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L'immigrazione musulmana in Italia, problemi e opportunità

sintesi della relazione di Paolo Branca
Verbania Pallanza, 13 marzo 2010

due ragazze musulmane di seconda generazione si presentano

Imane Barmaki

Il mio nome è Imane, che vuol dire "aver fede", in particolare in relazione a Dio. Sono nata in Marocco, dove ho vissuto fino ai 13 anni, quando la mia famiglia si è spostata in Italia. Sono nata a Casablanca, però sono originaria della zona del Riff, nel Nord, a cui sono molto legata, perché è una zona di montagna in cui ritrovo la mia armonia, e dove, soprattutto, posso apprezzare il silenzio.
Per la mia famiglia il fenomeno dell'immigrazione non è nuovo, e io porto questa tradizione nel mio nome e nel mio cognome. Barmaki, il mio cognome, non è arabo. La mia famiglia è originaria dell'Afghanistan, e moltissimi secoli fa con l'espansione dell'islam si è spostata a Bagdad. Qui alcuni esponenti della mia famiglia sono stati ministri, ma poi, per un problema di colpo di stato fallito, sono stati esiliati in Marocco. Per vari motivi siamo poi venuti a vivere in Italia.
Penso che, se andiamo a guardare la storia delle famiglie di ognuno di noi, troviamo origini lontane. Dicono che i primi uomini fossero africani, che man mano si sono spostati. Fa parte della nostra natura spostarci, e lo si fa per esigenze diverse, spesso di carattere economico o sociale, ma anche per altri motivi.
Oggi il fenomeno dell'immigrazione è visto da molti come qualcosa di pauroso. Forse perché in Italia è avvenuto in maniera abbastanza rapida, e a volte ci vuole tempo per rielaborare ed accettare informazioni ed avvenimenti che ci coinvolgono. Nei secoli scorsi poteva essere più facile, il ritmo delle trasformazioni era più lento.
Forse vi può interessare la mia storia dal punto di vista religioso. Io sono nata in una famiglia mussulmana, quindi per me l'islam era più che altro una tradizione: dicevo di essere mussulmana, ma lo ero solo dal punto di vista anagrafico. Sono arrivata in Italia a 13 anni e ho continuato i miei studi qua: dopo le medie ho frequentato l'istituto tecnico per diventare perito aeronautico. Ero l'unica ragazza nella classe, visto il settore da me scelto, e penso che mio nonno, imam di Moschea a Casablanca, facesse fatica a capire e ad accettare il fatto che sua nipote fosse l'unica donna in una classe di maschi. Ma anche i miei compagni facevano fatica ad accettarmi, non in quanto immigrata ma in quanto donna. Quindi il problema dell'essere o meno accettati si crea a volte per dinamiche interne alla nostra società con le quali ogni giorno dobbiamo fare i conti. Da una parte dovevo dire al nonno che, come ragazza mussulmana in una classe di maschi, il rispetto da parte dei miei compagni l'ho preteso e ottenuto, e dall'altra parte dovevo mostrare ai miei compagni che il fatto che io fossi una donna non significava che fossi inferiore a loro, ma che, anzi, potevo mostrare di essere anche migliore. Quindi questa è stata la sfida personale.
Però in quegli anni è anche iniziata la prima crisi di identità. Da quale parte del mondo io sto? Sono marocchina o sono italiana? Un giorno di pioggia, guardando le gocce che cadevano e che erano sospese nell'aria, tra le nuvole e la terra, ho visto la mia situazione. Anch'io sono sospesa tra un mondo che ho lasciato alle spalle e un mondo in cui vivo. Ho iniziato a cercare un'identità nei libri, leggendo testi di psicologia e di filosofia, ma lì non potevo trovare una risposta precisa. Una risposta la potevo trovare solo dentro me stessa, però questo l'ho capito dopo, con un po' più di maturità. È stata una ricerca un po' complicata.
Per di più, in quel periodo, non mi sentivo più musulmana, ma atea. E con mio nonno, poverino, argomentavo attraverso Marx e altri filosofi che leggevo. E sostenevo che Dio non esiste, perché se l'uomo è imperfetto, anche la causa che l'ha generato è imperfetta...
Finite le superiori, sono andata a studiare all'Università cattolica, dove tutti gli studenti devono sostenere degli esami di teologia. Nello studiare la religione cristiana, cercavo di informarmi anche sulle altre, sull'ebraismo, sull'islam. E in questo percorso ho riscoperto prima la religione, e poi la fede stessa dell'islam.
Ho anche voluto approfondire questo discorso, cercando di distinguere la religione dalla tradizione, perché questo confine è poco visibile. Le contaminazioni tra religione e tradizione sono molte e si fa fatica a distinguere l'una dall'altra.
Ma quella religiosa non è stata la mia unica crisi di identità. Come vi dicevo, avevo anche problemi di identità geografica. Sono arrivata in certi momenti a dire che mi sarei costruita un'isola artificiale in mezzo al Mediterraneo, per evidenziare la mia situazione tra due mondi. Ma questo era dovuto soprattutto a una questione burocratica. Infatti, divenuta maggiorenne, per rimanere in Italia avevo bisogno del permesso di soggiorno, non potendo più restare per motivi familiari. Io in Italia sono cresciuta e mi sento italiana, mentre la cultura del Marocco non mi appartiene più. Però ho rischiato di non poter restare, semplicemente perché la mia casa aveva un metro quadrato in meno rispetto ai parametri di edilizia regionale. Io in quel periodo lavoravo in banca, ma il mio contratto di lavoro non poteva essere rinnovato senza il permesso di soggiorno, che per motivi burocratici molto banali mi veniva negato! Sarei diventata clandestina! Queste dinamiche non agiscono solo a livello burocratico, ma influenzano anche l'identità delle persone e l'identità di appartenenza a questo territorio. Ho vissuto una forte crisi, nello scoprire di non essere accettata da nessuna parte, di non appartenere a nessun mondo, di non sentirmi né carne né pesce. Invidiavo l'Amleto, che si chiedeva se essere o non essere, mentre io vivevo un "non-essere" obbligatorio.
Questi sono alcuni elementi della mia identità. Attualmente sono un po' più stabile, ma ogni tanto, per un motivo o per un altro, o per la burocrazia, o per la poca sensibilità di chi mi sta intorno, mi ritrovo a sentirmi diversa. Mettersi un po' nei panni degli altri è un esercizio che ognuno di noi dovrebbe fare, ogni tanto

Loubna Ammoune

Buon pomeriggio. Vi ringrazio per essere qui e per la vostra attenzione.
Io non ho vissuto le sfide che ha vissuto Imane, però da quando la conosco ci siamo spesso confrontate su queste tematiche e siamo entrate molto in sintonia. E questo grazie ad esercizi di scrittura, attraverso il metterci in gioco, il raccontarci attraverso la penna e la tastiera del computer. È la prima volta che faccio questa riflessione in pubblico, mentre lei parlava mi venivano in mente questi pensieri e volevo condividerli.
Io mi ritengo molto fortunata ad aver incontrato queste due persone, Imane e il professor Branca. Prima non mi ponevo questi interrogativi sull'identità, sulla società, queste sfide che quasi tutti i giorni ci troviamo ad affrontare. L'affrontarle insieme dà molta forza. Probabilmente se non scrivessi per Yalla Italia che è un inserto mensile di Vita Non Profit, di cui il prof è l'anima e noi due le redattrici, non saprei neanche come affrontare le piccole sfide che si presentano nel quotidiano.
Ho vissuto un'esperienza familiare e scolastica molto positiva, posso paragonare la mia famiglia e la scuola che ho frequentato a due nidi.
La mia famiglia, nonostante molti spostamenti, si è stabilizzata in Italia. Mio papà è venuto quando aveva vent'anni, mia mamma ha vissuto otto anni in Germania, poi è andata in Siria, ha frequentato dei corsi di lingue in Francia e in America... L'immigrazione quindi non è un'esperienza nuova nella mia famiglia ed è qualcosa che vivo con serenità. Una serenità a cui ha contribuito anche il mio percorso scolastico, che veramente è stato molto arricchente. Nonostante il nome esotico e la religione mussulmana, ho avuto la grandissima fortuna di trovare sempre degli insegnanti fin dalle elementari su su fino alle superiori, che mi stimavano e dicevano ai miei compagni: voi avete un tesoro in classe. Credo di non aver meritato tutto questo, ma veramente di essere stata graziata dal cielo per aver incontrato persone aperte, che avevano studiato e anche viaggiato molto.
Non avrei mai immaginato che un giorno o l'altro qualcuno avrebbe messo anche un tetto (30%!) per la presenza degli stranieri (stranieri sulla carta, stranieri nel cuore, stranieri a livello di passaporto, questo non si sa, non è definito!) nelle scuole italiane. A partire dalle medie e poi dalle superiori, ho capito di avere delle responsabilità verso le persone che mi stavano intorno, per spiegare la mia situazione, rispondendo a tutta una serie di domande, dalle più semplici, tipo "perché non mangi il prosciutto?", "preghi veramente cinque volte al giorno?", "ma perché fate il Ramadan?", "ma come fai a svegliarti alle cinque del mattino per la prima preghiera?", alle domande più delicate tipo: "ma perché porti il velo?" (che ho messo in terza superiore), "ma ti senti più italiana o più siriana?" o "cosa significa essere una musulmana in occidente?"
Fino all'incontro con queste persone ho vissuto l'esperienza in modo individuale, o comunque avendo un confronto soltanto con i miei genitori, ed è da poco che sono uscita dal guscio. E sono grata a queste persone perché, forse per carattere, sono sempre stata una persona riservata, e le mie esperienze, che fossero bellissime o negative, le ho sempre tenute per me. Non so se sono stata egoista, però, per esempio, l'esperienza bellissima che ho vissuto pregando con il mio professore di filosofia, recitando il Padre nostro ad Assisi nella Chiesa di San Francesco, è stata un'esperienza che non mi sentivo di raccontare. Invece dopo questo incontro ho capito che anche le belle esperienze vanno raccontate, magari attraverso la scrittura. In questi tre anni, oltre alla stesura di articoli, oltre ai blog che cerchiamo di gestire, veniamo anche chiamati a parlare della nostra esperienza. Io non ho grandi competenze storiche o culturali, sono al terzo anno di farmacia, però ho capito in questi mesi che anche con il raccontarsi si possono cambiare un po' le percezioni che gli italiani hanno dell'islam.
"Paura dell'islam?" Trovo che sia un bellissimo titolo, in cui il punto di domanda vuol dire che il dibattito è aperto. È ovvio che quando leggo certi articoli di giornale non sono felicissima, però mi dico che, se non ci fossero, il dibattito potrebbe anche non nascere, e questo potrebbe anche essere un rischio, perché potremmo rimanere attaccati alle poche conoscenze che abbiamo, invece di essere stimolati ad approfondire. È facile accusare gli altri di non conoscere, invece la responsabilità è anche nostra. Tra "noi" c'è chi dice che gli italiani non sanno niente dell'islam. Ma forse siamo anche noi a non sapere nulla o poco della nostra tradizione, della nostra cultura. È anche una nostra responsabilità riscoprire i tesori della nostra tradizione, della nostra cultura per poi proporli agli altri. Poi c'è l'incontro personale. Io sono di solito un persona silenziosa, e do più attenzione agli sguardi. E penso che, se guardando una persona, ci rendiamo conto che è cambiata almeno la percezione di quella persona, noi torniamo a casa molto più felici.

spunti dal dibattito

pregare insieme

Branca: Sul condividere momenti di preghiera, io sono molto prudente, nel senso che deve essere un punto di arrivo di un percorso. Inoltre ci sono sia cristiani che mussulmani che non accetterebbero mai una cosa simile, ritenendola sincretismo, confusione. Si deve escludere naturalmente la preghiera rituale islamica, che può essere fatta solo da chi è mussulmano. Ma ci possono essere dei momenti di spiritualità condivisa. Nella quinta sura del Corano c'è un bellissimo versetto, che ci fa comprendere che il Corano rispetta le diversità: "Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi un'unica comunità, ma non ha fatto ciò per mettervi alla prova in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque in opere buone ché a Dio tutti tornerete". Ma è il manifesto della tolleranza universale! Siamo diversi perché Dio lo vuole, non dobbiamo combatterci, ma emularci, cercare di essere migliori gli uni degli altri.

Imane: Vivere insieme il Natale e la Pasqua: sono stati per me dei momenti bellissimi, ritrovarci alla stessa tavola mussulmani e cristiani, anche senza arrivare a pregare insieme. Ho fatto anche un'altra esperienza bellissima, che mi ha fatto crescere e mi ha arricchita: abbiamo pregato Dio insieme: musulmani (tra cui anche un amico sciita), ebrei e cristiani. È stato un momento emozionante, pregare Dio solo per amore di Dio, senza guardare le nostre differenze, ma partendo dal presupposto che siamo tutti esseri umani.

Loubna: anch'io vorrei parlare della bellezza di certi momenti di preghiera insieme. Certo ci deve essere dentro un'intenzione, non me la sentirei di pregare con chiunque. Mi rendo conto che non tutti lo accettano: la prima volta in cui ho raccontato della mia preghiera ad Assisi, alcuni ragazzi musulmani presenti hanno chiaramente mostrato il loro disaccordo. Dal punto di vista teologico, non ci sono versetti del Corano che possano impedire questa sintonia nella preghiera, quello che accomuna è il senso religioso.

sull'identità

Imane: Ogni cosa nella vita ha un lato positivo e uno negativo, ma dobbiamo avere in noi la capacità di trasformare gli elementi negativi in positivi. Nella mia ricerca di identità, ho passato momenti molto difficili, l'identità era un elemento di discussione forte, non sapevo da che parte stare. Poi ho capito che non è giusto stare solo da una parte o solo dall'altra, perché comunque appartengo sia alla cultura marocchina che a quella italiana. La frase che amo dire è: il mio cognome è persiano, il mio nome è arabo, geograficamente sono marocchina, culturalmente sono italiana, storicamente sono francofona. Sono tutto ciò. Così è se vi pare. E aggiungo anche che la nostra identità non può essere rinchiusa in una gabbia: è qualcosa di fluido, che può cambiare con le esperienze.

Loubna: Quando si parla di identità, spesso lo si fa perché ci si aggrappa a qualcosa che può dare il senso dell'identità che si sta cercando, che si teme di perdere. Il fatto che io porti il velo, non significa che io mi identifichi con il velo, che il velo rappresenti la mia unica identità. Ho deciso di metterlo ad un certo punto del mio percorso, che mi è difficile spiegare a parole. È una parte di me, ma solo una parte. Purtroppo c'è chi rinchiude se stesso o gli altri in gabbie identitarie, che rischiano di far sì che ci si aggrappi ad un'unica realtà, un'unica comunità, un unico luogo. Ho imparato dalla mia esperienza che l'identità è fatta di tante cose. Un giorno ingenuamente ho chiesto ad una poetessa libanese se si sentisse più caratterizzata dal fatto di scrivere poesie, o di essere redattrice di una rivista, o grafica, o interprete, o madre e moglie. E attraverso la sua risposta ("Io posso essere tutto questo") ho capito che anch'io posso essere tante cose...

incontro e scontro delle culture in europa: verso il conflitto tra cristianesimo e islam?

1. un "caso serio"

Con l'incremento della presenza islamica in Europa sembrano riproporsi antiche tensioni che hanno a lungo caratterizzato i rapporti storici tra i fedeli di questa religione e la Cristianità. Ciò avviene, tra l'altro, in un momento delicato nel quale si assiste, da entrambe le parti, a una complessa ridefinizione delle rispettive appartenenze. Da un lato, nel nostro continente, è in atto un processo di unificazione che non ha ancora trovato l'esatta definizione di un'identità comune, ma tende inequivocabilmente al superamento della tradizionale frammentazione in singoli stati nazionali nettamente separati. Dall'altro, quasi a ottant'anni dall'abolizione del Califfato che nessun velleitario tentativo ha saputo risuscitare, le singole entità nazionali sorte dopo la I Guerra Mondiale e nel periodo della decolonizzazione, sembrano ormai assestate e attraversano una lenta e laboriosa fase di maturazione interna, senza che le aspirazioni panarabistiche o addirittura panislamiche che han fatto furore fin oltre la metà del secolo scorso rappresentino molto di più che vaghi ideali solidaristici, scarsamente influenti sulla politica degli stati dai quali gli immigrati musulmani presenti fra noi provengono.
Ma, proprio qui sta il punto. L'islam con il quale ci troviamo a dover fare i conti, non è quello tradizionale del Nordafrica, del Medioriente o dell'area indo-pakistana, nonostante spesso i suoi seguaci che vivono tra noi se ne ritengano spesso gli interpreti più fedeli e coerenti, contestando esplicitamente la pretesa dei loro paesi d'origine (o quantomeno delle loro classi dirigenti) di essere autenticamente musulmani. Per uno dei frequenti paradossi della storia, essi sono senza dubbio portatori di usi e costumi fortemente impregnati della loro tradizione religiosa, ma nello stesso tempo aderiscono a un islam sempre più "deterritorializzato", idealmente in concorrenza - quando non in aperto conflitto - con quello delle terre natie. Un islam, dunque, figlio e prodotto della modernità, anche se apparentemente ad essa ostile e intenzionalmente alternativo, che per di più trova le condizioni ideali per svilupparsi ed esprimersi proprio nel tanto odiato Occidente, che gli garantisce diritti e gli offre opportunità inimmaginabili nei luoghi dai quali esso proviene.
Una volta compresa, anche se per sommi capi, una simile dinamica, ci sarà facile superare la semplicistica e inconcludente rappresentazione di un Europa cristiana e civile assediata dai nuovi barbari del fondamentalismo musulmano, tanto cara ai non pochi polemisti che si illudono di poter reagire rispolverando gli ormai arrugginiti e comunque inadeguati armamentari di una controversistica che ha fatto definitivamente il suo tempo. La questione è nuova e richiede nuovi strumenti di analisi e d'intervento per essere convenientemente fronteggiata.

2. le insidie nascoste

Rispetto a quella di altri grandi paesi europei, come la Germania o la Francia, la situazione italiana ha caratteristiche di minore entità e di ridotto impatto. Questo secondo non è semplicemente riconducibile al numero tutto sommato ancora piuttosto limitato di immigrati musulmani "sbarcati" (spesso letteralmente) sulle nostre coste. Dipende piuttosto dal fatto che, per fortuna o per disgrazia, l'Italia è sostanzialmente sprovvista di forti "paradigmi" etnico-culturali o ideologici che facciano decisamente pendere il pendolo verso l'assimilazione dei nuovi arrivati. Apparentemente ciò potrebbe sembrare un vantaggio, in quanto riduce l'attrito fra un "noi" scarsamente strutturato e un "loro" percepito come meno estraneo e invasivo. In realtà, come spesso accade, la via più facile, poiché in discesa, è anche la più rischiosa. Le numerose e lodevoli iniziative che cercano di rispondere ai bisogni primari degli immigrati (come la casa e il lavoro), sono infatti nella maggior parte dei casi carenti se non del tutto prive di una dimensione culturale che le supporti e le sappia orientare. Si fa, cioè, semplicemente quel che c'è da fare, senza domandarsi troppo dove si stia andando. Si rimane in altre parole indifferenti, e quindi passivi, rispetto all'esito globale di quanto si intraprende, con una ingenua fiducia che, spontaneamente, le cose si aggiusteranno da sé cammin facendo, pretendendo che le buone intenzioni bastino a produrre in definitiva anche buoni frutti. Sembra quasi che non si abbia nulla da dire o da proporre a chi, accanto al basilare ma non certo esaustivo desiderio di trovare condizioni di vita migliori, è portatore anche di altre domande che non sappiamo interpretare principalmente perché noi stessi siamo i primi a non porcele più. L'assistenza ai bisognosi è certo una buona cosa, ma davvero non abbiamo altro da offrire, oltre a un letto e a un pasto caldo? Duemila anni di Cristianesimo, l'ancor più antica eredità greca e romana, oppure le recenti e sofferte acquisizioni che abbiamo pagato a caro prezzo emancipandoci dai nazionalismi esasperati e ai furori ideologici del '900 sono un bagaglio già così poco "nostro" da impedirci di immaginare di poterlo almeno condividere con chi bussa alla porta dell'opulenta Europa? Il prezzo della nostra pochezza, che ci impedisce di prendere l'iniziativa, è la condanna a subire quella altrui. Potremo anche rispondere negativamente alle richieste che ci verranno poste - quando fossero delle assurde pretese - ma se continueremo a non fare il primo passo, avremo giocato solo "di rimessa" e resteremo fatalmente vittime dell'intraprendenza dei nostri interlocutori. Tra questi, oltretutto, finiranno per farsi avanti non necessariamente i più ragionevoli o rappresentativi, ma - com'è accaduto di recente nella polemica relativa al crocefisso - quelli che sapranno con maggiore scaltrezza insinuarsi nelle pieghe delle nostre miserie, senza alcun rispetto per i valori autentici di due grandi tradizioni religiose che avranno buon gioco a strumentalizzare in una sconfortante sceneggiata in cui ciascuno darà il peggio di se stesso: una partita meschina fatta di ricatti e basata sull'ambiguità.

3. un'occasione sprecata

C'è dunque il rischio che su entrambi i fronti prevalgano gli aspetti meno nobili e più effimeri della massificazione che caratterizza questo nostro grigio tempo. Agli europei la parte un po' svilente dei benestanti, preoccupati soprattutto che i parenti poveri non siano troppo molesti, disponibili a sopportarli purché disposti a svolgere le mansioni più umili e faticose e a condividere almeno qualche rito collettivo, calcistico o televisivo, per dimostrare di non essere del tutto incivili. Agli immigrati musulmani, quella dei retrogradi ancorati a una visione del mondo medievale, teocratica e sessista, tutt'al più camuffata nella dozzinale apologetica che contrabbanda le interdizioni alimentari coraniche come norme igienico-sanitarie o addirittura la preghiera islamica come salutista, in quanto le prosternazioni che contempla sarebbero una forma benefica di ginnastica... Sarebbe ben triste se il tavolo comune al quale infine ci sederemo fosse quello di un fast-food, magari con carne macellata conformemente alla sharî'a! Eppure, l'esito di quanto sta accadendo non sarà molto diverso se ci ostineremo ad ignorare le opportunità che invece sussistono nel tratto di cammino che ci è dato di percorrere con questi inattesi compagni di strada. Il fatto che essi siano tanto profondamente radicati in una tradizione religiosa in fondo non molto distante dalla nostra, potrebbe ad esempio rappresentare per noi l'occasione per interpellarci sul ruolo marginale a cui stiamo inconsapevolmente relegando quest'ultima per far spazio ai miti di un progresso che sarà ben poca cosa se non saprà mantenersi in contatto con il proprio passato. L'analfabetismo biblico che caratterizza le nostre giovani generazioni, infatti, prima che un problema confessionale è una fondamentale questione culturale. Non molti anni fa, il corrispondente dal Medio Oriente di uno dei principali quotidiani italiani, parlando della "tomba di Giuseppe" identificò a colpo sicuro che si trattava... del "genitore di Cristo", senza neppure essere sfiorato dal dubbio che potesse essere invece qualcun altro, forse più importante agli occhi di ebrei e musulmani rispetto allo sposo di Maria. Resta un mistero come chi ignori evidentemente del tutto l'esistenza di un figlio di Giacobbe che portava quello stesso nome possa pretendere di comprendere e quindi di spiegare ai suoi poveri lettori quel che succede in Terrasanta. Questo squallido episodio la dice lunga non soltanto sulle gravi lacune in fatto di religione proprie dei nostri giornalisti, ma anche e soprattutto sulle carenze di una "cultura generale" nella quale sembra che neppure i titoli delle opere di Thomas Mann rientrino nel bagaglio di una persona di presumibile formazione universitaria. A quel Giuseppe è dedicata un'intera sura del Corano, e c'è da scommettere che la maggioranza degli incolti musulmani che popolano le nostre città ne sappiano a memoria almeno qualche passo. I loro scarsi studi sarebbero così paradossalmente più adeguati di tutte le nostre tecnologie per comprendere la storia, l'arte, la musica e la filosofia - prima ancora della fede - di quel continente che li guarda con tanta supponenza e che facilmente liquida come leggende "superate" le storie alle quali si sono abbeverati per secoli quanti hanno edificato la nostra civiltà.

4. un compito arduo e affascinante

Una delle acquisizioni che ha contribuito in misura determinante allo sviluppo dell'Occidente è stato sicuramente l'incremento delle conoscenze sulla base di indagini obiettive e approfondite. Sarebbe un errore considerare tale conquista in contrapposizione alle certezze proprie della fede, come ancora spesso si sente purtroppo affermare. La sfida del cosiddetto multiculturalismo non potrà essere validamente affrontata senza attingere, con umiltà ma anche con determinazione, a tale dinamica di costante rigenerazione. Sorprendentemente, quanti si trovano in un certo senso "in prima linea" rispetto a tale fronte d'impegno - come gli insegnanti, gli operatori sociali e gli stessi pastori - si trovano per lo più sprovvisti di ausili che li possano coadiuvare in tale difficile compito. Più in generale, nonostante il numero impressionante di iniziative che ad ogni livello vengono promosse su questa tematica, il nostro Paese dimostra preoccupanti carenze negli strumenti di base indispensabili alla formazione di quanti si trovano coinvolti in un simile fenomeno. I richiami alla "vocazione mediterranea" dell'Italia restano vuote frasi retoriche, non soltanto inutili, ma potenzialmente fuorvianti, in quanto lasciano credere che la nostra posizione geografica possa garantirci da sé la capacità di assolvere adeguatamente un ruolo che richiede invece ben altre assunzioni di responsabilità. La stessa proliferazione di volumi sul fondamentalismo islamico seguita ai tragici attentati dell'11 settembre potrebbe risultare una cortina fumogena che maschera l'assenza, nella nostra lingua, di testi di riferimento per una conoscenza almeno elementare del mondo in cui quegli atti di spaventosa violenza distruttrice sono maturati. Se si eccettuano alcune aree nelle quali l'Italia è stata direttamente coinvolta durante il periodo coloniale, per la maggioranza dei paesi arabi e musulmani, non esistono studi organici, specialmente per quanto riguarda la storia moderna e contemporanea. Un paese come l'Egitto, nonostante sia il maggiore stato arabo per popolazione e uno dei più importanti per le vicende recenti dell'area mediorientale, continua ad essere considerato principalmente, se non esclusivamente, la patria dei Faraoni, quando non si riduce a venir identificato con le località balneari alla moda sulle coste del Mar Rosso. Le storie della letteratura araba sono da anni esaurite e non più ristampate... e si potrebbe continuare. L'orientalismo italiano, che pure ha avuto in passato nomi di statura internazionale, è diventato l'ombra di se stesso, così come le nostre sedi diplomatiche e gli istituti italiani di cultura si riducono spesso alla normale amministrazione. Lasciare alla buona volontà e all'improvvisazione dei singoli la gestione di questo fenomeno dimostra una miopia e una leggerezza preoccupanti. Quel che maggiormente rincresce è la mancanza di consapevolezza che proprio in casa nostra, per un fortuito caso della storia o secondo gli imperscrutabili disegni della Provvidenza, passa il "fronte" dell'incontro di due grandi tradizioni culturali e religiose chiamate nuovamente a confrontarsi. Che facciano parte del gioco anche il timore da parte degli uni di essere "invasi" e degli altri di essere "assimilati" è del tutto legittimo, ma si tratta di reazioni naturali al primo impatto che non possono e non devono esaurire il discorso. Sarebbe infantilistico o, peggio, strumentale fermasi a questa prima fase. Ci sono ormai tra noi musulmani di seconda e di terza generazione, alcuni di loro parlano meglio l'italiano che non l'arabo o le altre lingue dei loro genitori. Con essi, l'islam che è in Europa potrebbe diventare l'islam "d'Europa", con benefici riflussi sul mondo musulmano nel suo complesso. La grancassa dei media offre ben poco spazio a costoro, privilegiando personaggi molto meno rappresentativi e più folcloristici, quando non addirittura squilibrati. Non ci nascondiamo che, soprattutto tra i gruppi organizzati, l'ideologia prevalente è spesso di stampo integralista, talvolta guidata da responsabili "paracadutati" nel nostro continente che poco o nulla sanno della situazione locale nella quale dovrebbero condurre le rispettive comunità. Gli orientamenti e persino gli umori dei paesi di origine si riflettono così rovinosamente sulla situazione europea. I movimenti islamici radicali, che in casa propria non trovano le condizioni per agire indisturbati, si vedono paradossalmente garantiti i più ampi diritti di aggregazione e di espressione in quell'Occidente tanto corrotto e ostile al quale si contrappongono. Mentre i musulmani meno illuminati approfittano largamente di tutto questo, non altrettanto si può dire degli altri, che per loro immaturità e nostra indifferenza restano defilati, insieme alla gran massa di quanti sono troppo occupati dalle questioni concrete e quotidiane per potersi permettere il lusso o per avere il coraggio di fare udire la loro voce.

5. conclusioni

Di fronte a questo panorama, fatto di chiaroscuri, non ci pare sia utile azzardare un bilancio che definisca il prevalere dei timori sulle speranze o viceversa. Ciascuno potrà farne uno personale, legato alla propria indole e alle esperienze concrete che gli saranno toccate in sorte. Quel che importa è che queste brevi riflessioni inducano tutti a un esame di coscienza, perché non ci accada di sentirci apostrofare da uno dei più inquietanti rimproveri del Vangelo trovandoci dolorosamente ritratti nella posizione degli ignavi che esso stigmatizza: "A chi, dunque, dovrò paragonare gli uomini di questa generazione e a chi rassomigliarli? Sono simili ai ragazzi seduti sulla pubblica piazza, i quali gridano gli uni agli altri dicendo: 'Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato. Abbiam cantato lamenti e non avete pianto'" (Luca 7, 31-32)

(da Aa. Vv., Europa. Quale Europa?, Edizioni Ares, Milano 2004, pp. 203-213)

islam d'europa: la religiosità dei giovani musulmani in italia

1. In partibus infidelium

Chi emigra porta con sé la propria lingua, la propria cultura e la propria fede. La prima viene affiancata presto da una conoscenza dell'idioma locale a un livello di semplice sopravvivenza o in modo più approfondito in funzione di molti fattori: propensione personale ad apprendere, tipo di lavoro che ci si trova a svolgere, percorso migratorio che si attraversa, breve 'mordi e fuggi' per taluni, più 'full immersion' per altri...
La seconda è molto più difficile da valutare nella sua persistenza e nelle sue trasformazioni, spesso anche da parte degli stessi interessati che mantengono atteggiamenti, usi e costumi originari ma ne adottano anche di nuovi, in forma più o meno consapevole e convinta, fino a quando magari qualche situazione imprevista, come una figlia che ha flirtato con un ragazzo locale, mette alla prova d'improvviso il grado e la tenuta di nuove concezioni che si sono via via affiancate ma non sostituite a quelle tipiche del paese d'appartenenza originaria.
La terza, che della cultura fa parte, ha modalità ancor più varie d'espressione a seconda del carattere, dei convincimenti e della pratica di ciascuno, più propensa a restare implicita quando gli immigrati sono pochi e isolati, più manifesta invece col passare del tempo e in dimensioni comunitarie, anche in questo caso con un ventaglio di posizioni che vanno dalla semplice riproduzione di luoghi e forme di espressione della religiosità imparata da piccoli nei luoghi d'origine a tentativi di reinterpretarne lo spirito e le applicazioni nel nuovo contesto.
Le nuove generazioni, nate in Italia o arrivateci in tenera età, sono da tutti e tre i punti di vista in una situazione completamente diversa.
Lingua e cultura d'origine sono per loro essenzialmente quelle del posto in cui sono nati, cresciuti e andati a scuola. Anche se in casa e coi parenti rimasti in patria (presso i quali trascorrono periodi di vacanza, più o meno frequenti e lunghi) praticano la lingua dei genitori, l'italiano è l'idioma che conoscono meglio, che approfondiscono e sviluppano nel percorso educativo e del quale si fanno interpreti in varie occasioni verso madri troppo confinate nel ruolo domestico e addirittura rispetto ai padri che ancora sbagliano qualche pronuncia o coniugazione, destando in loro ilarità o imbarazzo.
La cultura, essendo codificata assai meno rigidamente della grammatica, è un campo di mediazione molto più ampio e variabile. In fondo, ogni famiglia anche italiana, ha propri riti, abitudini, persino tabù che restano confinati all'ambito domestico e che i piccoli imparano ad accogliere come un dato di fatto, poco problematico proprio perché condiviso nel piccolo gruppo casalingo, dove l'affetto reciproco incide in modo decisivo sull'accettazione reciproca e sul comune riconoscimento di una way of life che assomiglia molto al 'lessico familiare' magistralmente narrato da Natalia Ginzburg, non privo di asperità ma progressivamente assimilato e persino rimpianto semplicemente perché bagaglio di un'identità collettiva che ci costituisce e resta indelebilmente nostro, qualsiasi siano i luoghi e i percorsi che il desino ci riserva nell'età adulta.
La religione, specie nelle sue manifestazioni esterne, visibili agli altri e riconoscibili, diventa presto per loro qualcosa su cui decidere, una scelta personale, cosa che nel paese originario della famiglia non sarebbe accaduta in quanto essere musulmani è là la condizione normale della maggioranza, per cui si può considerarsi tali dando la cosa per scontata, per tradizione e/o abitudine, magari per molti anni o addirittura per tutta la vita.
Non è una differenza da poco. Anzi, dato il carattere tradizionalista delle società originarie sono proprio le articolazioni e le gerarchie tra individuo e gruppo a rappresentare il punto di maggior distinzione rispetto a un contesto laico, secolarizzato e moderno. Quest'ultimo, pur essendo nello stesso Occidente qualcosa di relativamente recente, è ormai a tal punto sviluppato e consolidato da aver profondamente trasformato concetti quali 'autorità' e 'obbedienza' e forse definitivamente archiviato pratiche conformistiche dipendenti da quello che la gente potrebbe pensare o dire di qualcuno nel caso le sue scelte fossero parzialmente o totalmente in dissonanza da quelle altrui.

2. c'è chi dice no

Non tutti e non sempre colgono l'occasione o accettano la sfida. L'opzione di rimanere ancorati a regole e usi del mondo da cui si proviene e al quale si vuol comunque restare fedeli può anche condurre a concepirsi e porsi come alternativi o antagonisti rispetto al contesto. Ma, inevitabilmente, sarà ancora una volta qualcosa da ridecidere e riaffermare ogni volta soprattutto in quanto individui, salvo casi estremi e molto rari di autoconfinamento totale all'interno di gruppi autoreferenziali, vissuti come società parallele o corpi estranei, destinati ad un ruolo residuale e progressivamente all'estinzione. Non si può tuttavia negare che, con il pretesto del rispetto della loro diversità culturale e religiosa, alcuni adulti pretendono non solo di continuare a vivere come se fossero nel villaggio natio, ma addirittura di polemizzare su cose che in patria avrebbero accettato senza discutere. Qualche papà si rifiuta di parlare con insegnanti donne, relega la propria moglie a svolgere compiti domestici impedendole di uscire e di imparare la lingua locale che l'aiuterebbe invece ad occuparsi meglio dell'educazione e della salute dei figli, senza restare confinata in un ruolo puramente affettivo che diminuirà gradualmente la sua funzione agli occhi dei ragazzi, iniziati così al maschilismo strafottente e pavido, e a quelli delle stesse ragazze che non potranno evitare di riscontrare nell'esempio materno un modello fallimentare. Tutto ciò rischia di sviluppare nei giovani una doppia morale, in casa formalmente rispettosa di tradizioni ataviche mai messe in discussione, fuori varie forme di compromesso delle quali quelle assimilazioniste non sono sempre necessariamente migliori di quelle conservatrici: portarsi nella borsa abiti con cui cambiarsi appena fuori dalla portata dello sguardo paterno può preludere a esiti peggiori che un velo autonomamente indossato, per convinzione o per far piacere ai genitori. Anzi, in questo caso, dover affrontare le non poche riserve dei coetanei e dell'ambiente in un'età delicata dove prevale lo spirito del branco e l'acritico uniformarsi all'ultima moda (per quanto idiota possa essere) può perfino produrre effetti positivi sulla formazione di un carattere indipendente più di qualsiasi microgonna portata con falsa naturalezza o con autentica incoscienza. Il coraggio di essere diversi, diversi davvero e per questo magari dileggiati, accettare di essere minoranza (etnica, linguistica, religiosa...) non è cosa da poco: tingersi i capelli di verde, mettersi un piercing chissà dove o tatuarsi come un aborigeno è in fondo molto più semplice.
Non è dunque in atto nessuno scontro di civiltà, non vi sono identità monolitiche irriducibili che si oppongano in alcun clash apocalittico.
Si stanno piuttosto producendo processi di meticciato, di ridefinizione in cui ciascuno avrebbe qualcosa da offrire e qualcosa da imparare. Contribuire a che ciò possa avvenire nelle forme migliori è un impegno difficile e quotidiano, assai poco clamoroso, fatto di pazienza e saggezza. Non rende quanto gridare al lupo né tranquillizza come illudersi che tutto va ben, ma è più utile, come tutte le miriadi di cose banali ma indispensabili che ogni giorno si fanno per educare i figli, tenere in ordine la casa, far bene il proprio lavoro, ottenere buoni risultati nella pratica di uno sport... Vi sembra poco? Il mondo va avanti grazie a questo, infiammandosi di quando in quando per fantasmi evocati o costruiti a bella posta, inutili quando non dannosi, talvolta devastanti.
Naturalmente, nel caso in cui l'alternativa sia non far nulla, lasciare che le cose procedano spontaneamente verso un'automatica composizione, è altrettanto probabile che ne derivino guai difficilmente rimediabili. Ma tra le due vie, quella della demonizzazione e quella dell'ingenua e altrettanto irresponsabile svagatezza - prevalenti ahimé, come spesso sono le posizioni estreme, apparentemente chiare, ma in realtà sterili se non nocive -, dovrebbe esserci quella di una democrazia solida ed efficiente, ispirata a un sano pragmatismo, capace di scoraggiare chi si comporta male soprattutto incentivando le prassi migliori. In questo caso, purtroppo, ci vogliono tempo, risorse, disponibilità a sporcarsi le mani, elasticità, coraggio e prudenza... con interventi concreti che non danno risposte immediate e non possono essere utilizzati per ricavarne facili consensi.

3. prima le donne e i bambini

Intervenire sul fenomeno delle migrazioni, significa prevalentemente avere a che fare con necessità di base: alloggio, lavoro, salute... Le numerose e lodevoli iniziative che cercano di rispondere ai bisogni primari degli immigrati sono tuttavia, nella maggior parte dei casi, carenti se non del tutto prive di una dimensione culturale che le supporti e le sappia orientare. Si fa, cioè, semplicemente quel che c'è da fare, senza domandarsi troppo dove si stia andando. Si rimane in altre parole indifferenti, e quindi passivi, rispetto all'esito globale di quanto si intraprende, con una ingenua fiducia che, spontaneamente, le cose si aggiusteranno da sé cammin facendo, pretendendo che le buone intenzioni bastino a produrre in definitiva anche buoni frutti. Sembra quasi che non si abbia nulla da dire o da proporre a chi, accanto al basilare ma non certo esaustivo desiderio di trovare condizioni di vita migliori, è portatore anche di altre domande che non sappiamo interpretare principalmente perché noi stessi siamo i primi a non porcele più. L'assistenza ai bisognosi è certo una buona cosa, ma davvero non abbiamo altro da offrire, oltre a un letto e a un pasto caldo? Duemila anni di Cristianesimo, l'ancor più antica eredità greca e romana, oppure le recenti e sofferte acquisizioni che abbiamo pagato a caro prezzo emancipandoci dai nazionalismi esasperati e ai furori ideologici del '900 sono un bagaglio già così poco "nostro" da impedirci di immaginare di poterlo almeno condividere con chi bussa alla porta dell'opulenta Europa? Il prezzo della nostra pochezza, che ci impedisce di prendere l'iniziativa, è la condanna a subire quella altrui. Potremo anche rispondere negativamente alle richieste che ci verranno poste - quando fossero delle assurde pretese - ma se continueremo a non fare il primo passo, avremo giocato solo "di rimessa" e resteremo fatalmente vittime dell'intraprendenza dei nostri interlocutori. Tra questi, oltretutto, finiranno per farsi avanti non necessariamente i più ragionevoli o rappresentativi, ma - com'è accaduto di recente nella polemica relativa al crocefisso - quelli che sapranno con maggiore scaltrezza insinuarsi nelle pieghe delle nostre miserie, senza alcun rispetto per i valori autentici di due grandi tradizioni religiose che avranno buon gioco a strumentalizzare in una sconfortante sceneggiata in cui ciascuno darà il peggio di se stesso: una partita meschina fatta di ricatti e basata sull'ambiguità.
Incurante delle nostre pigrizie, la realtà nel frattempo si evolve e propone nuove sfide. Quando, dopo la prima fase del processo migratorio che ha visto prevalere giovani maschi soli, si passa alle problematiche dell'educazione, significa che un sottile ma decisivo confine è stato superato. A porsi il problema della scuola per i propri figli non sono ormai più singoli individui in condizioni precarie. Poter mandare i propri figli a scuola significa aver prima creato una situazione di relativa stabilità di affetti, di lavoro, di posizione sociale ed economica. Una società matura e responsabile non può trascurare i bisogni di questi nuclei familiari, anche perché essi rappresentano la parte più evoluta e stabile della gran massa degli immigrati e persino il più efficace anticorpo contro le possibili derive in fenomeni di marginalità e di devianza, compresa la criminalità e persino la militanza in gruppi eversivi. Offrire risposte adeguate alla richiesta di formazione e di educazione non è quindi affatto un lusso, ma primariamente opera di promozione umana e prevenzione sociale. L'ideale è certo che ciò possa avvenire nelle istituzioni scolastiche pubbliche, che dalla valorizzazione dei patrimoni culturali dei nuovi arrivati potrebbero addirittura trarre motivo di arricchimento, prendendo spunto ad esempio per ripensare insegnamenti e metodologie nel quadro della realtà sempre più pluralistica in cui sono inserite. In mancanza di simili alternative, qualcuno può intraprendere la discutibile via del "fai da te", fuori dagli ordinamenti vigenti e creando una sorta di società parallela o addirittura di corpo estraneo rispetto al Paese ospitante. La filosofia che ispira tali scelte, quand'anche fossero fatte in buona fede, rappresenta un pericolo per gli utenti di simili imprese e rafforza in essi la già troppo diffusa mentalità secondo la quale in Italia si può fare un po' quel che si vuole, in attesa di qualche sanatoria...
La scarsa attenzione che si dedica ai giovani e alle donne che fanno parte delle comunità immigrate non risponde tanto a presunte gerarchie escludenti proprie della cultura d'origine, quanto all'immaturità del nostro sistema democratico, scarsamente incline a offrire opportunità a quanti per la loro stessa condizione sarebbero i primi ad interessarsene perché potrebbero immediatamente esserne avvantaggiati. Si perde così la preziosa occasione di incidere su quanti sarebbero in grado di svolgere da subito un indispensabile e delicato ruolo di mediazione, non tanto sul piano ideologico quanto nella pratica quotidiana, ambito del resto piuttosto trascurato anche per quanto riguarda gli autoctoni da parte di istituzioni lontane e indifferenti e di un sistema mediatico tanto capace di infiammarsi temporaneamente per qualche caso di cronaca quanto di dimenticarsene altrettanto in fretta per passare ad altro fino alla prossima emergenza.

4. eppur... si muovono.

Ma non c'è solo chi cerca di isolarsi. Altri accettano la sfida di vivere consapevolmente un'identità plurima. Nati nel nostro paese, o arrivatici molto piccoli, hanno frequentato le nostre scuole e si sentono italiani. Cercano le giuste modalità per restare fedeli al loro credo, senza rinunciare ad essere giovani come gli altri. Ciò significa che sono posti dalla loro stessa età in una posizione intermedia, tra le certezze rassicuranti di quando si è piccoli e dell'ambiente familiare da un lato e dall'altro le inquietudini tipiche di personalità che si stanno ancora formando e le prospettive ancora poco chiare relative al proprio futuro (scelta del corso di studi, sbocchi professionali, costituire una propria famiglia...), il tutto condito con le normali tensioni generazionali che portano sempre gli adolescenti a dover faticosamente trovare un punto d'equilibrio tra il semplice e passivo recepimento di quanto hanno ricevuto dai genitori e la personale appropriazione e rielaborazione di tale patrimonio. A queste condizioni, che essi condividono coi loro coetanei, si aggiunge il fatto che i principi e i valori della tradizione culturale e religiosa propria delle loro famiglie non corrispondono esattamente a quelli diffusi attorno a loro ed anzi vengono percepiti, se non estranei e incompatibili, almeno come problematici e per di più, specialmente negli ultimi anni, si sono caricati di ulteriori valenze negative in forza di avvenimenti che stanno interessando il mondo intero e che sembrano indirizzarlo pericolosamente verso una prospettiva di scontro. Nessuno sembra in grado di farsi carico delle loro esigenze: il linguaggio e l'atteggiamento di coloro che guidano i centri islamici sono inadeguati a ragazzi nati o comunque cresciuti in Italia, specialmente per quanti di loro hanno frequentato le nostre scuole e si sentono ormai più simili ai propri compagni italiani che ai loro cugini d'oltremare. Seguendo le orme dei padri, essi spesso scelgono specializzazioni di tipo tecnico-scientifico (medicina, ingegneria...) e rimangono pertanto sguarniti sul versante umanistico, il che li rende facili vittime di due fenomeni: un'appartenenza alla cultura italiana da 'parenti poveri' da un lato e dall'altro una scarsa consapevolezza della stessa civiltà islamica, della quale resterebbero paradossalmente i legittimi detentori quanti (spesso altrettanto sprovveduti) che con meno disponibilità, impegno e successo si sono inseriti nel paese che li ospita o che hanno aderito all'islam tardi e talvolta in forma bizzarra. E' evidente da parte di questi giovani una forte esigenza di avere dei punti di riferimento per la propria maturazione, unita a una diversa percezione di sé rispetto agli adulti che restano maggiormente legati a usi, costumi e mentalità del paese d'origine. Altrettanto chiari sono in loro una spiccata necessità di chiarirsi le idee circa alcuni punti caldi del confronto islam-modernità, come la questione femminile, la politica, il rapporto fede-ragione... e il desiderio di svincolarsi da un'immagine marginale e perdente del mondo d'origine, mirando a una piena integrazione come cittadini italiani di fede islamica che possano svolgere un ruolo attivo e positivo nella società (alcuni di loro fanno già volontariato al 118, con gli handicappati e persino negli oratori).
Con alcuni di loro abbiamo preparato il dvd "Conosciamo l'islam: giovani musulmani italiani", per presentarne la realtà, come strumento propedeutico al loro intervento diretto in scuole, biblioteche, centri culturali, parrocchie...
Sulle pagine del Corriere della Sera, Magdi Allam lo ha bollato come un video 'edulcorato' che trasmetterebbe una visione 'idilliaca' di una realtà composta invece da figli di persone che non gli vanno a genio. Non trovo molto elegante rimproverare a qualcuno di appartenere a una determinata famiglia (comunque non certo di delinquenti, visto che non mi risultano procedimenti giudiziari a carico dei genitori dei ragazzi intervistati), tanto più se si tratta di giovani che stanno cercando di impegnarsi in direzioni nuove, anche con coraggio. Uno di questi 'estremisti', per giunta di origine siriana, appariva nelle riprese mentre portava la solidarietà della sua comunità agli ebrei che ogni anno ricordano la partenza dalla stazione Centrale di Milano dei convogli per i campi di sterminio. Per la cronaca, il fatto si è ripetuto anche l'anno successivo, con la presenza di una palestinese, anch'essa tra le protagoniste del video, e quello dopo ancora. Di queste immagini e di questa realtà, ovviamente, non si faceva cenno nella requisitoria che condannava senza appello il filmato. Al solerte giornalista devono proprio esser sfuggiti i fotogrammi in questione, mentre non ha avuto difficoltà a riconoscervi una ragazza che ha avuto la disavventura di partecipare a una puntata di Porta a porta. Durante la trasmissione, interrogata a proposito della lapidazione, la sprovveduta diciannovenne ha dimostrato tutta la propria ingenuità. Avrebbe potuto semplicemente dire - poiché così stanno le cose - che il Corano non prevede affatto tale punizione per l'adulterio. La sua scarsa competenza l'ha indotta ad arrampicarsi sugli specchi, ricordando che già l'Antico Testamento la prevedeva. In effetti, la medesima concezione patriarcale sta alla base della morale ebraica e musulmana. Basterebbe ricordare il comandamento: "Non desiderare la moglie del tuo prossimo" che continua significativamente l'elenco così: "né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo" (Esodo 20, 17). Ma neppure i primi cristiani erano immuni da una simile mentalità, dato che quando Gesù si espresse contro il ripudio dicendo: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così", i santi Apostoli ribatterono: "Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi" (Matteo, 19, 9-10). Le cose non sono sostanzialmente cambiate per molto tempo, tanto che un proverbio veneto non proprio medievale (e si badi bene, veneto e non siciliano) per definire il comportamento ideale della donna recita: "Che la piasa, che la tasa e che la staga in casa" ("che sia piacente, che taccia e che rimanga in casa"). E' evidente che la questione, più che sul piano religioso, si colloca su quello antropologico e culturale, e lo sanno bene le ragazze cristiane del Medio Oriente che subiscono mutilazioni genitali e matrimoni forzati o vengono uccise dai parenti se si viene a sapere che hanno avuto rapporti sessuali illeciti, in quanto il medesimo 'codice d'onore' vige presso tutte le popolazioni, indipendentemente dall'appartenenza religiosa.
Non intendo minimizzare: trovo che sia grave che una ragazza nata e cresciuta in Italia, che non ha chiesto l'esonero all'ora di religione cattolica nel suo liceo ed ha anzi accettato di fare volontariato nell'oratorio della sua zona, possa ritenere ancora accettabile - in teoria - una cosa come la lapidazione. Ma mi chiedo quanti cattolici, chiamati ad esprimersi in TV a proposito di questioni controverse come gli anticoncezionali o la possibilità di dare la comunione ai divorziati non si sarebbero ritenuti in dovere di difendere le posizioni ufficiali della Chiesa, al di là delle opinioni personali.
L'incidente non dimostra altro che, specialmente su alcune questioni, l'umanità evolve con grande lentezza, e che lo sforzo per emanciparsi da atavici tabù e dalla disciplina di gruppo richiede uno sforzo enorme. Alla stessa ragazza, in un'altra trasmissione televisiva, è stato chiesto da qualche anima bella del patrio giornalismo, se sarebbe stata disposta a manifestare davanti all'ambasciata dell'Arabia Saudita in favore della libertà religiosa dei non musulmani che vi risiedono, ai quali - com'è noto - viene impedito non solo di celebrare qualsiasi rito, ma persino di possedere oggetti e libri tipici della propria religione. Mi pare che con le sue scelte (e quelle del padre, che collabora coi missionari francescani in opere caritative nei paesi poveri dell'Africa nera), la giovane musulmana abbia già fatto molto e debba per questo essere apprezzata. Ai solerti giornalisti chiederei invece che cosa fanno loro e le loro testate per esercitare pressioni su chi governa l'Arabia per un maggior rispetto dei diritti umani, quale politico o quale impresa statale del settore idrocarburi si sia mai sognata di vincolare contratti miliardari a condizioni che tutelassero i lavoratori stranieri in quel Paese... Evocare interessi e denaro è volgare, ne sono consapevole. Meglio prendersela con lei, velata e poco scaltra, per dimostrare le nefandezze della sua fede arretrata e sessista e magari tornarsene a casa tronfi per aver detto pane al pane e vino al vino, quali coraggiosi alfieri dell'informazione indipendente!
Per associazione di idee, mi sovviene delle condizioni disumane nelle quali lavorano molti clandestini. Ho conosciuto dei giovani impiegati da imprese edili che lavoravano anche la domenica (tanto non devono mica andare a Messa...), senza alcuna protezione né tanto meno assicurazione contro gli infortuni, ai quali per pausa pranzo venivano concessi ben 15 minuti. Temo che non si tratti di casi isolati. Eppure il clandestino è visto soprattutto come un potenziale delinquente, o uno che commette reati solo per il fatto di esistere, non anche e soprattutto uno che subisce ogni sorta di angherie, ingiustizie e sopraffazioni (vogliamo parlare degli alloggi in subaffitto in cui vivono stipati e pagando spesso cifre esorbitanti? O delle prostitute nigeriane che non mi risulta arrivino con nessuna carretta del mare, ma su voli di linea e munite di visti che sarebbe interessante sapere come riescano a procurarsi?). Se poi è musulmano, la predisposizione a finire per militare in gruppi eversivi e terroristici aggrava ulteriormente le cose. Ci siamo già scordati che italiani (e irlandesi), in quanto cattolici e quindi papisti, provenienti da zone rurali e dunque analfabeti, superstiziosi e maschilisti erano visti con sospetto, se non con disprezzo, nei civili paesi del nord Europa o negli Stati Uniti, fino non proprio a moltissimi anni or sono? Ci volle del tempo perché si superassero molti pregiudizi nei loro confronti. Talvolta la diffidenza che incontrarono non fu del tutto ingiustificata: forme di criminalità organizzata si diffusero tramite alcuni di essi anche oltreoceano. Questo significa forse che le discriminazioni di cui furono oggetto siano state legittime? Ciò che è comprensibile in taluni casi non può mai diventare giustificabile in generale. E' una lezione che avremmo dovuto imparare sulla nostra pelle, ma si fa presto a dimenticare. Certe parentele scomode si finisce per cancellarle, specialmente dopo che si è raggiunto un determinato grado di benessere. Ma, insieme all'acqua sporca, rischiamo di gettare via anche il bambino. La vita sacrificata di intere generazioni che hanno contribuito allo sviluppo di tanti paesi diventerebbe così solo un imbarazzante incidente di percorso, un danno collaterale che sembra fastidioso e di cattivo gusto riportare alla mente. D'altra parte, le cose sono cambiate troppo in fretta: nel giro di pochi decenni, da paese di emigrazione siamo diventati meta di una crescente immigrazione. E' del tutto naturale che la cosa ci spaventi. Il modo in cui tale fenomeno si sta sviluppando non è certo sempre il migliore. Più che realmente gestito, ci sembra una specie di evento atmosferico che ci ritroviamo a dover subire passivamente. E' giusto pretendere che chi deve regolamentarlo lo faccia con saggezza e con rigore. Ma ricordare che non molto tempo fa eravamo dall'altra parte della 'barricata' potrebbe stimolarci a considerare soprattutto il lato umano di quanti approdano sulle nostre sponde. Al di là delle differenze di lingua, mentalità e fede religiosa (che ci sono e non vanno sottovalutate) si tratta nella maggior parte dei casi di persone che cercano soprattutto condizioni di vita migliori, un lavoro dignitoso, la libertà di poter decidere del proprio futuro... Non sempre trovano quello che cercano. Ma quando ci riescono provano in genere un profondo senso di gratitudine. Alla parte migliore di loro, che condivide con noi i medesimi timori e le stesse speranze, dovremmo dare maggiore attenzione, nel nostro stesso interesse. Una volta che avremo fatto gli uni verso gli altri almeno qualche passo, molti ostacoli che ora ci sembrano insormontabili probabilmente si ridimensioneranno. Resteranno sicuramente alla fine differenze irriducibili. Anche queste fanno parte della vita. Se pensassimo soltanto a queste, i nostri stessi rapporti familiari diventerebbero insopportabili. Senza un minimo di fiducia negli altri, nessuno di noi si azzarderebbe persino ad attraversare la strada... neppure col semaforo verde.

5. uscire allo scoperto

La più recente iniziativa intrapresa insieme a ragazzi del gruppo Giovani Musulmani d'Italia, ma anche con altri che all'associazione non appartengono e con giovani arabi - cristiani e laici - è stata quella di pubblicare, una volta al mese, alcune pagine scritte da loro e ospitate dal settimanale Vita. L'inserto si chiama Yalla Italia (che in arabo significa "Dai, andiamo... Italia!) e il suo scopo è quello di dar voce a questa nuova generazione che ha tanto da raccontare ma non sa come farsi sentire. Il primo numero è stato dedicato all'umorismo, di cui sembrerebbe totalmente priva una cultura che invece ne offre infiniti e spassosi esempi. "Sorridi al mondo e il mondo ti sorriderà!". Chi mai direbbe che si tratta di un proverbio arabo? E quell'altro, beffardo, che dice: "Tienti distante dal male e fagli le boccacce"? Gli sguardi ottusi dei fondamentalisti, l'implacabile durezza con cui rozzamente sentenziano, la disumana ferocia con cui tagliano mani, teste e lanciano pietre contro il malcapitato di turno stanno pericolosamente diffondendo l'immagine di un intero mondo incapace di leggerezza e d'ironia. Immagine quanto mai irrealistica, che cozza contro la straboccante umanità dei villaggi e delle metropoli del Medio Oriente o del Nordafrica in cui molti di noi hanno potuto soggiornare, anche se solo per pochi giorni. Figli di un'antica civiltà centrata sulla 'parola' - come e forse persino più di altri - gli arabi col linguaggio amano giocare e divertirsi. Le filastrocche dei bambini, i detti popolari, le barzellette sono da sempre il modo con cui gli umili si prendono almeno qualche rivincita sui prepotenti, sfiorando spesso e talvolta oltrepassando i limiti che altrimenti il buonsenso, la decenza e finanche i dettami delle leggi religiose riterrebbero insormontabili. La strumentalizzazione, da una parte e dall'altra, delle vignette danesi su Maometto non deve trarci in inganno. E' purtroppo vero che i Talebani hanno distrutto a colpi d'artiglieria la statua del Buddha di Bamyan, ma gli egiziani - musulmani ancor prima di loro - convivono da secoli con i simulacri delle divinità faraoniche senza troppi problemi. Non è dunque con una cultura iconoclasta a oltranza che abbiamo a che fare. Certamente esistono differenti sensibilità, ma non si tratta soltanto di religione. Un mondo ancora sostanzialmente tradizionale conserva gerarchie, priorità, persino tabù che la modernità ha infranto in nome di una libertà individuale esasperata, tanto che 'nuovo' e 'diverso' son diventati aggettivi senz'altro positivi, abbondantemente utilizzati negli spot pubblicitari che non avrebbero incontrato altrettanto favore presso i nostri nonni e forse nemmeno presso i nostri genitori. "Scherza pure coi fanti, ma lascia stare i santi" è un detto ben noto della nostra tradizione che non risale proprio al Medioevo. Eppure, quando l'esasperazione ci fa perdere le staffe, in Oriente come in Occidente, è proprio sulle cose sacre, o semplicemente nei campi semantici solitamente interdetti, che il linguaggio ci fa sconfinare. I bisogni fisiologici, la sessualità e persino la religione, più o meno esplicitamente, finiscono così per fungere da valvola di sfogo. "La madocina" è un modo di evocare Maria senza nominarla esplicitamente, "Diamine" addirittura abbina il diavolo e... l'acqua santa (Domine). L'arabo non fa eccezione quando, per mandare qualcuno a quel paese, gli si augura: "Che la tua religione vada all'inferno!", il che significa che mi hai fatto talmente uscire dai gangheri che sputo su quanto vi è di più sacro. Tutti, dunque, tiriamo giù i Santi dal Paradiso, qualunque esso sia, ma quando qualcuno si permette di farlo con quelli altrui cominciano i problemi: "Della mia mamma (o della squadra del cuore) parlo male solo io", pronto a difenderla come una bandiera se solo l'avversario si permette di metterne in dubbio l'onorabilità. Contraddizioni e paradossi del linguaggio che, nel bene e nel male, ci distingue dagli animali e ci permette di fare qualcosa che a loro è assolutamente impossibile: ridere, soprattutto sorridere di noi stessi, dei nostri limiti e dell'assurdità dell'esistenza, meraviglioso dono che ha sempre almeno due facce, di cui quella nascosta ogni tanto si mostra per coglierci di sorpresa, per mettere un po' di sale nella minestra che volenti o nolenti ci tocca mangiare, per prendersi gioco delle nostre false sicurezze e rimetterci in discussione... insomma per ricordarci, come dice un altro proverbio arabo: "La vita è così: un giorno dolce come il miele,un altro aspra come una cipolla!"
Il secondo numero è stato invece dedicato ai rapporti tra padri e figli, che hanno inevitabilmente visioni e approcci differenti rispetto alle medesime questioni. Quando una ragazzina di Milano, figlia di un egiziana e di un italiano, si è sentita proporre di seguire un corso di arabo a scuola ha replicato un po' stizzita: "Non sono mica un'extracomunitaria!" Altri son stati ben contenti di frequentare questi corsi, ma si trattava principalmente di bambini delle elementari o di ragazzi delle superiori. Nell'età delle medie, si sa, gli adolescenti evitano accuratamente qualsiasi cosa li possa far percepire come dei diversi dai compagni... E' un periodo delicato, tra l'infanzia e un'età più matura e consapevole. Ciò significa che il problema dell'identità ha a che fare con molte variabili, come l'ambiente, la fase di crescita che si sta attraversando, i rapporti con la famiglia e il gruppo d'origine da un lato e quello sociale in cui si è inseriti dall'altro. Insomma, come tutte le questioni umane, non si tratta di applicare principi o teorie, ma di accompagnare un processo evolutivo complesso e talvolta contraddittorio, in continuo cambiamento, gravido di rischi non meno che di sorprendenti potenzialità. Ad occuparsene sono soprattutto le famiglie, spesso disorientate, e la scuola, già carica di una notevole e problematica mole di lavoro e ben di rado supportata da orientamenti e mezzi idonei ad affrontare adeguatamente la sfida. Ciò significa che la nostra società è già un grande laboratorio, dove è in atto una continua mediazione fra tradizioni culturali e religiose diverse che non vanno concepite come entità rigide, chiuse e predeterminate, ma elementi intrecciati di cui ciascuno di noi è il luogo di una personalissima e irripetibile sintesi. Non siamo esponenti di un'etnia o di una fede come pezzi fatti in serie, prodotti da chissà quale diabolica o sofisticata catena di montaggio. Siamo persone, vale a dire straordinarie e allo stesso tempo misere creature, dotate di sensibilità e intelligenza, cariche certo di un passato ma anche costantemente aperte al futuro. Il contesto nel quale siamo chiamati ad affrontare un simile compito non è purtroppo tra i più favorevoli. C'è infatti il rischio che su entrambi i fronti prevalgano gli aspetti meno nobili e più effimeri della massificazione che caratterizza questo nostro grigio tempo. Agli europei la parte un po' svilente dei benestanti, preoccupati soprattutto che i parenti poveri non siano troppo molesti, disponibili a sopportarli purché disposti a svolgere le mansioni più umili e faticose e a condividere almeno qualche rito collettivo, calcistico o televisivo, per dimostrare di non essere del tutto incivili. Agli immigrati, specie se musulmani, quella dei retrogradi ancorati a una visione del mondo medievale, teocratica e sessista, da rimuovere al più presto per dimostrare di poter diventare presto simili a noi. La realtà è già ben oltre questo tipo di semplificazioni. Ci sono ormai tra noi figli di immigrati di seconda e di terza generazione, alcuni di loro parlano meglio l'italiano che non l'arabo o le altre lingue dei loro genitori. Con questi ultimi e con le loro origini essi stanno sviluppando un silenzioso ma decisivo confronto, giocato nel campo delle scelte quotidiane e della condivisione della difficile e straordinaria avventura che porta dei giovani a diventare uomini e donne maturi.
Il terzo numero ha invece trattato delle vacanze. Per molti ragazzi della seconda generazione di arabi immigrati in Italia si tratta di una sorta di appuntamento fisso col paese d'origine dei loro genitori. Là ci sono i nonni, un più o meno sterminato numero di parenti, usi e costumi diversi, curiosi, talvolta bizzarri, ma sempre mediati dall'affetto che fin da piccoli è stato instillato loro per una terra a cui ciascuno di essi ha il suo proprio modo di appartenere. Quante volte hanno sentito mamma e papà, o almeno uno di loro, raccontare qualcosa di "laggiù", sempre con un velo di malinconia, spesso con un taglio tra il favoloso e l'esotico, come spesso accade ai ricordi che vengono filtrati dal cuore prima di giungere al cervello per sfociare infine sulle labbra? Eccoli dunque a confrontarsi con un passato che non si sono scelti, che fa parte di un bagaglio ingombrante ma di cui andare anche talvolta orgogliosi, spaesati sia da questa che da quella parte del Mediterraneo, troppo arabi per essere completamente italiani, troppo italiani per essere pienamente arabi. Gli odori, il cibo, gli orari insieme alle feste e alle abitudini, la stessa lingua inevitabilmente più ricca di quella che praticano con i compaesani che, come loro, stanno in occidente per la maggior parte dell'anno... sono altrettante sfide di adattamento, ogni volta, un piccolo esame a proposito della loro identità plurima e problematica.
Come l'affrontano? Nel modo più antico e sapiente: barcamenandosi, evitando gli spigoli e sgusciando da troppo aperti ed aspri confronti. Dove sta scritto che si debba decidere una volta per tutte, fare una scelta di campo: o di qua o di là? Non capita sovente anche a noi? I parenti uno non se li può selezionare a suo piacimento. Non avete pure voi una zia invadente, un cugino spaccone, quello che vi fa sempre il regalo sbagliato o che non sa dissimulare il suo disappunto per avere in famiglia un tipo come voi? Eppure, alle feste comandate o in occasione di qualche compleanno, guai a mancare, a dimenticarsi degli auguri, a scordare che quel vestito o quell'argomento vanno assolutamente evitati!
Col passare degli anni finiamo tutti per rimpiangere le tavolate attorno alle quali abbiamo passato forse le ore più noiose della nostra vita. Lo zio tirchio o megalomane diventa quel gran simpaticone, forse un po' logorroico, ma che in fondo in fondo non merita di esser poi tanto disprezzato. Coi coetanei è tutta un'altra cosa. Lì si va sul serio: rapporti tra ragazzi e ragazze, fidanzamenti più o meno combinati o contrastati, progetti per il futuro riguardo agli studi o al lavoro... Quanta indipendenza? Quanta obbedienza? L'alchimia non è semplice: quante e quali bugie sono ammissibili per poter fare liberamente i propri sbagli? E poi il linguaggio, le buone maniere: ma come fanno a non ribellarsi, non gli scappa proprio mai una parolaccia, sentono ancora persino la gerarchia che li sottomette al fratello maggiore? L'Occidente che hanno in mente, poi, come diavolo han fatto a immaginarselo tanto strampalato? Qualcosa si può dire, molto altro rimane un po' nascosto. Le idee non sono ancora abbastanza chiare, c'è tutta una vita davanti. Di esami, almeno durante le vacanze, è meglio non parlarne. E' preferibile cercare di divertirsi e rilassarsi un po': almeno per questo, i ritmi lenti d'Oriente sono decisamente più propizi, a settembre si ricomincia.
I numeri successivi continuano sulla stessa linea, partendo dalle loro esperienze concrete e dalle loro riflessioni, per giungere a temi di attualità, anche impregnativi e spinosi, ma sempre con leggerezza e, fin dove possibile, col sorriso sulle labbra. Labbra che hanno tanto da dire e che cercano soprattutto orecchi disposti ad ascoltare.

6. Verso dove?

La situazione è dunque totalmente diversa rispetto a quella di venti o trent'anni fa, quando ai miei primi e timidi approcci nelle moschee della mia zona, zelanti ma poco idonei leader (spesso italiani convertiti o immigrati che pretendevano di continuare a vivere come se fossero nel loro paese d'origine) accoglievano con sorrisi di compatimento o aperto rifiuto le mie proposte di "dialogo". La pazienza e la speranza che hanno sorretto una lunga e operosa attesa non sono andate deluse.
Non sono mancati riconoscimenti e soddisfazioni: varie istituzioni si sono mosse ed hanno appoggiato progetti innovativi, anche se in molti altri casi si sono confermate inerzie e timori da parte di è stato solamente a guardare o ha voltato la faccia dall'altra parte.
Dove potrà condurci il cammino intrapreso? Evitare questa domanda sarebbe forse prudente, ma è proprio dell'essere umano chiedersi che cosa riserva il futuro, specie quando si sente impegnato responsabilmente in qualcosa che percepisce come decisivo non soltanto per sé, ma per tutti.
Non ho affatto la pretesa di essere tra i protagonisti di chissà che cosa, ma la situazione di stallo ormai quasi totale di molti paesi a maggioranza musulmana mi induce a credere che quella che si sta giocando da noi è una partita decisiva anche per le future sorti di una grande tradizione religiosa che qui potrebbe cogliere opportunità inedite per la sua evoluzione.
Anche e soprattutto per questo non so rallegrarmi nel constatare che il clima generale che si respira nel nostro Paese è ben lontano dal favorire qualsiasi sviluppo in tal senso.
Basti il caso del già citato Magdi Allam, protagonista di un'assai mediatizzata conversione, il quale - dopo aver a lungo ambiguamente approfittato di un suo presunto ruolo guida dei 'musulmani moderati'- ha infine gettato la maschera non solo presentando la sua adesione al cattolicesimo soprattutto come sprezzante distacco dalla sua fede precedente, ma non si è astenuto da utilizzare in una recente lettera aperta al Papa espressioni nelle quali senza mezzi termini definisce il Profeta dell'islam un personaggio "abietto e criminale" e il credo da lui predicato "una falsa religione, ispirata non da Dio ma dal demonio". Il corollario che ne consegue è agghiacciante: "Con i musulmani moderati, partendo dal rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo e dalla condivisione dei valori non negoziabili della nostra umanità, si può dialogare e operare per favorire la civile convivenza. Ma dobbiamo affrancarci dall'errore diffuso che immagina che per poter amare i musulmani si debba amare l'islam, che per rapportarsi in modo dignitoso con i musulmani si debba attribuire pari dignità all'islam". Un po' come dire: ti amo, ma mi fanno schifo tua madre, la tua famiglia e la tua religione. Non rispetto nulla di tutto ciò, in quanto privo di ogni dignità, sei un poveretto che non ha avuto la fortuna di nascere dalla parte giusta. Resta un mistero come una persona appena approdata alla fede in Cristo possa concepire ed esprimersi in questi termini.
Soprattutto sbalordisce che un uomo che tanta importanza dà evidentemente alla religione possa ipotizzare qualche possibile base di dialogo senza salvare nulla della dimensione spirituale di una grande tradizione religiosa, per di più insultandola e delegittimandola senza appello.
A parte questi elementi di 'contorno', che comunque la dicono lunga sulla nostra propensione a collaborare affinché l'opportunità che abbiamo di vivere più a stretto contatto coi musulmani non sia - una volta di più - un'occasione perduta, resta da chiedersi quali dinamiche potranno maturare e consolidarsi attraverso questi giovani.
Un primo dato già certo è che essi hanno deciso, almeno finora, di rimanere credenti e praticanti. Prima ancora di considerare ciò che questo significhi e le forme in cui si esprime, ci conforta sapere che la strada prescelta non sia stata quella di secolarizzarsi, divenendo indifferenti o addirittura contrari all'idea di appartenere a una fede religiosa, né di confinarla nello stretto limite della propria intimità. Più di mille lezioni di catechismo e di qualsiasi predicozzo, per molti dei nostri giovani constatare che loro coetanei fanno quotidianamente questa scelta può costituire una sana provocazione per non declassare la propria identità cristiana a questione privata, soprattutto se con questo termine si intenda qualcosa di marginale, accessorio e ininfluente.
Non c'è poi neppure bisogno di sottolineare che si tratta anche di una precondizione indispensabile affinché il ruolo di questi giovani musulmani, all'interno delle stesse comunità di appartenenza, abbia un qualche spessore.
Ma c'è molto di più. Al di là dei tecnicismi che interessano gli esperti di diritto religioso, anche e forse soprattutto i semplici credenti musulmani che vivono in Occidente stanno riflettendo su una questione di capitale importanza: col mutare delle condizioni sociali e culturali quale parte della tradizione islamica e delle sue istituzioni classiche vanno considerate ancor valide e quindi mantenute a qualsiasi prezzo? Quali aspetti sono invece modificabili e attraverso quali procedure? Per rispondere a queste domande è necessaria una riconsiderazione del processo evolutivo che nei primi secoli della storia dell'islam ha condotto alla formazione delle sue dottrine e delle sue strutture fondamentali per poter riprendere, in forme adatte ai nostri tempi, il fecondo lavoro di quelle prime generazioni di fedeli. E' anche salutare prendere coscienza delle forme plurali in cui la propria fede si è espressa nel tempo e di quanto siano varie le pratiche tutt'oggi nelle varie latitudini. E' proprio nei centri islamici d'Europa che i giovani musulmani imparano a conoscere loro correligionari di alta etnia, talvolta di terre lontane, pesino di differente orientamento religioso, come nel caso degli sciiti. Nella prassi quotidiana sono già in atto molteplici mediazioni tra usi e costumi dei genitori e sensibilità di chi è nato in Occidente che non di rado investono anche la dimensione della religiosità.
Del resto, non è stato così anche per noi? Ricordo scuole cattoliche e oratori rigidamente divisi per sesso, ricordo la messa in latino, il catechismo a domande e risposte da imparare a memoria, la necessità di essere digiuni dalla mezzanotte del giorno prima per potersi accostare all'eucarestia, ricordo donne sedute da un lato della chiesa e uomini dall'altro, mia sorella che non poteva entrare in chiesa coi pantaloni, donne che fino a 40 giorni dopo il parto erano considerate 'impure'... per non parlare di digiuni, fioretti e processioni.
Tutte queste cose non fanno più parte della nostra comune religiosità, alcune sono ormai molto distanti dalla nostra sensibilità, ma diremmo per questo che siamo meno credenti e praticanti? Forse qualcosa abbiamo tralasciato troppo in fretta e andrebbe recuperato, ma ci abbiamo guadagnato in maturità: una fede meno formale per un'adesione più convinta e profonda.
Possiamo escludere che ad altri possa succedere qualcosa di analogo?
L'islam di popolo, così come il cristianesimo delle masse, si sono espressi a lungo soprattutto in forme di devozione legate a personaggi e a luoghi accostati con un senso magico-sacrale proprio di società ancora arcaiche, rurali, poco istruite e inclini a pratiche spurie, dove la dimensione della superstizione non era del tutto assente.
Quello dei dotti si è da tempo sclerotizzato in formulazioni canoniche che la perversa commistione con interessi politici rende praticamente immutabile.
Tra gli immigrati sussiste dunque la possibilità che l'uno e l'altro vengano superati, senza per questo negarne i valori e le funzioni, ma all'interno di una prospettiva finalmente liberata.
Un'immensa ricchezza resta dunque da valorizzare, nella latitanza da parte di istituzioni e mass-media distratti o malati di sensazionalismo, incapaci di investire nella formazione perché ossessionati da risultati immediati e ad effetto che garantiscano una qualche forma di visibilità e di consenso, spesso in prospettiva 'sicuritaria', senza essere in grado di comprendere che il miglior antidoto alla marginalizzazione di interi gruppi sociali è proprio l'inclusione positiva delle nuove generazioni.

(da P. Naso, B. Salvarani, Il muro di vetro. L'Italia delle religioni. Primo Rapporto 2009, Emi, Bologna 2009, pp. 114-125)

Un breve riassunto

Incontro e scontro delle culture in Europa

Un problema serio. Gli immigrati musulmani sono portatori di usi e costumi fortemente impregnati della loro tradizione religiosa, ma aderiscono ad un islam "deterritorializzato", frutto della modernità, anche se apparentemente alternativo ad essa, e che trova in occidente le condizioni ideali per svilupparsi.
In Italia ci limitiamo a iniziative di risposta ai bisogni primari (casa e lavoro), ma sembra che non abbiamo nulla da dire a chi è portatore anche di altre domande, perché noi stessi non ce le poniamo più: sentiamo così poco "nostro" il bagaglio di 2000 anni di cristianesimo da non riuscire ad immaginare di poterlo condividere con chi bussa alla nostra porta. Se non prendiamo noi l'iniziativa della proposta, subiremo quella altrui. E poiché non saranno necessariamente i più ragionevoli a farsi avanti, ci troveremo di fronte a strumentalizzazioni di entrambe le tradizioni religiose, in una partita meschina di ricatti ed ambiguità.
Il rischio è che gli europei facciano la parte svilente dei benestanti, preoccupati soprattutto che i parenti poveri siano disposti a svolgere le mansioni più umili e faticose, che gli immigrati musulmani passino per dei retrogradi con una visione del mondo medioevale, teocratica e sessista.
Ma il loro essere radicati in una tradizione religiosa potrebbe rappresentare l'occasione per interpellarci sul ruolo marginale in cui noi releghiamo la nostra. L'analfabetismo biblico che caratterizza le nostre giovani generazioni, prima che un problema confessionale, è una questione culturale.
Un compito arduo e affascinante. Non dobbiamo contrapporre le conquiste tecnologiche e scientifiche dell'occidente alle certezze proprie della fede vissute in altre culture. Per affrontare il multiculturalismo, insegnanti, operatori sociali, pastori, ecc. non hanno spesso né formazione né ausili adeguati. In Italia, a parte le pubblicazioni sul fondamentalismo islamico posteriori all'11 settembre (che piuttosto che aiutare fanno da cortina fumogena) non esistono studi organici specialmente sulla storia moderna e contemporanea della maggioranza dei paesi arabi e musulmani. Ad esempio, per molti l'Egitto si riduce alla terra dei Faraoni e alle località balneari del Mar Rosso! Non siamo neppure consapevoli del fatto che proprio in casa nostra passa il "fronte" di due grandi tradizioni culturali e religiose chiamate a confrontarsi. Il timore degli uni di essere "invasi" e degli altri di essere "assimilati" è legittimo ma deve essere superato. Ci sono ormai tra noi musulmani di seconda e terza generazione, che potrebbero divenire l'islam d'Europa, con benefici influssi sul mondo musulmano nel suo complesso. Ma la grancassa dei media dà spazio a personaggi squilibrati e folkloristici, e non alle persone più rappresentative.

Islam d'Europa: la religiosità dei giovani musulmani in Italia

in partibus infidelium. Chi emigra porta con sé la propria lingua, la propria cultura e la propria fede. Le seconde generazioni sono in una situazione completamente diversa su tutti e tre i punti di vista.
Pur parlando anche quella dei genitori, l'italiano è la lingua che conoscono meglio. La cultura è un campo molto più variabile, in fondo ogni famiglia ha i propri riti. La religione diventa presto qualcosa su cui decidere, una scelta personale, che nel paese originario non sarebbe stata necessaria. Dato il carattere tradizionalista delle società di provenienza, questa è una differenza importante. In un contesto laico, secolarizzato e moderno, i concetti di autorità e di obbedienza e le pratiche conformistiche sono definitivamente archiviati.
c'è chi dice no. Alcuni adulti pretendono di vivere come se fossero al villaggio natìo: padri che rifiutano di parlare con insegnanti donne, che relegano la moglie in casa, col risultato di sminuire il suo ruolo nell'educazione dei figli, di sviluppare nei figli una doppia morale: in casa rispettosi di tradizioni ataviche, fuori varie forme di compromesso, per uniformarsi ai coetanei.
Non c'è nessuno scontro di civiltà, ma dei processi di meticciato. Contribuire a che ciò avvenga nelle forme migliori è un impegno difficile e quotidiano, fatto di pazienza e di saggezza. Non fare nulla, può portare a guai irrimediabili. Occorrono interventi concreti, che non danno risposte immediate e non possono esser utilizzati per facili consensi.
prima le donne e i bambini. È superata la fase dell'immigrazione di giovani maschi soli. Oggi ci sono nuclei familiari, che sono il più efficace anticorpo contro le derive di marginalità e devianza. Poter mandare i figli a scuola significa aver creato una situazione di relativa stabilità. Una società matura e responsabile deve offrire adeguate risposte alle richieste di formazione e promozione umana. Prestando scarsa attenzione ai giovani e alle donne, si perde la preziosa occasione di incidere proprio su chi potrebbe svolgere un indispensabile ruolo di mediazione nella pratica quotidiana.
eppur... si muovono. I figli degli immigrati, nati nel nostro paese, o arrivatici molto piccoli, hanno frequentato le nostre scuole e si sentono italiani. Accettano la sfida di vivere un'identità plurima. Da un lato le certezze rassicuranti della famiglia, dall'altro le inquietudini tipiche di personalità in formazione e le prospettive poco chiare per il futuro. Alle normali tensioni generazionali si aggiunge il divario tra i valori vissuti nell'ambito familiare e quelli del contesto sociale. Nessuno sembra farsi carico delle loro esigenze, della necessità di avere dei punti di riferimento per la propria maturazione. In loro c'è la necessità di chiarirsi le idee sul confronto islam-modernità e il desiderio di una piena integrazione come cittadini italiani di fede islamica con un ruolo positivo nella società. In Italia, il cambiamento troppo rapido da paese di emigrazione a meta di crescente immigrazione, ci spaventa. Però dovremmo considerare il lato umano: al di là delle differenze di lingua, mentalità e fede religiosa, sono persone che cercano un futuro dignitoso.
uscire allo scoperto. Ci sono iniziative, come "Yalla Italia", inserto del settimanale "Vita", per dar voce a una nuova generazione che tanto ha da raccontare e non sa come farsi sentire. Il primo numero è stato dedicato all'umorismo, ben lontano dall'immagine di ottusità e durezza dei fondamentalisti. Il secondo ha affrontato il rapporto genitori-figli, il terzo ha riguardato le vacanze, per molti un appuntamento fisso col paese d'origine. I numeri successivi, sulla stessa linea, sono alla ricerca di orecchi disposti ad ascoltare. Come in tutte le questioni umane non si tratta di applicare principi o teorie, ma di accompagnare un processo evolutivo complesso e contraddittorio. La nostra società è un grande laboratorio, dove è in atto una continua mediazione fra tradizioni culturali e religiose diverse, elementi intrecciati di cui ciascuno di noi è una personalissima e irripetibile sintesi.
verso dove? Qui da noi si sta giocando una partita decisiva anche per le future sorti di una grande tradizione religiosa che potrebbe cogliere opportunità inedite per la sua evoluzione. Per questo non rallegra il clima generale che si respira nel nostro Paese. Resta da chiedersi quali dinamiche potranno maturare e consolidarsi attraverso i giovani di seconda e terza generazione. Molti hanno deciso di restare credenti e praticanti, cosa che può costituire una sana provocazione per i nostri giovani per non declassare la propria identità cristiana a questione privata. Importante è anche la riflessione su quale parte della tradizione islamica e delle sue istituzioni classiche vadano considerate valide e quindi mantenute, e quali invece siano modificabili e in che modo, con il mutare delle condizioni sociali e culturali. Nella prassi quotidiana sono già in atto molteplici mediazioni tra usi e costumi dei genitori e sensibilità di chi è nato in occidente, riguardanti anche la religiosità. Del resto, anche per noi le cose sono molto cambiate nel giro di pochi decenni e molti elementi che pensavamo insuperabili non fanno più parte della nostra religiosità. Tra gli immigrati sussiste la possibilità che l'islam di popolo, che si esprimeva in forme di devozione magico-sacrale proprie di società rurali, e l'islam dei dotti, da tempo sclerotizzato in formulazioni canoniche, vengano superati, senza per questo negarne i valori e le funzioni all'interno di una prospettiva finalmente liberata. L'inclusione positiva delle nuove generazioni è un'immensa ricchezza da valorizzare, ed è anche il miglior antidoto alla marginalizzazione di interi gruppi sociali.

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