Riscoprire la sapienza ebraica: Levinas
sintesi della relazione di Piero Stefani
Verbania Pallanza, 15 febbraio 1997
caratteri qualificanti della sapienza ebraica o giudaica
Mentre per "ebraismo" si intende sia la religione biblica che quella rabbinica e quella attuale, con "giudaismo" si intende soprattutto la religione rabbinica elaborata in epoca postbiblica. Si parlerà soprattutto di sapienza giudaica.
La sapienza giudaica (la sapienza indica una dimensione che ha a che fare con il mondo umano e pratico) è caratterizzata dall'origine e dal termine. L'origine di questa sapienza è collocata nella rivelazione avvenuta sul monte Sinai, mentre il punto di arrivo è la figura del sapiente. Questa affermazione è illustrata molto bene in un famosissimo testo posto all'inizio della Misnà, chiamato Pirqé 'Avot, cioè capitoli dei Padri, che risale al 250 d.C., che descrive una catena di trasmissione della rivelazione, della parola di Dio che si umanizza: "Mosè ricevette la Torà (la Torà può essere intesa nella sua globalità come l'equivalente della totalità della rivelazione, non tanto come Legge) dal Sinai, la trasmise a Giosuè, Giosuè la trasmise agli anziani, gli anziani la trasmisero ai profeti, i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea. Gli uomini della grande assemblea dicevano tre cose: siate cauti nel giudicare, allevate molti discepoli e fate una siepe attorno alla Torà".
Sono qui indicate le caratteristiche della sapienza: l'origine, la trasmissione, l'interpretazione, la discussione, la decisione e la messa in pratica.
Mosè ricevette la rivelazione dal Sinai (non "sul"). Sinai sta per "cieli", cioè Dio (un modo di dire Dio senza nominarlo).
Mosé ricevette la rivelazione da Dio disceso sul Sinai, da un Dio che rende udibile la propria volontà. L'origine è divina e tutti gli altri anelli della catena sono umani: Mosè, Gosuè, Anziani (cioè i Giudici), Profeti, gli uomini della grande assemblea, cioè i saggi. Anche i profeti sono canali di trasmissione della rivelazione.
Dopo il punto di partenza unico e globale non ci sono più altre rivelazioni: bisogna solo trasmettere, attuare e applicare quella parola, da parte degli uomini. L'origine divina consente l'umanizzazione della parola, e il termine è il sapiente, che deve interpretare e trasmettere questa parola. Qui sta il significato che il Sinai è oggi. La rivelazione è sempre oggi.
E vero anche il contrario: quello che dice oggi il sapiente ha lo statuto della rivelazione, era in nuce già nell'origine. È quanto sostiene Lévinas: Se al mondo fossero mancate certe persone certi sensi della Scrittura sarebbero stati per sempre nascosti.
Questa trasmissione della rivelazione è un processo di umanizzazione, in quanto la parola divina diventa sempre più umana. Sembra un processo di secolarizzazione (niente trascendenza di Dio), impossibile però per il giudaismo, per il quale l'origine divina è sempre presente (il Sinai è oggi).
La concezione del giudaismo è aprofetica, in quanto non ci sono ulteriori rivelazioni.
Il punto di arrivo sono gli uomini della grande assemblea, che per il giudaismo sono i prototipi dei rabbini. La grande assemblea, probabilmente mai esistita, era fatta risalire all'epoca di Esdra e Neemia, cioè al periodo successivo al ritorno dall'esilio. Per il giudaismo la rivelazione biblica finisce in quel periodo e tutti i libri che entrano nel canone biblico si finge che siano stati scritti entro quell'epoca.
Per quanto riguarda i contenuti della rivelazione, nel brano prima letto si fa riferimento alle funzioni proprie dei saggi, i quali facevano i giudici nei tribunali (siate cauti nel giudizio), i maestri nelle scuole (allevate molti discepoli) e determinavano i contenuti dei precetti (fate una siepe attorno alla Torah).
lévinas è un rappresentante della sapienza ebraica?
Lévinas è preoccupato che la voce della bibbia ebraica continui ad essere tuttora ascoltabile. E perché questo avvenga è necessario tradurre in greco la bibbia e dar credito alla tradizionale interpretazione giudaica della bibbia.
Innanzitutto quindi occorre tradurre in greco la bibbia vale a dire trascrivere la bibbia in categorie filosofiche, in un linguaggio universalizzabile. Ci sono idee che hanno il loro senso originario nel pensiero biblico che devono essere tradotte in un linguaggio universalizzabile, in pensiero.
Occorre poi prestare attenzione all'esegesi fatta dai rabbini. Lévinas legge le fonti rabbiniche (in particolare il Talmud) in modo filosofico.
Se una parola ebraica è udibile ancora oggi, lo è perché è passata attraverso l'anello del giudaismo. Solo la tradizione esegetica giudaica tiene aperto un testo, la bibbia, che vive unicamente se interpretato. Lévinas afferma che certi aspetti delle Scritture non si sarebbero mai rivelati se certe persone fossero mancate all'umanità. Noi potremmo dire che se fosse mancato Lévinas sarebbe mancata la possibilità di tradurre in greco certi passi della Scrittura.
Lévinas non si allontana dall'esegesi biblica sia nell'intendere l'interpretazione del testo non come una semplice riproposizione ma come una sollecitazione perché dal testo emerga ciò che vi è germinalmente, sia nel proporre una umanizzazione del testo, parlando poco di Dio e molto degli uomini. La trascendenza di Dio è un suo ritrarsi per far emergere l'uomo.
Certo Lévinas non è un rabbino devoto, ma un filosofo.
lévinas e l'etica del non uccidere
Ritiene equivalenti il comando di non uccidere e il comando di amare il prossimo tuo come te stesso.
La posizione della sapienza rabbinica e quella di Lévinas sono confrontabili, ma con una profonda diversità.
Afferma Lévinas: "L'Esodo è anche il libro dei dieci comandamenti, tra i quali io considero radicale il non uccidere. Non uccidere non vuol dire affatto non uccidere con un coltello, ma non uccidere in nessuno degli altri modi che esistono per uccidere. Esso significa piuttosto: ama il prossimo tuo".
Il motivo dell'equivalenza è ritrovato nel modo di rappresentare le tavole della legge nel mondo ebraico. Mentre i cattolici le raffigurano con tre comandamenti sulla prima (i rapporti con Dio) e sette sulla seconda (i rapporti tra gli uomini), gli ebrei con cinque sull'una e cinque sull'altra, mettendo in relazione, seguendo la tradizione, il primo di una tavola, che per gli ebrei è "Io sono il Signore Dio tuo", con il primo della seconda tavola: "Non uccidere".
Nella tradizione rabbinica si sostiene la corrispondenza in base all'eteronomia del precetto (il precetto non è valido in sé, non si fonda sulla ragione ma in Dio) e in base al teomorfismo (l'uomo è immagine di Dio e pertanto chi uccide l'uomo distrugge l'immagine di Dio).
Lévinas interpreta il comando dell' ama il prossimo tuo come te stesso come ama il prossimo tuo. È te stesso. Dal punto di vista biblico non c'è alcun appiglio per eliminare il "come".
La lettura giudaica della bibbia tiene conto di tutte e tre le frasi del versetto: "Non vendicarti e non serbar rancore contro i figli del tuo popolo. Ama (porta amore al) il tuo prossimo: è come te stesso. Io sono il Signore".
Il verbo amare poi dovrebbe meglio tradursi con portare amore, che indica più che il sentimento l'azione.
Ora chi è il prossimo? Nel mondo giudaico tradizionale il prossimo è il coebreo, il connazionale, l'appartenente al tuo gruppo. La pariteticità del come te stesso non vale nel caso dell'essere disprezzato e maledetto (l'uomo immagine di Dio).
Per Buber prossimo è colui che di fatto ti è dato di incontrare e con cui tu instauri un rapporto di effettivo aiuto.
Per Buber perché sia possibile l'opera di amore del prossimo è necessario prima purificare l'interiorità: solo così ci si può aprire verso il tu. (rapporto io-tu)
Al contrario per Lévinas il punto di partenza è l'esteriorità. (rapporto tu-io).
Per Buber il "non uccidere" è una conseguenza dell'amore del prossimo. Se invece il punto di partenza è l'esteriorità, allora il non uccidere diventa il fondamento dell'amore del prossimo.
È il primato del volto. Chi mi comanda di non uccidere è la debolezza che è fuori, è il debole che può essere ucciso. L'altro, in quanto volto, non è la mia immagine dell'altro (sarebbe sempre un io verso un tu). L'altro è volto nel momento in cui non è riconducibile a me. L'altro, in quanto debolezza, diventa imperativo,mi pone di fronte alla responsabilità che ho nei suoi confronti.
Il fondamento dell'amore del prossimo non è né Dio, con un suo comando esplicito, né il mio io interiore rivolto verso l'altro, ma l'altro in quanto volto, in quanto uccidibile. È la debolezza dell'altro che comanda la nostra forza.
Non è Dio che comanda, ma il volto dell'altro. Certamente c'è Dio, ma in quanto non lo si sa.
Nella tradizione cristiana del giudizio finale in Matteo (qualunque cosa avete fatto a uno di questi l'avete fatto a me) non è un invito a far bene perché la si fa a Gesù, come solitamente si dice. Il giudizio non è sul sapere o sul non sapere, ma sul fare o sul non fare.
Il non uccidere è assumere la voce imperativa della debolezza, la responsabilità nei confronti dell'altro.
Per Lévinas c'è un'altra dimensione da tenere in considerazione.
La relazione con l'altro è insufficiente, perché il tema biblico non riguarda solo l'amore, ma anche la giustizia, e quindi il problema della relazione a tre. Qui il problema cambia, perché la mia responsabilità nei confronti dell'altro non è più infinita, se l'altro diventa oppressore del terzo.
Pur avendo una visione opposta a quella di Hobbes (nella relazione a due vige l'homo hominis lupus, e per interesse pongo dei limiti alla mia libertà con un'autorità che faccia rispettare le regole che limitano le libertà di ciascuno) anche Lévinas giunge alla conclusione della necessità del limitare non la libertà, ma la responsabilità di ciascuno. Nella collettività non posso fare tutto quello che l'altro mi chiede, perché devo tener conto del terzo. A questo livello non è sempre illegittimo l'uso della violenza. Lo stesso comando del "non uccidere" può diventare nel rapporto a tre un comando che mi chiede di uccidere, se l'altro fa violenza e uccide il terzo. Il terzo diventa l'elemento più debole.
Questa frase lo dice in modo egregio, mirabile:
"Il vero problema per noi occidentali non consiste tanto nel rifiutare la violenza sempre e comunque in ogni situazione, quanto nell'interrogarci su una lotta contro la violenza che senza languire nella non resistenza al male possa evitare l'istituzione della violenza a partire da questa stessa lotta". Cioè l'esercizio della giustizia deve diventare fondazione di una ingiustizia permanente, della legittimazione della violenza.
Questo è un pensiero non violento, che legittima anche una resistenza violenta, in certe situazioni.