita

Certo nell'anno della fede si può dedicare un periodo a riflettere sull'esperienza di fede. Perché però pensare l'anno della fede come un aggiornamento dottrinale, perché proporre alla riflessione il catechismo e non il vangelo?
La fede presuppone certo anche una capacità di ragionamento, ma è prima di tutto l'accoglienza libera di questa energia, un atto che viene dall'interno.
Non possiamo intenderla come un dono che Dio fa ad alcuni, magari solo perché nati in un certo luogo o in una certa cultura, e non ad altri. Non è un problema di appartenenza geografica, storica, sociologica. Il problema non è essere cattolici o protestanti, musulmani o ebrei, credenti o non credenti. Il problema è accogliere la vita come un dono, o viverla come una fatalità di cui ci si vuole sbarazzare con forza distruttiva. Fede è l'accoglienza della potenza di Dio che è per la vita, che, come dice Paolo nel capitolo 8, ci libera dal peccato, dall'energia negativa che genera morte.
Ognuno di noi, alla nascita, ha bisogno di qualcuno che lo accolga. Può essere la madre, o chiunque altro. Essere accolti permette di "comprendere" di non essere capitati in un mondo oscuro, caotico, privo di senso. La fiducia fondamentale nella vita assume i tratti di quel volto che per primo mi ha accolto. Essere stati accolti: questa è la via della fede, è la possibilità di intuire di essere in un mondo sensato, in cui l'amore è la fonte della vita.
Immaginiamo di trovarci in una stanza buia, con porte e finestre che possiamo aprire solo noi dall'interno: la luce che entra corrisponde all'energia potente di Dio che salva. La fede è l'accoglienza di quella luce che viene da Dio, che è tutt'uno con l'accoglienza della vita.
Ci sono persone che hanno vissuto nell'infanzia esperienze traumatiche, ad esempio nel rapporto con il padre: è impossibile per loro immaginare un Dio-padre, recitare il Padre Nostro, a meno di poter fare una diversa esperienza di accoglienza.
Senza questa esperienza di accoglienza (nella comunità domestica come in quella più ampia) tutti i discorsi sulla fede sono inutili.

La lettera ai Tessalonicesi

La lettera che Paolo scrive alla chiesa di Tessalonica è il testo cristiano più antico (siamo nel 49, quindi solo sedici anni dopo il 33). Paolo è reduce dall'esperienza di Damasco, dall'incontro con i Dodici e con Pietro, e nel suo viaggio nelle province orientali è passato da Tessalonica per poi scendere ad Atene e Corinto. Da lì scrive questa lettera, in cui presenta il suo metodo e il suo stile nell'annuncio e nella testimonianza del Vangelo di Dio "come una madre che cura i propri figli" per trasmettere non solo il vangelo ma la stessa vita. Se manca la trasmissione della vita, se manca un contesto vitale in cui si trasmette, l'annuncio è inudibile.
«E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio. Voi siete testimoni, e lo è anche Dio, che il nostro comportamento verso di voi, che credete, è stato santo, giusto e irreprensibile. Sapete pure che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio, che vi chiama al suo regno e alla sua gloria. Proprio per questo anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l'avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti» (1Ts 2,6-13).
Si noti in particolare il parallelismo tra trasmettere la vita e trasmettere il vangelo: senza un contesto vitale, di incontro personale, di riferimento affettivo, che è ciò che orienta e dà energia alla vita, non ci può essere trasmissione di fede.
Paolo esorta ad un "comportamento degno", e lo fa come un padre con i propri figli, e quindi chiude con il richiamo al ringraziamento iniziale a Dio, per il fatto che essi hanno accolto la parola "non come parola di uomini ma, qual è veramente, come Parola di Dio, che opera in voi che credete".

la funzione del testimone

Tra Parola di Dio e l'accoglienza della sua Parola c'è in mezzo la parola del testimone, dell'apostolo, dell'inviato. Come può la parola di Paolo, un ebreo convertito, che viene da 1500 chilometri di distanza e che si rivolge a persone mai incontrate prima, essere accolta come Parola di Dio? La parola di Paolo assume i tratti del volto materno, della nutrice che scalda e nutre con amore i propri figli, ed anche del volto paterno di chi sostiene ed esorta.
Le parole del testo greco, tradotte con "siamo stati amorevoli" sono parole che indicano il rapporto forte e tenero di una nutrice nei confronti del bambino, al punto da suscitare l'immagine di "Paolo madre". Così pure l'espressione "mi siete diventati cari" richiama i vocaboli usati nelle iscrizioni tombali dei cimiteri per i figli morti "strappati ai genitori" e corrisponde a "eravamo come orfani di voi".
Anche il fatto di non volersi far mantenere dalle proprie comunità indica che Paolo non vuole imporsi come un funzionario, che fa valere la sua autorità, o come un mercante di dottrine religiose (vi erano a quel tempo molti predicatori itineranti che "vendevano" nuovi culti...), ma come un padre amorevole che esorta, scongiura ed incoraggia in vista del futuro che aspetta i credenti.
Il vangelo viene trasmesso dunque in un contesto di fiducia di base, quella che fonda la relazione con Dio.
La trasmissione della fede non è prima di tutto un fatto di comunicazione di contenuti, così come il vangelo non è una bella dottrina. La trasmissione della fede può avvenire solo in un rapporto affettivo profondo come quello della paternità e della maternità.

la lettera ai Corinti

Chiudo con un brano della prima lettera ai Corinti, che conferma ulteriormente quanto si è detto. Sono passati alcuni anni. Nella comunità di Corinto, che corre il rischio di dividersi nella ricerca del prestigio della "sapienza di questo mondo", Paolo proclama Gesù Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e follia per i Greci; ma per quelli che lo riconoscono e l'accolgono come testimone dell'amore di Dio, Gesù Cristo crocifisso è "potenza e sapienza di Dio" (1Cor 1,17-2,5). Lo stile dell'annuncio e della testimonianza di Gesù Cristo corrisponde alla logica del Vangelo: libertà di donarsi e coinvolgersi nella condizione di vita dei destinatari, senza pregiudizi etnico-religiosi e culturali.
«Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la Legge - pur non essendo io sotto la Legge - mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. Per coloro che non hanno Legge - pur non essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo - mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch'io» (1Cor 9,19-23).
Paolo dice ai Corinti che non hanno capito nulla del vangelo, perché il vangelo non è un movimento per far bella figura, ma è il contatto con Dio per mezzo di Gesù. E Gesù è il crocifisso.
Ad un certo punto del capitolo 9, Paolo ricorda ai Corinti di aver rinunciato ad avere da loro un compenso per non assumere il ruolo del "cliente" (il sistema clientelare diffuso nelle città romane, dove alcune persone ricevevano fondi da un padrone, che poi sostenevano nelle campagne elettorali...), in quanto ha già il suo Kyrios, il suo Signore, che è Cristo.

l'annuncio presuppone una sintonia solidale profonda

Non avendo quindi nessun padrone terreno ("essendo libero da tutti"), si è fatto "tutto per tutti".
Per guadagnare il maggior numero, Paolo si è fatto servo, cioè schiavo con gli schiavi ("doulos" in greco, cioè uno che non conta niente, quasi bestia o oggetto), debole con i deboli, cioè si è messo nella loro stessa situazione di debolezza, di insicurezza, di fragilità. Debole come quei cristiani di Corinto, sbeffeggiati dai forti e dai potenti. Giudeo con i giudei, senza Legge con chi è senza Legge: per annunciare Cristo, Paolo, ebreo, osserva le regole della Legge quando è ospite degli ebrei, mentre rinuncia all'osservanza della Legge quando è con i non ebrei (mangia di tutto, senza seguire le prescrizioni alimentari dell'ebraismo). Lo scopo infatti è far partecipi tutti del vangelo.
Per Paolo annunciare il vangelo non è come vendere un pacchetto turistico, bensì è entrare in sintonia solidale, profonda, culturale, sociale, religiosa con il destinatario del messaggio.
Il vangelo passa unicamente attraverso la condivisione della vita dell'altro. Come Dio in Gesù è diventato solidale fino alla forma estrema della morte di croce, l'unico modo per avere la vita che viene da Dio è entrare nella logica di amore che fa condividere la vita dell'altro.
Non è andare dai barboni, dai carcerati, dagli emarginati per mostrare in società che si fanno cose ammirevoli. L'unico modo per vivere e trasmettere la salvezza, la forza vitale, il dono della vita del vangelo, è entrare nella logica del vangelo, cioè vivere un amore solidale, capace di condividere, di farsi carico della condizione degli altri. "Mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch'io".

riassunto

La nostra realtà di oggi è profondamente diversa rispetto a 20 secoli fa. Ma anche oggi incontriamo delle difficoltà nel perseverare nella fede e facciamo fatica a pensare e formulare la fede a 50 anni dal concilio, che ci ha invitato non a buttare via il passato ma a ripensarlo secondo le domande e le categorie delle donne e degli uomini di oggi, tenendo conto delle situazioni critiche.
Guardare al mondo in termini negativi e catastrofici è seguire una vecchia metodologia, a lungo prevalente nella chiesa. Anche l'ultimo libro del cardinal Bagnasco, "La porta stretta", è una lunga serie di lamentazioni sulla malvagità del secolo presente, e presenta la chiesa come unico luogo in cui si sono custodite la verità e la salvezza per tutti. Questa visione catastrofica (durante l'ultimo conflitto mondiale le chiese erano piene: solo le disgrazie riescono a ravvivare la fede?) non ha nulla a che vedere con l'annuncio fatto da Gesù e da Paolo.
Nei vangeli e nelle lettere non si trova un elenco delle disfunzioni del mondo greco e romano, ma si parla di quello che Dio ha fatto da sempre. Le opere di Dio si manifestano nel creare, nel liberare e nel rendere giustizia, in una parola nel regnare. Dio regna in quanto fa esistere l'universo (crea), interviene per liberare il suo popolo dalla schiavitù, e infine rende giustizia ai poveri vessati e oppressi. Il regno di Dio è la vita, la libertà e la giustizia. È proprio ciò che propone Gesù, è la lieta notizia.
Anche oggi possiamo proporre come lieta notizia non il regno di Dio in astratto, ma Gesù stesso. È lui la buona notizia, è lui il contenuto del lieto annuncio, in lui il Regno di Dio viene.
A cinquant'anni dal Concilio Vaticano II (1962-1965) il profilo storico, umano e spirituale di Gesù, riconosciuto e proclamato "Cristo e Signore" (Fil 2,11), è cambiato, grazie a una lettura più approfondita dei Vangeli e delle altre fonti storiche.

Gesù annuncia il Regno di Dio con gesti potenti e parole sapienti
Gesù, abbandonato Giovanni il Battezzatore, annuncia la venuta del Regno senza bisogno di bagni di purificazione e di penitenze, inaugurando un modo alternativo di essere discepoli di Dio.
Gesù incontra nei villaggi persone disabili, disturbate, lacerate nella loro psiche, persone malate, persone messe ai margini (peccatori, pubblicani), le donne, i bambini, gli stranieri. Opera delle guarigioni, come narrano abbondantemente i sinottici, ma non si lascia irretire nel ruolo di guaritore. Compie gesti di esorcismo e di guarigione per far capire che il regno di Dio (che crea, libera e rende giustizia) non è una teoria per imbonire o imbrogliare la gente, ma è la manifestazione di quanto Dio, nella creazione e nell'esodo, ha da sempre operato per il suo popolo, guarendo, risanando, purificando. "Se compio questi gesti con la potenza di Dio, allora Dio è presente, è arrivato". Dio è vita, giustizia, libertà. Dio rende dignità alla persona. Se una persona riacquista la sua dignità, la sua libertà e ritorna nella convivenza umana, se l'indemoniato è reintegrato, vuol dire che il regno di Dio è qui. Questo regno non è solo salute, guarigione, pane dato in abbondanza, ma è riabilitazione della persona in tutti i sensi: "ti sono rimessi i tuoi peccati". Libera dall'angoscia del male, dalla necessità di andare al tempio per i sacrifici. Gesù fugge quando lo vogliono fare re in senso nazionalistico e antiromano dopo la moltiplicazione dei pani.
Gesù poi, nello schema dei sinottici, compie un viaggio a Gerusalemme che termina con il suo arresto, processo e uccisione in una cava di pietre. Non è stato eliminato da un sicario di nascosto, ma attraverso un processo pubblico spettacolare, con una condanna degradante come la morte di croce. Quello che era conosciuto come un profeta della Galilea era un personaggio noto, ritenuto pericoloso e pertanto da eliminare pubblicamente.
Come annunciare il vangelo oggi? Gesù non vuole imbrogliare la gente, non invita a far bene le pratiche del tempio, i bagni di purificazione, i digiuni, perché alla fine Dio libererà. Né invita alla rivolta politico-militare, organizzando la resistenza antiromana. Il lieto annuncio non è fatto di discorsi e di prediche, il regno di Dio è proposto in maniera molto concreta, attraverso gesti che restituiscono dignità, interpretati dalla parola efficace di Gesù.
La chiave per capire il pensiero di Gesù la si ha nelle sue parabole. Anzitutto la parabola sconcertante dei lavoratori della vigna, ingaggiati a diverse ore della giornata e pagati allo stesso modo. Scandalo e sacrosanta protesta per mancata giustizia retributiva. La giustizia di Dio non è forse quella dell'alleanza, in base alla quale chi osserva le dieci parole avrà le benedizioni e chi non le osserva le maledizioni?
Secondo la parabola la giustizia di Dio non è tanto dare a ciascuno il suo, ma è la bontà di Dio, il suo donare gratuitamente. La chiamata al lavoro nella vigna è qualcosa di gratuito, è il primo dono che non fa maturare alcun diritto, e la ricompensa è il coronamento del dono. Questo è il volto di Dio che appare nelle parabole e che commentano i gesti di Gesù.
Come giustamente hanno messo in rilievo alcuni valenti storici ebrei, Gesù è un genio della parabola, estremamente pericoloso perché con la sua visione mette in crisi Israele e la sua esistenza. Senza la Legge, senza la Torah da osservare, Israele non esiste, viene meno il privilegio del popolo eletto davanti a Dio. Ecco perché avviene il processo pubblico e la condanna infamante pubblica.

annuncio e testimonianza nella prima chiesa
Dal Gesù che annuncia il regno di Dio con gesti potenti e interpretati dalle sue parole (parabole) si passa ora al Gesù proclamato dai primi discepoli, il gruppo dei Dodici e poi da Paolo, che ha lasciato una documentazione scritta di prima mano
La documentazione sull'annuncio fatto dai primi testimoni è riferita da Luca negli Atti, in cui si parla di apostoli in quanto inviati, ambasciatori, delegati di Gesù Signore, il rappresentante di Dio, il primo inviato. L'invio avviene attraverso una investitura, che dota il delegato di un potere, che è lo spirito di santità (spirito santo). I 12 sono scelti da Gesù come rappresentanti di Israele (i 12 figli di Giacobbe). Per Luca Paolo non è un apostolo perché non fa parte dei Dodici.
Il portavoce del gruppo dei Dodici si chiama con un nome simbolico di "roccia" (Kephas), Pietro, che svolge insieme al gruppo la prima parte della sua missione verso Israele, verso Gerusalemme. Luca racconta la prima testimonianza messa in bocca a Pietro il giorno di Pentecoste, il gesto di riabilitazione di un disabile e il primo processo con l'ordine di non parlare più. La risposta di Pietro illustra cosa vuol dire testimonianza o martyrìa: "Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato". Cioè la testimonianza in un processo, più dei begli esempi, è la presa di posizione per testimoniare ciò che si è visto. Testimoniare è schierarsi alla difesa di...
"Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini": è il principio dell'obiezione di coscienza.
"Noi siamo testimoni di questi fatti, noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono". Obbedire vuol dire prestare l'orecchio. "Ob-audire", ascoltare con attenzione. È "l'ascolta Israele". Per noi l'obbedienza è diventata l'esecuzione di un ordine, un'obbedienza propria degli animali o dei bambini che ancora non sono in grado di comprendere. L'adulto ascolta, cerca di capire cosa vuole Dio, anche attraverso le autorità ecc...
La testimonianza è resa efficace da questa forza interiore che è lo Spirito, dato a tutti coloro che ascoltano aderendo. L'ascolto come attenzione critica, adesione amorosa a colui che parla, è relazione vitale, è fede.

L'episodio di Filippo (Atti 8,5-40) ci mostra una metafora, un'icona del modo di annunciare ai lontani. L'annuncio avviene ad un impotente, ad un eunuco, incapace di vita, che chiede che qualcuno gli si sieda accanto perché possa comprendere le Scritture. L'annuncio cioè avviene facendo strada, mettendosi a fianco, per rileggere insieme la Scrittura, e non dall'alto della propria posizione

Nelle sue lettere Paolo si presenta come l'apostolo, chiamato da Dio a portare l'annuncio e la testimonianza del vangelo come forza di salvezza, a tutti gli esseri umani senza distinzione tra giudei e greci (Rom1,14-17). Scopre che per incontrare Dio non bisogna diventare ebrei, ma basta incontrare il volto amante di Dio attraverso il figlio, in particolare nel dono dell'atto finale. La morte in croce non è una fatalità e non è neppure la richiesta di una sofferenza estrema da parte di un Dio vendicativo. La morte di croce manifesta il Padre che perdona nel Figlio.
La buona notizia non sono i valori non negoziabili, ma è Gesù Cristo crocifisso, salvezza di chiunque crede, potenza esplosiva salvifica di Dio. Per Paolo l'essere salvati è superare l'angoscia, che sta dentro di noi, della morte, quella morte che si radica nel peccato, che nasce cioè dall'odio, dall'invidia, dalla violenza, dall'incapacità di amare. La fede è l'accoglienza di questa forza, di questa potenza di Dio che è vita.
È l'esperienza dell'essere accolti che ci apre al mondo come buono e sensato, che ci apre alla vita. La via della fede è in questa accoglienza. La fede è l'accoglienza della luce che viene da Dio, che fa tutt'uno con l'accoglienza della vita. La fede cioè è accoglienza della vita come dono. Senza questa esperienza di accoglienza (nella comunità domestica come in quella più ampia) tutti i discorsi sulla fede sono inutili.
Nello scritto cristiano più antico, la lettera alla chiesa di Tessalonica, Paolo presenta il suo metodo e il suo stile nell'annuncio e nella testimonianza del Vangelo di Dio "come una madre che cura i propri figli" per trasmettere non solo il vangelo ma la stessa vita. Se manca la trasmissione della vita, se manca un contesto vitale in cui si trasmette, l'annuncio è inudibile.
Tra la parola di Dio e la parola degli uomini c'è la parola del testimone, c'è la parola di Paolo che si presenta con il volto materno, che nutre con amore i propri figli, e che si presenta anche con il volto paterno di chi sostiene ed esorta. Solo al di dentro di un rapporto affettivo materno e paterno può sbocciare e crescere la fede.
E annunciare il vangelo, ci ricorda sempre Paolo nella prima lettera ai Corinti, vuol dire entrare in sintonia solidale, profonda, culturale, sociale, religiosa del destinatario: "mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventare partecipe anch'io.

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