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Nuove forme di giustizia (banca etica, commercio equo e solidale...)

sintesi della relazione di Eugenia Montagnini
Verbania Pallanza, 9 aprile 2005

La prima parte riguarderà il modo i cui si è arrivati alle nuove forme di giustizia come il commercio equo e solidale o la banca etica, quali tappe sono state percorse, per poi descrivere in un secondo momento le pratiche e gli stili di vita alternativi.

Sviluppo versus sviluppo sostenibile

Un concetto chiave è il concetto di sviluppo versus il concetto di sviluppo sostenibile o sostenibilità.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, con gli accordi di Bretton Woods e con la costituzione di organismi internazionali fondamentali per le politiche economiche, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, si è andata via via costituendo un'idea di sviluppo che prende in considerazione solo due dimensioni: quella dello sviluppo tecnologico e quella dello sviluppo economico. Cioè: più tecnologia, più soldi - più soldi, più tecnologia: sviluppo per tutti e miglior qualità della vita. Tant'è che proprio alla fine degli anni 40 viene coniato il termine di "paesi in via di sviluppo", cioè paesi che nel giro di 50 anni al massimo avrebbero potuto raggiungere lo stile di vita, sempre dal punto di vista della ricchezza e della tecnologia, degli Stati Uniti e dell'Europa.
Alla base di questa visione sta la teoria dello sgocciolamento: la crescente ricchezza dei paesi sviluppati sgocciola sui paesi poveri, permettendo a questi di diventare paesi ricchi. Oggi gli stessi fatti indicano i limiti di quella teoria.
A partire dalla seconda metà degli anni 60 si incomincia a porre la questione di quale sviluppo. Appare insufficiente la nozione di sviluppo solo economico e tecnologico e si inizia a parlare di sviluppo umano, in particolare nella chiesa cattolica con l'enciclica di Paolo VI del 1967 Populorum Progressio, che contiene interessanti elementi per quanto riguarda il concetto di sviluppo sostenibile.
Dal 1990 le Nazioni Unite pubblicano un rapporto annuale sullo sviluppo, in cui gli indici presi in considerazione non sono solo quelli economici e tecnologici. Partendo dal concetto di sviluppo umano si giunge così al concetto di sviluppo sostenibile e di sostenibilità.
Se si inizia a porre al centro la persona ci si accorge che la persona ha bisogno non solo di ricchezza economica, ma anche di altro, come un ambiente sano in cui crescere, la possibilità di accedere alle cure sanitarie, di avere una istruzione. Nei fatti però, ancora oggi, gli stati prendono in considerazione come unico fattore di sviluppo il PIL, il prodotto interno lordo, traendo così conclusioni superficiali e scorrette. Il PIL, ad esempio, mostra che alcuni paesi africani si sono arricchiti negli ultimi 30 anni, senza dire però dove sia finita questa ricchezza (nelle mani di pochi).
Il concetto di sviluppo umano e sostenibile sottintende la consapevolezza della reciprocità dei comportamenti, cioè del fatto che con il mio stile di vita vado a influenzare lo stile di vita di altre persone che stanno in altre parti del mondo. E quindi devo partire dal presupposto che il mio stile di vita, che il tipo e la quantità dei miei consumi potrebbero togliere ad altri la possibilità di mangiare, la possibilità di avere uno stile di vita degno, la possibilità di bere, di andare a scuola, di farsi curare.
Il rapporto del 1992 delle Nazioni Unite sulla distribuzione delle ricchezze afferma che il 20 per cento della popolazione mondiale detiene l'80 per cento della ricchezza. Questa situazione non è cambiata sino ad oggi. Anzi in alcuni paesi dell'Africa e dell'America Latina la situazione è peggiore. Ad Haiti la ricchezza è in mano al 7 per cento della popolazione.
Inoltre ciascuno di noi lascia una traccia sulla terra (impronta ecologica), sia rispetto a ciò che consuma, sia rispetto a ciò che, dopo aver consumato, deve espellere come rifiuti. A questo fine, è stato fatto un calcolo puramente matematico: ogni abitante di una determinata nazione ha a disposizione un tot di ettari di terra e di acqua, da cui trae tutte le materie prime per poi lavorarle al fine di produrre tutto ciò di cui ha bisogno durante la sua vita (cibo, vestiti, trasporti, divertimenti, ...) e di riassorbire tutto ciò che durante la sua vita non utilizza più.
Ogni italiano ha bisogno di 4,2 ettari di terra e di acqua per sostenere il proprio stile di vita (all'incirca un campo di calcio e mezzo). Il problema è che il suolo, la terra e l'acqua che ciascuno di noi Italiani ha a disposizione, è di molto inferiore, per cui abbiamo un deficit del 2,7 ettari di terra e di acqua, che dobbiamo andare a prendere da qualche altra parte. Gli Stati Uniti hanno bisogno di circa 9,5 ettari, per il loro stile di vita e di consumo. Hanno a disposizione sicuramente molta più terra e più acqua di quanto non abbiamo noi, e cioè 5 ettari, ma hanno comunque un deficit di 4,5.
Ma se consideriamo un paese come l'India, che è enorme, ma molto popolato, scopriamo che è in deficit dello 0,5. Un Indiano ha bisogno di 1 ettaro di terra e di acqua (già qua notiamo una certa sproporzione) però di questo 1 ettaro di cui ha bisogno, ha la possibilità di utilizzarne solo 0,5. Se ogni famiglia cinese possedesse un'auto, avremmo il collasso del sistema ambientale. Avremmo un livello tale di inquinamento che non ci permetterebbe di vivere!
La giustizia sociale allora ci impone di riconsiderare il nostro personale e collettivo stile di vita e di consumo.
Ci siamo resi conto che il sistema sgocciolamento non funziona: pur con tutti gli aiuti umanitari che noi possiamo inviare ai paesi poveri, il problema del divario rimane. In 60 anni non siamo riusciti a livellarlo, anzi nel decennio 1990-2000 un quarto delle famiglie africane è ancora più povero di quanto non fosse nel decennio anni '80. E anche questo è sicuramente uno degli elementi che mette in discussione il principio liberista della globalizzazione secondo il quale l'accesso a tutti al mercato favorirebbe la distribuzione della ricchezza, e quindi maggiore possibilità di livellarsi economicamente. Sono necessari altri stili di vita e altri stili di consumo.
L'accresciuta possibilità di accedere alle informazioni ci ha consentito di vivere in diretta la tragedia dello tsunami, provando grandi emozioni e indignazioni e favorendo immediate forme di solidarietà. Ma questo non basta. È necessario il passaggio dall'indignazione tout court all'indignazione etica.
Non basta indignarsi per quello che vediamo, è necessario risalire alle cause. Non basta dire che c'è un divario di ricchezza tra Nord e Sud del mondo, occorre individuarne le cause. Qui nasce l'indignazione etica, un'indignazione che uno percepisce per il semplice fatto di essere umano.
Ad esempio, di fronte al problema del debito economico contratto da molti paesi poveri, in alcuni paesi dell'America Latina l'indignazione che scaturiva dalla considerazione che il pagamento del debito avrebbe ridotto alla fame tantissime persone si è trasformata in indignazione etica considerando le cause di quel debito. Di fronte al debito economico contratto dai paesi poveri stava il debito ecologico contratto dai paesi ricchi. È un'indignazione che deve essere condivisa.

Stili di vita e di consumo alternativi

Anche sul tema del consumo vi è stata una evoluzione nella riflessione. Il concetto di sviluppo inteso solo in termini economici e tecnologici ha comportato la riduzione delle persone a puri consumatori. Euclides Mance, filosofo ed economista brasiliano che fa parte dell'équipe di Lula, sostiene che esistono quattro tipi di consumo: il consumo forzoso, il consumo alienante, il consumo che lui chiama del bem vivir e il consumo solidale.
Il consumo forzoso è quello di chi non ha alcun mezzo per consumare, di chi cerca qualcosa da mangiare nel cassonetto della spazzatura.
Il consumo alienante è quello che ci viene proposto attraverso il martellamento pubblicitario: si consuma quello che si vede alla televisione, indipendentemente dal fatto che se ne abbia bisogno, dove la dimensione del logo, della marca, è molto più importante di quanto lo siano le qualità effettive ed intrinseche del prodotto stesso.
Poi c'è il consumo del bem vivir, cioè del vivere bene. Consumo con delle modalità che mi fanno sentire in armonia con me stesso e con ciò che mi circonda. Ciò che consumo non deve danneggiarmi, non deve danneggiare la mia salute, non deve danneggiare ciò che sta fuori di me. Si va creando una consapevolezza e diffondendo una conoscenza che porta, per esempio, a preferire prodotti non OGM piuttosto che prodotti OGM. Altro esempio potrebbe essere quello di prodotti, come cosmetici, creme, shampoo, bagno schiuma, ecc., non testati su animali. Oppure alimentari, come il tonno in scatola, per il quale ormai viene indicato se nella pesca vi è stata attenzione ai delfini oppure no. È un fenomeno iniziato alla metà degli anni '90, con la diffusione di alcune informazioni e la crescita di certe sensibilità. Qui l'accento è posto sul mio benessere, il mio sentirmi in pace, a posto con me stesso.
Altro passaggio è il consumo solidale, dove io prendo in considerazione oltre al mio benessere e al rispetto per l'ambiente, anche il benessere di altre persone. Sono consapevole che, consumando una certa quantità di prodotti in una certa maniera, rischio di sottrarre risorse ad altre persone. Questa è una quarta forma di consumo, che non è una novità di oggi né di ieri, ma che si è via via radicata negli ultimi 30 anni. Se prendiamo in considerazione in Italia la diffusione del commercio equo e solidale, possiamo trarne molte conclusioni.

il commercio equo e solidale

Il commercio equo e solidale ha cominciato a fare capolino prima in maniera molto destrutturata dalla fine degli anni '70, poi in maniera sempre più strutturata dalla fine degli anni '80. Le prime forme di commercio equo e solidale riguardavano l'artigianato: erano una modalità per sostenere dei progetti, ma non mettevano ancora in discussione il nostro stile di vita.
Poi di fronte al divario nord-sud e alla consapevolezza dell'insufficienza dell'atto di carità, si è iniziato a ragionare insieme su forme alternative di produzione e di consumo, sia nell'ambito della sinistra sociale che del progressismo cattolico. Si diffondono così pratiche di consumo critico come quelle del commercio equo e solidale, successivamente della banca etica, del turismo responsabile.
Agli inizi degli anni '90 si è aperta in Italia la prima bottega del commercio equo e solidale. Ora sono oltre 500 e i prodotti sono venduti anche all'interno della grande distribuzione. Troviamo per esempio i prodotti di CTM-Altromercato all'Esselunga, quelli Fair Trade alla Coop e al GS.
Si pone il problema se stare dentro al sistema con il rischio di essere assorbiti dalle sue logiche oppure se starne fuori scontando la marginalità.
L'entrare nella grande distribuzione voleva dire da un lato avere la possibilità di raggiungere più persone, dall'altro rischiare di abbassare il livello di criticità. Infatti lo stile di vita e lo stile di consumo diversi, che concorrono alla reale costruzione di giustizia sociale, non possono limitarsi al consumo. Cioè non basta che io acquisti il caffè fuori dal banchetto della parrocchia o alla Bottega: l'acquisto di quel caffè non deve essere occasionale, ma una pratica nel tempo, che metta in discussione altri miei stili di vita e di consumo.
Noi facciamo un'azione di criticità non solo acquistando un certo prodotto, ma quando all'acquisto associamo anche un consumo critico e consapevole. Dopo aver acquistato e consumato, si apre infatti un'altra dimensione: la dimensione dello smaltimento di ciò che non consumiamo più. Bauman, citato già negli incontri precedenti, dice che la nostra società può essere letta anche attraverso i rifiuti che noi produciamo. L'indignazione diventa etica quando da indignazione del singolo diventa pratica collettiva. La giustizia diventa giustizia sociale quando da giustizia delle istituzioni diventa giustizia diffusa nella società civile, senza perdere la dimensione istituzionale. Anche la pratica del consumo, dell'acquisto e poi dello smaltimento del rifiuto deve diventare una pratica di cui ciascuno si fa carico.
Nell'ambito dello smaltimento dei rifiuti prevale nettamente la delega: non siamo noi, che i rifiuti li produciamo, ad occuparci del loro smaltimento. Anzi, preferiamo che questi rifiuti vengano smaltiti il più lontano possibile da noi!
Ci troviamo oggi di fronte ad una crisi di crescita. Ciò significa che il boom è stato tale che in alcuni casi l'offerta fatica a stare dietro alla domanda, ma soprattutto che chi in Italia ha introdotto il commercio equo e solidale fatica a realizzare un'educazione effettiva. Ci si rende conto che il pericolo grave è che dal prodotto - dal tè, dal caffè, dal cioccolato, dalla banana - venga sganciato il messaggio di un consumo diverso e di uno stile di vita differente.
In sintesi: credo che la giustizia sociale sia anche uno stile di vita. Io mi sono limitata al discorso del commercio equo e solidale descrivendolo in maniera semplificata e veloce. Ci sono tante altre forme, ma sono partita da questa che si è sviluppata nel nostro contesto. In Germania è avvenuto il contrario, si è partiti dalla dimensione dell'ambiente e poi si è arrivati al commercio equo e solidale. In Italia, siamo partiti dal commercio equo e solidale e via via abbiamo introdotto altri discorsi, altre pratiche. La giustizia sociale come stile di vita non la possiamo delegare alle istituzioni, ma deve diventare uno stile collettivo, di condivisione ampia. È molto bello pensare che quasi tutte le botteghe del commercio equo e solidale siano nate da un processo di condivisione culturale di un percorso che per anni ha portato dei gruppi di persone (centri missionari, centri sociali, cittadini che facevano parte di un'associazione o di un movimento) ad interrogarsi sul divario fra il nord e il sud del mondo e a trovare nella bottega una modalità per iniziare a porre la questione in maniera diversa. Questo mi sembra assolutamente interessante e nuovo, così nuovo che i pubblicitari e le aziende vanno alla rincorsa del consumatore.

a proposito di banca etica

Banca Etica è nata dalla riflessione di alcuni gruppi, in parte legati al commercio equo e solidale, come CTM-Altromercato, che hanno cominciato a cercare modalità differenti sia per sostenere lo sviluppo dei paesi poveri sia per investire in modo diverso il proprio denaro nei paesi ricchi, sapendo che molte volte ci sfugge il livello di utilizzo del denaro che noi depositiamo alla banca.
Le banche investono i nostri soldi, ma non sappiamo né dove, né come, né per quale motivo. Da questo fatto nasce proprio la grande campagna "disarmiamo le banche", poiché la maggior parte dei gruppi bancari investe il capitale dei suoi clienti nelle armi, o meglio, con un processo abbastanza complicato, in prestiti a dei paesi per poter acquistare le armi.
Banca Etica è l'esempio di un modo diverso e interessante di investire e finanziare, stando però nel sistema. Si chiama banca: perché lo diventasse è stato necessario che un'altra banca certificasse presso la Banca d'Italia la sua serietà. La Banca che ha certificato per Banca Etica è la Banca Intesa. Il fatto di stare all'interno di un certo sistema ti permette di porre delle regole diverse al sistema stesso: non dall'oggi al domani, ma iniziando a dare un segno. I fondi di investimento raccolti da Banca Etica al momento sono superiori rispetto ai progetti valutati come effettuabili dalla banca stessa. Il che è estremamente positivo: vuol dire che tante persone credono a questa modalità.
Normalmente una banca, per concedere un prestito, chiede delle garanzie: se una persona non ha già un certo capitale, non può accedere al prestito. Banca Etica sta provando a ribaltare il ragionamento. Se i poveri hanno dei progetti, ma nessuno li finanzia, i poveri rimarranno poveri e i progetti rimarranno dei sogni. Allora la banca dà al richiedente una forma di sostegno iniziale, però lui a sua volta, quando avrà guadagnato, si renderà responsabile di aiutare altre persone: in questo modo si crea una catena e si infonde anche un senso di responsabilità e reciprocità. Non è come nel caso dell'estinzione del debito (noi siamo così ricchi, che possiamo fare a meno dei tuoi soldi!), ma è la collaborazione e l'aiuto reciproco: io oggi ti aiuto, domani tu potrai aiutare me e, se non me direttamente, aiuterai qualchedun altro, che avrà la possibilità di raggiungere il tuo livello di benessere. E si tratterà di benessere non solo economico, ma, in senso più ampio, anche benessere collettivo, perché se una persona anche straricca si trova a vivere in un contesto di povertà assoluta, il suo livello di benessere sarà minimo.

il turismo responsabile

Il turismo responsabile è un'altra modalità di "commercio equo e solidale", che nasce dal gruppo di persone che ruota attorno al Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano (con Francuccio Gesualdi) e che via via ha preso piede su tutto il territorio. Turismo responsabile è quello attraverso il quale non si va a sottrarre risorse fondamentali e indispensabili per la gente che vive nel luogo della vacanza scelta.
Ai ragazzi delle scuole superiori propongo sempre un gioco di immedesimazione che li interessa molto, riguardante i rapporti fra nord e sud del mondo e partendo dalla risorsa acqua. Il problema della Sardegna è la carenza di acqua e il turismo, così come avviene a Cancun, in alcune zone del Sudafrica, del Kenia, dell'India, sottrae l'acqua. Al punto che alcuni comuni della Sardegna sono entrati a far parte di quello che si chiama "Anti-golf mouvement", il movimento contro il golf, perché i campi da golf sottraggono l'acqua alla popolazione locale.
Allora noi diciamo agli studenti di provare ad immedesimarsi in una signora milanese a cui piace il golf e che desidera passare delle vacanze in un campo da golf in Sardegna. Dopo aver acquistato il suo pacchetto vacanza, questa signora viene a sapere che gli abitanti del comune dove sta questo campo da golf per quattro mesi all'anno devono andare ad acquistare l'acqua dalle autocisterne, perché tutta l'acqua viene assorbita dall'impianto turistico e dal campo da golf. Allora cosa deve fare questa signora? Ecco: il turismo responsabile è innanzi tutto questo: iniziare a fare e a farci delle domande sull'impatto del nostro "divertimento".
Mi sembra molto bello il discorso di Gesualdi della sobrietà o della criticità, in cui non si dice di accantonare le dimensioni dell'estetica o del divertimento, ma di prenderle in considerazione insieme a quella della giustizia sociale. Nessuno dice di non andare in vacanza, ma, nel caso del turismo responsabile, di farlo con un certo criterio.

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