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L'avventura della convivenza tra etnie e culture diverse

Modelli, valori, identità

sintesi della relazione di Giannino Piana
Verbania Pallanza, 12 dicembre 2009

All'interno di questo corso, il tema che spetta a me affrontare è quello delle convivenze tra etnie e culture diverse, e cercherò di affrontarlo con un taglio di carattere etico. Molti e complessi sono i problemi relativi al modo in cui la convivenza può realizzarsi in una società multiculturale e multireligiosa, come è quella nella quale viviamo, ma non tutti toccano l'aspetto etico. Anche altre competenze devono essere chiamate in causa, per affrontare aspetti di cui oggi non vi parlerò, ma che sono anch'essi importanti. Penso ad esempio all'aspetto giuridico, di grossa rilevanza nell'affrontare queste tematiche.

analisi della situazione

Nel primo momento cercherò di analizzare la situazione, di vedere che cosa sta avvenendo, soprattutto all'interno del nostro paese, a causa del processo di trasformazione provocato dalle migrazioni, che tocca tutti i territori del mondo occidentale. Le migrazioni hanno per soggetto i popoli che vivono nel sud del mondo, e che, per condizioni economico-sociali, a volte anche politiche (si pensi alle guerre, ai genocidi, ecc) si proiettano verso il nostro mondo occidentale, occupando spazi tradizionalmente riservati a coloro che erano nati all'interno di quel territorio o che vi avevano già acquisito una lunga tradizione di appartenenza anche sul piano culturale e religioso.
Questa analisi è importante per capire quali problemi vanno affrontati se ci si vuole impegnare per un'etica della convivenza, che è anche un'etica dell'ospitalità e dell'accoglienza. Il termine convivenza mette bene l'accento sul fatto della possibilità di vivere insieme, di con-vivere, tra etnie e culture diverse, non all'insegna dello scontro e della contrapposizione, ma all'insegna dello scambio reciproco.
Nel secondo momento, di carattere propositivo, si tratterà di vedere che cosa fare, individuando gli aspetti più rilevanti da mettere a fuoco per dare alla convivenza una consistenza reale, per farla diventare una convivenza positiva, in cui non ci sia conflitto e scontro, ma incontro, scambio, possibilità di arricchimento reciproco. Se la presenza di culture e di tradizioni religiose diverse può essere fonte di difficoltà, può anche costituire, nel caso venga elaborata positivamente, un'occasione di reciproco arricchimento. In questo caso ciascuno ricava dalle culture "altre" elementi nuovi che arricchiscono la propria cultura, la propria tradizione sia religiosa che culturale, nel senso ampio del termine.
Si tratta ovviamente soltanto di spunti di riflessione perché il tema è complesso. E' difficile infatti individuare con chiarezza le linee portanti, gli obiettivi di fondo da tenere in considerazione per costruire la convivenza civile su basi valoriali costruttive.

la multiculturalità non è un fenomeno nuovo...

Partirei anzitutto da una prima considerazione, che può sembrare anche ovvia, ma che mi sembra importante, e cioè che la multiculturalità non è un fenomeno nuovo. Certo la multiculturalità come si presenta oggi ha caratteristiche specifiche nuove rispetto al passato, ma è un fenomeno di sempre, nel senso che ogni cultura è sempre multi o pluriculturale. Ogni cultura ha sempre portato dentro di sé elementi ricuperati e rielaborati di altre culture. Si pensi alla cultura greca e a come abbia risentito dell'influenza fenicia, e di tutta l'area del bacino mediorientale del Mediterraneo, della cosiddetta mezzaluna fertile, della Mesopotamia, con fenici, assirobabilonesi, egizi, ecc. La cultura greca non si spiega senza tener conto dell'influenza delle culture precedenti, con le quali è entrata in contatto e dalle quali ha acquisito elementi che poi ha strutturato al proprio interno con una sua specificità. Si pensi anche a come l'islam, e lo ricordo perché c'è spesso un atteggiamento aprioristicamente negativo nei suoi confronti, nel primo millennio sia stato portatore di una cultura che ha consentito al Medio Evo cristiano, a partire da Tommaso d'Aquino, di entrare in contatto con i testi dei grandi classici greci. Potremmo dire che c'era allora una sorta di koiné, realizzata dal mondo arabo tra molte culture. Qualcuno dice che l'islam ha vissuto prima il Rinascimento e poi il Medio Evo, nel senso che in un secondo tempo ha radicalizzato certe posizioni integraliste, legate soprattutto alla sharìa, mentre nel primo millennio è stato dal punto di vista culturale un islam ricchissimo, proprio nel senso della multiculturalità. Una multiculturalità che ha dato un contributo notevole alla riflessione che l'occidente è poi venuto conducendo.

... anche nel nostro paese

La presenza di culture e di religioni diverse è sempre esistita anche nel nostro paese, soprattutto nelle zone alpine di confine, con tradizioni linguistiche diverse, dalla lingua francese nella valle d'Aosta, alla lingua tedesca o ladina in altre zone, fino al provenzale in alcune zone del sud del Piemonte, del cuneese in modo particolare. C'è sempre stata quindi una mescolanza di culture diverse nelle zone di confine, originale rispetto ad altre regioni del paese, come quelle del centro.
Ma ci sono anche zone di confine nel nostro paese ricche di diverse tradizioni religiose. Si pensi a due città come Trieste e Venezia, in cui da sempre la presenza del mondo ortodosso e del mondo ebraico è stata molto forte, con popolazioni provenienti da mondi diversi, ecc.
Ricordo queste cose perché spesso ragioniamo di identità in senso fissista, quasi che l'identità culturale legata a un territorio sia un dato acquisito una volta per tutte, mentre in realtà è molto fluido, in divenire, e quindi da non mummificare e chiudere su se stesso.

che presenta oggi caratteri specifici propri

legata alla globalizzazione

Certamente la multiculturalità attuale presenta caratteri specifici, propri, che creano maggiori difficoltà. E questo è dovuto al legame stretto con il fenomeno della globalizzazione. Anch'esso è un fenomeno che ha ascendenze storiche abbastanza remote. La prima globalizzazione è avvenuta quando sono iniziati i grandi viaggi, tra la fine del '400 e gli inizi del '500, verso le Indie, verso le Americhe. Già a quel momento c'è stata un'apertura di mondi, che erano chiusi, ad altri mondi, un interscambio tra mondi diversi. Certamente, la globalizzazione come noi la conosciamo è un fatto abbastanza nuovo, innanzitutto perché si identifica con l'unico mercato, cioè con un processo di unificazione del mondo dal punto di vista economico. Ma accanto a questo aspetto, c'è anche l'unificazione del mondo dal punto di vista culturale e dal punto di vista dell'informazione. Si pensi ai nuovi strumenti di comunicazione sociale, come internet, ecc., e a che cosa essi rappresentino. Ormai possiamo acquisire in tempo reale informazioni che vengono da tutte le parti del mondo e collegarci direttamente con soggetti che abitano all'altro capo del mondo con scambi sempre più frequenti.

riguarda gruppi e collettività

A seguito del fenomeno migratorio attuale, assistiamo alla presenza di culture diverse sullo stesso territorio, che riguardano non soltanto alcuni soggetti di culture altre, ma interi gruppi.
Questo è certamente un fatto nuovo. I problemi di rapporti si pongono non più soltanto a livello individuale, ma a livello di collettività, di nuove soggettività sociali presenti sul territorio. Sono soggettività etniche, religiose, culturali e sociali diverse, con connotati molto specifici, che variano da cultura a cultura, da tradizione religiosa a tradizione religiosa, e così via.
Questo processo di spostamento della popolazione, favorito evidentemente dalla caduta delle distanze fisico-geografiche, cioè dalla facilità di spostamento da un luogo all'altro, è facilitato anche dal fatto che ormai siamo cittadini del mondo, e che ovunque nel mondo si può sapere che cosa avviene per esempio nel nostro paese (tenore di vita, possibilità lavorative). Oggi non esistono più dei "compartimenti stagni", ma tutti siamo a conoscenza di quello che avviene sull'intero globo. Per questo motivo, non solo abbiamo la possibilità di spostarci, ma anche di conoscere ciò che succede altrove, con la conseguenza di creare le condizioni perché dal punto di vista psicologico ci si senta attratti da paesi nei quali è stato superato lo status di pura sopravvivenza, dove esistono ricchezza, possibilità di lavoro, possibilità di maturare forme di crescita personale che altrove è difficile realizzare.

è un fenomeno costante

Questo fenomeno di spostamento della popolazione dal sud al nord del mondo avviene in modo costante. Credo che, per quanti sforzi si facciano, anche con forme di repressione sempre più dure, per arrestarlo, questo fenomeno continuerà a svilupparsi. Forse potrebbe essere almeno rallentato provvedendo a creare migliori condizioni di sviluppo in aree finora depresse, ma questo esigerebbe innanzitutto che il mondo occidentale, ricco, facesse una scelta decisa in tal senso (mentre finora lo ha fatto in maniera estremamente limitata), e che comunque avrebbe effetti solo su tempi molto lunghi.

è un fenomeno che avviene con grande rapidità

È un fenomeno che avviene, oltre che con continuità, anche con estrema rapidità, soprattutto nel nostro paese, a differenza di altri paesi, in particolare di quelli che avevano delle colonie, nei quali si è maggiormente distribuito nel tempo. L'Italia ha avuto per un periodo di tempo molto limitato delle colonie, con le quali non ha sviluppato quelle relazioni intercorse ad esempio tra l'Inghilterra e il Commonwealth, o tra la Francia e le sue colonie, come l'Algeria.
La rapidità con cui il fenomeno avviene, con un afflusso continuo di popolazione, certamente crea una serie di problemi e di difficoltà.
Si noti tra l'altro che è pura pubblicità sostenere che si blocca l'immigrazione impedendo ai barconi nel Mediterraneo di raggiungere le nostre coste, perché la stragrande maggioranza dei migranti (mi pare attorno al 90%) viene da noi non via mare, ma via terra, e cioè soprattutto dai paesi dell'est. Quelli che vengono via mare (intorno al 10%) sono quelli più penalizzati, anche attraverso forme di rifiuto estremamente gravi.

problemi e difficoltà

Questa situazione ha prodotto delle difficoltà di vario ordine (difficoltà psicologiche, sociali, culturali, ecc.). Non vorrei però partire da quelle più immediate, che ci toccano in questo momento, ma dalla individuazione delle ragioni che provocano, istintivamente o inconsciamente, un atteggiamento, molto diffuso e utilizzato strumentalmente da alcune forze politiche, di rifiuto dell'altro. Intendo l'altro in una varietà dei significati, che vanno dalla diversità religiosa alla diversità culturale, alla diversità etnica, alla diversità di colore ecc.

l'etnocentrismo

Una delle difficoltà che vengono da lontano è la persistenza, anche se non apertamente riconosciuta o dichiarata, di una sorta di etnocentrismo, che ha caratterizzato da sempre il nostro atteggiamento di europei, e di occidentali in generale, nei confronti delle culture altre.
Noi ci riteniamo persone appartenenti alla cultura vera, autentica, alla "cultura per eccellenza", mentre gli altri popoli sarebbero invece appartenenti a culture non autentiche, a sub-culture, a sottoculture. L'etnocentrismo, lo dice il termine stesso, nasce dall'attribuire all'etnos occidentale centralità non solo in termini di forza, di potere, ma anche in termini di valore. Secondo questa concezione i valori veri sarebbero quelli dell'occidente, mentre quelli degli altri sarebbero dei sottovalori, o addirittura dei disvalori, con la conseguenza di giudicare come arretrate le culture altre rispetto alla nostra.
Questa mentalità è profondamente radicata nella tradizione occidentale e dentro di noi. Senza accorgercene, spesso, esprimiamo dei giudizi che nascono da presupposti, che magari razionalmente riteniamo inaccettabili, ma che in realtà giocano psicologicamente dentro di noi. Per rendersi conto di questa realtà è bene, anche rapidamente, metter a fuoco alcune tappe dello sviluppo di questa mentalità.

origini e sviluppo dell'etnocentrismo

Si può risalire anzitutto alla tradizione greco-romana. La civilizzazione operata dal mondo greco nell'ambito del Mediterraneo, con la diffusione della koiné, in qualche modo ha contribuito a far nascere l'idea che la cultura greca era la vera cultura, e che le culture precedenti, poi assorbite, in fondo avevano meno importanza e valore.
Tutto questo diventerà molto più evidente con l'avvento dell'impero romano, portatore della civilizzazione latina in tutto il mondo occidentale, Nord Africa compreso.
Con la pace costantiniana, l'impero romano e la Chiesa stringono un patto di mutuo riconoscimento, ma anche di mutua dipendenza. Nasce una sorta di mescolanza tra civilizzazione romana e cristianizzazione.
Questo si evidenzia molto bene durante tutto il periodo medioevale, con il concetto di sacro romano impero, in cui la concezione imperiale romana si mescola con la sacralità del mondo cristiano (il fatto che gli imperatori vengano consacrati dai papi, ecc.). Questa mescolanza si manifesta ancora chiaramente nelle guerre di conquista dalla fine del '400 in poi, sia nei paesi latinoamericani che nei paesi asiatici. Le guerre hanno il doppio compito, di portare la civilizzazione (distruggendo tutto quello che esiste in loco, come le culture tradizionali latinoamericane che vengono del tutto cancellate), e nello stesso tempo il cristianesimo. Nonostante alcune reazioni, come quelle di Bartolomeo Las Casas, prevale la visione del portare la civiltà occidentale a culture giudicate incivili, e di portarla con la croce, che, anche in quel caso, diventa il vessillo sotto il quale la civiltà occidentale si riconosce. Questa mescolanza tra civilizzazione e cristianizzazione darà luogo a tutta una serie di equivoci.
A questa evoluzione storica dell'etnocentrismo, tracciata rapidamente e superficialmente, meritevole di ben altri approfondimenti, si accompagna un processo di giustificazione a livello teorico.

il "darwinismo sociale"

Un contributo determinante in questo senso viene dalla teoria evoluzionista, dal cosiddetto "darwinismo sociale", considerato dai veri darwiniani una estrapolazione scorretta.
Il darwinismo sociale parte dal presupposto che la società è una sorta di macrocosmo guidato dalle stesse leggi del microcosmo. In ambito politico, nei rapporti tra le società e le culture, avviene ciò che succede, attraverso la selezione delle specie, nel mondo animale, e cioè la lotta per la vita, dove il più forte prevale sul più debole. Secondo questa visione la cultura occidentale è vincente proprio perché non può non esserlo, perché è la vera cultura. La legge del più forte è una legge inesorabile, addirittura deterministica, che funziona a prescindere dalla volontà dei singoli. Queste teorie, che si ispirano a Darwin, traspongono il discorso darwiniano dal piano biologico al piano sociale.

l'Illuminismo

Lo stesso Illuminismo, tendenzialmente universalista con le dichiarazioni dei diritti universali, porta dentro di sé ancora degli elementi di conservazione del primato dell'Occidente. Con l'Illuminismo si fa strada la concezione dell'uomo come individuo, come singolo, dotato di diritti inalienabili, però la determinazione dei contenuti di tali diritti avviene ancora sulla base di una logica che è quella della ragione occidentale.
Credo che questa tendenza sia ancora presente nelle carte dei diritti internazionali cui facciamo normalmente riferimento, come la Carta dell'ONU del 1948, elaborata considerando prevalentemente i contenuti della ragione occidentale, come vedremo nella seconda parte.

l'etnocentrismo moderno coincide con l'americanizzazione

L'etnocentrismo, che gioca un ruolo determinante nel profondo delle coscienze, è ancora fortemente presente nelle nostre società a livello politico nella forma dell'americanizzazione, cioè del modello culturale americano percepito e mostrato come il modello vero di civiltà. Questo avviene sicuramente grazie al fatto che l'America è una grande potenza economica, tecnologica, ecc., ma anche soprattutto perché ha una forte capacità di diffusione del proprio modello attraverso gli strumenti di comunicazione. L'America ha la capacità di elaborare e sviluppare in modo pervasivo il modello di vita che si è data e che tende ad esportare ovunque, animata da una sorta di messianismo che la fa sentire come portatrice di una responsabilità per il mondo intero. Non è casuale che certe entrate in guerra siano state definite sulla base del concetto di "giustizia infinita", come faceva Bush, o che ci sia tutto quello sforzo per mostrarsi "portatori di democrazia", anche in contesti nei quali la democrazia invece va lasciata crescere con attenzione alle specificità locali, ecc.

reazioni all'etnocentrismo e relativismo culturale

Per concludere questa prima parte, bisogna dire che c'è stata una reazione anche molto forte all'etnocentrismo, rappresentata dall'etnologia, dall'antropologia culturale, dallo strutturalismo. Sono movimenti culturali i cui contributi hanno messo radicalmente in discussione l'etnocentrismo.
Questa reazione è giunta, come vedremo in seguito, all'approdo di una sorta di relativismo culturale assoluto. C'è stata cioè la tentazione di assolutizzare la differenza, e quindi di chiuderla su se stessa.
Lo strutturalismo è lo strumento di cui l'antropologia culturale si serve per analizzare le culture, concepite come strutture omogenee. Secondo le tesi dello strutturalismo, ogni cultura è un mondo a sé, non comparabile con altri mondi. Gli elementi che costituiscono una certa cultura sono comprensibili solo nei rapporti che si istituiscono all'interno di quella cultura. Ad esempio, se io estrapolo una concezione di famiglia di una cultura per confrontarla con quella di un'altra cultura, faccio un errore, perché quella concezione di famiglia è comprensibile solo al di dentro di quella precisa cultura.
In questo sforzo di valorizzazione di tutte le culture, che è il grande merito di queste scienze umane, c'è stata la tentazione di chiudere tutte le culture su se stesse, dicendo che ciascuna va rispettata come tale, in quanto non sono possibili comparazioni tra cultura e cultura, tanto meno comparazioni di valori. L'atteggiamento di fondo deve essere soltanto quello del rispetto, o della tolleranza negativa, che produce una sorta di società ad arcipelago, in cui il tutto è costituito da un insieme di isole, che, proprio perché isole, non hanno la possibilità di rapportarsi tra di loro.

disagi attuali

Vengo ora a delineare in maniera quasi telegrafica i disagi attuali, sia quelli di carattere psicologico o psicoantropologico, legati ad atteggiamenti, spesso indotti, di sospetto e di paura, sia quelli di carattere sociale, legati a fenomeni sociali esterni. L'etica della convivenza non è un'etica facile, è un'etica difficile, complessa, dura, che comporta anche sacrifici, limitazioni, capacità di ripensare la propria identità, ecc.

di carattere sociale

Tra le questioni connesse con il fenomeno della multiculturalità che suscitano problema, possiamo indicare il sovraffollamento di alcune aree geografiche o di alcune zone delle grandi metropoli, da parte di soggetti che vengono da culture altre.
I problemi oggi più ripetutamente denunciati sono quelli di ordine pubblico, connessi a possibili disordini di carattere sociale. Sono problemi che si creano laddove ci sono situazioni difficili, sacche di marginalità sociale, forme di sfruttamento della forza lavoro, favorite dalla presenza di immigrati irregolari, o anche di immigrati con permesso di soggiorno, ma che, avendo perso il lavoro, si ritrovano senza garanzie sociali.
Le difficoltà di rapporto possono crearsi anche per l'aumento della criminalità, non necessariamente dovuta agli extracomunitari. Agli immigrati è legata soprattutto la microcriminalità, come lo spaccio della droga al dettaglio, i furti, qualche scippo, ecc, mentre gli italiani prevalgono nei delitti più gravi.
C'è poi una propaganda martellante che tende ad ingigantire il negativo, ad amplificare le difficoltà derivate alla popolazione italiana dalla presenza degli immigrati. Questa pubblicità fa aumentare nell'immaginario degli italiani la consistenza del fenomeno migratorio (il 6% reale si trasforma in un 20%), percepito come un'invasione.
Gli immigrati, nonostante occupino normalmente i posti più bassi, sono percepiti, in particolare nell'attuale situazione di crisi occupazionale, come quelli che "ci rubano il lavoro", con possibile guerra tra poveri.
A volte poi ci si scontra con tradizioni che non sono liberali. La concezione prevalente del mondo islamico del rapporto tra stato e religione è poco laica, diversa pertanto da quella dei nostri paesi (anche se lo stesso mondo cattolico non è immune da ritorni di fondamentalismo). Avere una concezione per la quale c'è continuità, unità tra appartenenza religiosa e appartenenza civile e politica crea tutta una serie di problemi, per esempio in rapporto al tema della cittadinanza.
Anche il fenomeno del terrorismo ha contribuito certamente a creare tensioni, conflitti interiori, paure, in molti soggetti.

di carattere psicoantropologico

La paura di perdere la propria identità è molto diffusa tra noi, perché le nostre sono identità deboli. Quando ci si trova di fronte a soggetti che hanno una identità forte, si teme di venir prevaricati. E il mondo musulmano ha un'identità forte, mentre noi abbiamo la percezione di avere un'identità debole, di non essere capaci, a livello civile, culturale, religioso, di resistere ad un confronto, ad un confronto che sia effettivamente di scambio e non solo di dialettica negativa.
Per questo motivo trova consenso una difesa disperata dell'identità, che fa magari ricorso all'identità religiosa, usata e brandita strumentalmente, in forme peraltro puramente esteriori e destinate pertanto all'insuccesso. Ma nell'immediato la reazione della gente è positiva nei confronti di quei movimenti che agitano spauracchi rispetto alla perdita di identità, inneggiando a forme di xenofobia e razzismo.
La paura del diverso. Dal punto di vista psicologico, entrano in gioco tradizionali pregiudizi e stereotipi. Il famoso "Mamma li turchi" diventa oggi "Mamma i musulmani". Le posizioni xenofobe, razziste, fondamentaliste, ecc., esprimono atteggiamenti difensivi nei confronti del diverso, in tutte le sue sfaccettature. Il diverso viene ritenuto pericoloso, perché viene fatto coincidere con il nemico. Il diverso è il nemico che vuole distruggermi, il nemico che tende a omologarmi. In realtà siamo all'interno di un mondo in cui dominante è la nostra cultura, ma la paura (ad esempio che venga distrutta la mia identità) mi fa assumere un atteggiamento di sospetto, che genera conflitto e chiusura nei confronti dell'altro.

universalismo e particolarismo

Ci veniamo così a trovare in una situazione paradossale. Da una parte assistiamo ad un processo di unificazione del mondo sul piano strutturale, in cui siamo a tutti i livelli totalmente interdipendenti, o, per dirla con McLuhan, siamo ormai un'unica famiglia, un piccolo villaggio. E nello stesso tempo, assistiamo ad una crescita del particolarismo, ad un ritorno a forme di etnicismo chiuso, di fondamentalismo religioso, di settarismi.

per un'etica della convivenza: che fare?

Dopo aver abbozzato un'analisi complessiva della situazione del nostro paese sullo status dell'immigrazione e quindi sui rapporti tra culture, etnie e religioni diverse in questo secondo momento vorrei fissare l'attenzione sul "che fare?", tentando di individuare delle prospettive di carattere etico per la costruzione di una convivenza che sia il più possibile capace di interpretare i bisogni e le istanze delle diverse culture, dei diversi raggruppamenti etnici e delle diverse realtà anche religiose.

presupposto antropologico: una nuova concezione di alterità

Il presupposto di fondo per la costruzione di queste etica delle convivenza è di carattere antropologico. Cerco di spiegarmi.
Si tratta di passare ad una diversa concezione di alterità rispetto a quella ancora dominante nella nostra cultura. La nostra cultura occidentale, l'ha messo bene in evidenza Lévinas, è una cultura che prima si è preoccupata filosoficamente di mettere al centro della propria riflessione il tema dell'essere, il temo ontologico, il tema metafisico, poi successivamente, a partire dalla modernità, al posto dell'essere ha messo al centro l'io, il soggetto individuale.
E questa visione della realtà a partire dall'io guardava a tutto ciò che è altro dall'io, come a qualcosa non solo di esterno a sé, ma anche di estraneo a sé, e addirittura di nemico di sé. Si pensi ad esempio alla contrapposizione tra l'io e il non io in Fichte, tra l'io e il nulla, in cui il non io era in qualche modo o la negazione dell'io o per altro verso il nemico dell'io. La nostra tradizione culturale è profondamente segnata dalla concezione secondo la quale l'altro viene visto non come qualcosa che gode di una diversità irripetibile, unica, con cui occorre entrare in contatto, ma al massimo come proiezione di sé o come il nemico, come l'altro da sé concepito come l'antitesi a sé.

l'altro come punto di partenza (Lévinas)

E Lévinas elabora la sua filosofia partendo invece da un presupposto totalmente diverso, non dall'io, ma dall'altro. Dice che tutto il discorso filosofico deve anzitutto partire dalla considerazione dell'altro, dal volto dell'altro, dai volti degli altri, che sono coloro che mi interpellano e che mi consentono anche di recuperare la mia diversità, la mia alterità. Io divento ciò che sono, acquisisco cioè la mia identità specifica nella misura in cui mi confronto con la identità altra e quindi entro in un rapporto dialettico con l'altro.
Da questo partire dall'altro, come il soggetto che mi interpella incondizionatamente, secondo Lévinas, nasce l'imperativo etico. Questo partire dall'altro è una sorta di contrapposizione funzionale a mettere in evidenza i limiti della visione tradizionale che partiva dall'io.

la relazione (Ricoeur)

Personalmente, nonostante ritenga che la posizione di Lévinas sia una posizione molto significativa, sono più vicino a Ricoeur, che dice che non bisogna partire né dall'io né dall'altro, ma dalla relazione. Il costitutivo dell'umano è la relazionalità, cioè l'apertura strutturale all'altro che c'è nell'umano: io sono in quanto mi apro all'altro, che mi autocostituisce e mi consente anche di autorealizzarmi. La relazione è il luogo della verità ultima del soggetto umano che non per nulla viene definito anche come persona
Dentro a questa relazione, l'alterità è recuperata non come qualche cosa di estraneo a me, o di esterno a me, ma come qualcosa che è costitutivo della mia stessa identità: io sono in tanto in quanto c'è l'altro da me, io sono in tanto in quanto mi rapporto all'altro da me, io sono in tanto in quanto mi costituisco nell'atto in cui riconosco l'altro da me. Il riconoscimento è una cosa fondamentale nella filosofia di Ricoeur. In questa concezione c'è tutto un ricupero di valore dell'alterità, come qualcosa che è dentro di me, che appartiene a me costitutivamente.
Questa premessa filosofica, che può apparire astratta rispetto al tema della convivenza tra culture, secondo me è importante perché è proprio questo fare i conti con l'alterità che mi appartiene, che mi è costitutiva, che è il luogo della mia autorealizzazione personale, che ci aiuta a recuperare poi il contesto dentro il quale deve situarsi anche la riflessione più specifica sull'etica della convivenza.
Cercherò di sviluppare questa riflessione in quattro tempi.
Il primo tempo è dedicato alla questione della giustizia, cioè a mettere a fuoco come l'etica della convivenza ha bisogno di risolvere un nodo fondamentale che è quello della giustizia nelle relazioni oggi.
In un secondo momento vedremo come l'etica della convivenza ha bisogno, per potersi sviluppare correttamente, del ricupero di una base universalistica di carattere etico, di quella che qualcuno chiama l'etica universale, cioè di elementi fondamentali di ordine etico, quindi di ordine valoriale che possano essere riconosciuti da tutti, possano diventare il plafond su cui si costruisce la vita collettiva a livello mondiale.
In un terzo si vedrà come l'etica della convivenza ha bisogno di ridefinire in senso forte il capitolo dei diritti umani, soprattutto nell'ottica dei diritti delle culture, quindi non soltanto nell'ottica dei diritti soggettivi, individuali di libertà, non soltanto nell'ottica dei diritti sociali, ma nell'ottica anche dei diritti delle culture. Mi pare l'ottica sulla quale occorre incamminarsi soprattutto oggi.
Come sostiene Alain Touraine nel suo interessante libro La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore), allo stesso modo in cui è stata nel passato esplosiva la questione dei diritti sociali, perché potessero veramente affermarsi per tutti i diritti di libertà, con la nascita dello stato sociale, così oggi è esplosiva la questione dei diritti culturali.
Da ultimo prenderemo in considerazione la necessità di atteggiamenti soggettivi nuovi. Non è sufficiente per elaborare un'etica della convivenza tra culture diverse far riferimento soltanto a tematiche di fondo di carattere strutturale, come quelle della giustizia, o di carattere sociale, come quella dei diritti umani, ma occorre anche un ripensamento degli atteggiamenti soggettivi, del modo di rapportarsi alle altre culture e religioni da parte dei singoli, degli stili di vita da assumere.

una questione di giustizia

L'etica della convivenza è in primo luogo una questione di giustizia, come molti contributi hanno messo in rilievo nell'affrontare la tematica della immigrazione.
Il conflitto che oggi si presenta nell'affrontare le tematiche dell'immigrazione è in sostanza il conflitto tra due diritti. Da un lato c'è il diritto dell'individuo a migrare dal proprio paese e di entrare in un altro. E' un diritto di libertà, come diritto di autodeterminazione, massimamente affermato dalle teorie liberali, che sono favorevoli alle frontiere aperte non solo per i beni ma anche per le persone. Dall'altro c'è il diritto dello stato di limitare la migrazione. Il conflitto nasce tra questo doppio diritto. Il diritto dello Stato a limitare la migrazione dipende dai valori da salvaguardare come la sicurezza, l'identità culturale, religiosa dello stato stesso.
Le teorie comunitariste insistono molto sul concetto di bene comune, contrariamente alle teorie liberali e paradossalmente sono più chiuse su questi temi, perché preoccupate soprattutto della conservazione della comunità così com'è nella sua identità originaria. Tutte le teorie comunitariste si muovono in direzione della preservazione del bene comune, come il bene della comunità di appartenenza, che deve anzitutto essere garantito, salvaguardato e così via.
In genere i vari studiosi che affrontano questo tematica sia dal punto di vista giuridico sia dal punto di vista etico tendono al compromesso tra libera circolazione e qualche forma di restrizione. La tesi più frequente nel dibattito oggi è quella che sostiene che innanzitutto si deve affermare la libera circolazione però con qualche restrizione. Questa tesi intermedia viene poi variamente interpretata a seconda delle differenze che esistono per esempio nel concepire lo stato e le funzioni che gli vengono attribuite. Un conto se si ha una concezione assolutistica dello stato o una concezione aperta con poteri ridotti, un conto se si attribuiscono allo stato forti funzioni di regolazione oppure funzioni più limitate, come nel caso dello stato minimo, per dare possibilità maggiori di espressione alla società civile nel suo insieme.
La soluzione del problema va cercata nell'etica, che rinvia alla questione della giustizia.
L'approccio etico alla questione, si fa osservare da parte di molti, deve tener conto di una serie di dati di fatto.

il bene dell'intera famiglia umana

Primo dato di fatto è lo stato di ingiustizia nel quale viviamo, cioè di diseguaglianza esistente a livello mondiale. Noi siamo di fronte a una situazione di forte squilibrio, di grosso divario tra popoli ricchi e popoli poveri, tra Nord e Sud del mondo, tra popoli che godono di un accresciuto benessere e una estesa gamma di popoli che vivono in condizioni di sottosviluppo o di popoli che stanno appena uscendo adesso dallo stato di sottosviluppo, ma con forti sperequazioni interne.
Cioè c'è una situazione di fatto di sperequazione a livello mondiale, che va tenuta in considerazione come dato di partenza, perché evidentemente il fatto che vengano da noi intere popolazioni del sud del mondo attraverso le migrazioni è dovuto al grave squilibrio esistente nella possibilità di fruire di beni di sussistenza e di opportunità.
Nella società globalizzata, la giustizia e il bene comune non possono essere considerati solo rispetto ad alcune nazioni o alcuni popoli del mondo sviluppato. L'interdipendenza dovuta al processo di globalizzazione in atto fa sì che giustizia e bene comune vadano valutati in una prospettiva universalistica e non più unicamente nazionale o nazionalistica, o anche semplicemente occidentalistica o europea. Non si può pensare di affermare in termini astratti l'uguaglianza tra gli uomini se non si creano le condizioni perché questa uguaglianza di fatto si eserciti dando a ciascun essere umano che vive sulla faccia della terra una possibilità anzitutto di sopravvivere, e poi di poter davvero salvaguardare la propria dignità ed esercitare a tutti gli effetti il proprio diritto di cittadinanza.
Questo è il senso vero della giustizia in un contesto universalistico come l'attuale.
Come già affermava la Populorum Progressio di Paolo VI in anni ormai lontani, quando il processo di globalizzazione almeno per le caratteristiche che ha oggi era appena avviato, ogni persona ha diritto a un minimo di risorse che le consentano di vivere e di esprimere se stessa perché non c'è soltanto un problema di sussistenza ma un problema di piena espressione della propria identità e della propria dignità.
C'è quindi un primo dovere di giustizia, che non può essere accantonato, né bypassato, e che dovrebbe scuotere la coscienza di tutti. Già ci ricordava la Populorum Progressio che dovremmo valutare il nostro superfluo sulla base dei bisogni dell'intera famiglia umana (quante cose in questa prospettiva diventano superflue per noi occidentali). Sempre secondo questa prospettiva allargata all'intera famiglia umana, e quindi in ordine alla creazione di un'etica della convivenza, gli immigrati non sono persone che, come dice qualcuno, vengono qui a portarci via qualcosa, ma sono persone che hanno dei diritti fondamentali, perché la terra è di tutti, perché la distribuzione della ricchezza deve avvenire in termini di soddisfazione dei bisogni di tutti.

un'etica universale

La costruzione di un'etica della convivenza garantisce la possibilità di un interscambio tra culture diverse. L'interscambio è il vero modo di realizzazione della convivenza, perché suppone il riconoscimento reciproco, e quindi la possibilità che culture diverse possano reciprocamente arricchirsi nel confronto e nell'incontro.

integrazione e interazione

Non si tratta soltanto di integrazione, termine ampiamente usato, ma anche di interazione. Integrazione, in un contesto nel quale una cultura come la nostra è la cultura dominante, significa assorbimento degli altri all'interno della nostra cultura, impossibilità per gli altri di poter manifestare, anche a livello pubblico, le proprie differenze culturali. L'integrazione è necessaria, nel senso che occorre favorire un processo attraverso il quale chi viene da fuori accetti le regole che esistono sul territorio, accetti la costituzione... Nello stesso tempo è necessario far interagire le culture di coloro che vengono dall'esterno con la nostra, creare le condizioni perché queste culture possano conservare la loro identità e possano diventare elemento di interscambio con la cultura già consolidata sul territorio per arrivare ad una interdipendenza, ad un interscambio, ad un reciproco arricchimento.
Integrazione e interazione vanno messe in rapporto dialettico positivo per riuscire a creare le condizioni per cui una cultura cresce attraverso l'apporto di più culture, diventi una multicultura, cioè un qualcosa che sia espressione anche di culture diverse, che reciprocamente interagendo acquisiscono l'una elementi positivi dall'altra senza per questo perdere la loro identità, senza per questo venir meno alla loro identità.

qualcosa di comune

La possibilità che questo avvenga, cioè che si attivi questo confronto positivo tra etnie e culture diverse, è legata al riconoscimento di qualcosa di comune, al riconoscimento di un punto di convergenza attorno a cui le diverse culture si incontrano.
Occorre anzitutto mettere in evidenza i limiti dell'antropologia culturale, dello strutturalismo e di tutte quelle discipline, anche filosofiche, che hanno giustamente messo radicalmente sotto processo l'etnocentrismo ma sono cadute nel relativismo assoluto. Come c'è stata in passato un'assolutizzazione del relativo, cioè una cultura relativa a un contesto, quella occidentale, è stata in qualche modo definita la cultura tout court, quindi come la cultura in assoluto, così c'è il rischio opposto, quello della relativizzazione dell'assoluto, cioè di ritenere tutto relativo e quindi di non avere mai un punto di riferimento che renda possibile un confronto, un dialogo. Se ogni cultura è un piccolo mondo a sé, chiuso su se stesso, se non c'è una possibilità di comunicazione e di confronto perché obiettivamente gli elementi di quella cultura sono propri soltanto di quella cultura e non sono paragonabili, confrontabili con quelli di altre culture, evidentemente si assiste a una società ad arcipelago, dove al massimo si arriva a una forma di tolleranza tra tante isole che però rimangono isole, una forma di apartheid, insomma, tra tante isole che vengono riconosciute anche ufficialmente dal punto di vista giuridico come aventi al loro interno dei diritti ma senza possibilità che chi abita quell'isola possa uscire di lì e mettersi a confronto con altri che abitano altre isole e viceversa.
Perché le culture si confrontino, afferma Touraine, è necessario che si passi dalla multiculturalità alla interculturalità con l'interazione tra le culture, occorre riconoscere la presenza in ogni cultura di elementi universali, o elementi di passaggio da una cultura all'altra. La possibilità stessa della relazione interculturale è legata al fatto che ci riconosciamo tutti in qualche cosa di comune pur nella diversità.

oltre le culture l'humanitas

Altri, partendo da prospettive diverse, evidenziano la stessa necessità. Habermas fa ricorso al problematico concetto di natura. Bisogna ritornare, sostiene, alla natura al di là della cultura. Cioè abbiamo troppo assolutizzato le culture, dimenticandoci che c'è al di là delle differenze culturali esiste una comune natura.
È un concetto equivoco per molti aspetti quello di natura, in particolare perché nella tradizione cristiana occidentale è diventato un concetto statico, fissista, tendenzialmente identificato al dato biologico. E' vero che nella tradizione cristiana ci sono state anche altre voci, come quella di Tommaso d'Aquino per il quale la natura umana è natura come razionalità, e quindi non mero dato biologico. La visione biologicista della natura è diventata però largamente prevalente. Personalmente, per evitare possibili equivocità, preferisco parlare di humanitas o di anthropos. E' importante riconoscere la necessità che al di là delle culture c'è l'anthropos, c'è l'uomo. L'anthropos, l'uomo è calato dentro le culture, ma in qualche misura le trascende, sta oltre. C'è cioè una realtà che va oltre le culture e che rappresenta, proprio perché va oltre, il punto di possibile convergenza tra le diverse culture.
Su questa base, e quindi a partire dal nucleo originario dell'uomo rinvenibile nelle varie culture, è possibile pervenire ad un minimo di valori comuni, ad un'etica universale.
Diversi studiosi, in questi anni, hanno cercato di identificare, in termini prevalentemente formali, questi valori comuni.

la via del confronto

Walzer ripetutamente ha affermato la possibilità di individuare un nucleo minimale di moralità universale, quando ci si avvicina, dice, alla sostanza più profonda dell'umano.
Habermas e Apel indicano come metodo per il reperimento di questo nucleo, di questa sostanza, il discorso, la comunicazione tra le diverse culture. La sostanza non è possibile attingerla dall'alto, deduttivamente, come pensava di poter fare Kant, che, vivendo all'interno di una cultura omogenea, quella occidentale, riteneva che ci fosse una sorta di natura umana universale, dalla quale far discendere un'etica universale fondata sulla ragione. Oggi siamo consapevoli che non c'è più "la" ragione, ma ci sono "le" ragioni. Per far emergere un minimo di ragione comune, il denominatore comune di ragione, su cui poi costruire un'etica universale, il processo è quello comunicativo, è quello di mettere a confronto le diverse ragioni.
Rawls parla di procedimento per intersezione delle diverse ragioni per raggiungere una ragione pubblica comune, che diventa anche qui il terreno a partire dal quale è possibile poi la comunicazione, lo scambio, l'incontro, e così via.
Küng, in campo cattolico, si è molto impegnato nella ricerca di un'etica universale, i cui contenuti sono riconducibili a quattro precetti del decalogo, a quattro grandi valori universali: la vita, la dignità personale, i beni essenziali per ciascuno e la verità di rapporti. Küng si muove soprattutto sul terreno dell'apporto delle religioni alla costruzione di un'etica universale ma non esita a dire che questi valori, che di per sé sono stati elaborati soprattutto dalle religioni, coincidono con valori che sono anche umani, che possono prescindere da un riferimento immediato al dato religioso.

i diritti culturali

Sulla questione dei diritti culturali le riflessioni più interessanti mi sembrano quelle di Touraine, il quale afferma con forza la fine del sociale in funzione del culturale, come dice anche il titolo della sua opera La globalizzazione e la fine del sociale. Touraine sostiene, un po' provocatoriamente, che il sociale, nelle sue forme tradizionali, è finito, e che l'attuale crisi della società fa emergere da una parte l'individuo e dall'altra le culture. Occorre ripartire dall'individuo, dal singolo, sostiene Touraine, restituendogli però la capacità di apertura civile, quindi non chiudendo il singolo dentro a se stesso, in una logica puramente individualistica. Allo stesso tempo però è necessario riconoscere i diritti di appartenenza alle culture da cui si proviene, che ovviamente, essendo ormai la società multiculturale, vanno riconosciuti a tutte le culture che sono sul territorio. Per lo studioso diritti politici e diritti culturali sono cose profondamente diverse, perché mentre i diritti politici sono diritti universali, i diritti delle culture sono diritti particolari, di gruppi, di realtà etniche specifiche. Queste identità etniche culturali religiose differenziate devono essere riconosciute come tali, cioè per quelle differenze, come soggettività sociali portatrici di quelle differenze. L'interesse per la riflessione di Touraine deriva anche dal fatto che si muove nel contesto francese, poco attento a questa dimensione. La cittadinanza si realizza creando spazi sempre più ampi di accoglienza delle differenze perché possano esprimersi e non negando le differenze. La vera cittadinanza è quella che ingloba le differenze, che non prescinde dalle differenze, che non si muove in una logica di soppressione o di accantonamento delle differenze (come quando si afferma: queste sono le nostre leggi e voi dovete sottostare).

una società accogliente

La vera società del futuro è quella che riesce a combinare da una parte il rispetto dei diritti universali, dei diritti politici (nel nostro paese la costituzione), dall'altra parte il rispetto della società plurale, cioè del pluralismo delle culture presenti all'interno della società. Quanto più c'è la disponibilità ad inserire nella cittadinanza le culture, tanto più, dice Touraine, si crea una società accogliente, una società capace di aprirsi alle differenze culturali, religiose, ecc., e nello stesso tempo capace anche di essere governata da presupposti comuni, che non sono tuttavia imposti aprioristicamente dall'alto a prescindere dalle diversità, ma rielaborati a partire da queste diversità. La vera laicità, ad esempio, non è quella che riduce tutto alla cittadinanza e al repubblicanesimo. Touraine è molto duro nei confronti della legge del velo francese, perché non riconosce la possibilità ai singoli di dare espressione all'identità collettiva che ha e deve avere rilevanza pubblica. L'interazione tra culture diverse comporta la trasformazione della stessa cittadinanza e del repubblicanesimo.

una doppia rivisitazione delle carte dei diritti umani

Se si vuole pervenire ad una forte affermazione dei diritti delle culture è necessaria una rivisitazione delle carte dei diritti umani, a partire da quella dell'ONU, e delle costituzioni. La nostra costituzione, per il momento storico in cui è nata, non presta alcuna attenzione ai problemi dell'immigrazione.
Da questo punto di vista alcune integrazioni alla costituzione sono necessarie, anche nella prima parte, sia sui diritti degli immigrati che sulla questione ecologica.
Si rende necessaria una doppia rivisitazione delle carte dei diritti umani e delle costituzioni. Anzitutto è necessaria una rivisitazione a livello di contenuti, come conseguenza di un confronto culturale più allargato. Se è vero che la categoria dei diritti umani è una categoria formalmente universale, i contenuti di questa categoria non sono ancora del tutto universali, anche nelle carte che noi abbiamo. Le carte dei diritti sono nate in un momento di presenza massiccia dei paesi occidentali. Nel ridefinire i contenuti è richiesto un maggior confronto tra le diverse culture oggi presenti al mondo, oltre la predominante cultura occidentale. Questo confronto, seppure necessario, è comunque molto difficile, anche perché ci sono all'interno di alcune culture delle pratiche o dei comportamenti che noi giustamente riteniamo lesivi della dignità della persona umana, come l'infibulazione, la tortura, o per certi versi la stessa poligamia.
La seconda rivisitazione è sul terreno della fondazione dei diritti. La fondazione che noi abbiamo dei diritti risale all'Illuminismo, quindi alla tradizione liberale, che è una tradizione individualistica. Il grande merito dell'occidente è quello di aver scoperto l'individuo, in qualche misura, anche nella sua unicità, nella sua irripetibilità. C'è oggi l'esigenza di andare oltre la tradizione liberale, che ha concepito l'individuo come scorporato dalle sue appartenenze culturali, etniche, religiose, ecc. Tutta la tematica dei diritti umani, così come è affrontata nelle varie carte, allude a un individuo concepito un po' astrattamente, al di fuori delle relazioni che sono costitutive del suo stesso essere, e cioè le appartenenze religiose, culturali, etniche ecc.

una prospettiva relazionale

L'emergenza delle appartenenze a livello collettivo esige sempre più che si superi la concezione individualistica, che ci sia cioè un riconoscimento di fatto di queste appartenenze anche attraverso una loro esplicitazione pubblica. I diritti delle culture sono diritti di soggettività sociali che sono legate ad appartenenze soggettive individuali che esigono un esplicito riconoscimento pubblico. Una democrazia plurale, non monolitica, che dobbiamo costruire, ha in sé l'esigenza della espressione pubblica delle varie culture. Questa esigenza deve diventare un diritto fondamentale delle culture, e quindi deve diventare un modo in cui le culture riescono ad essere presenti all'interno di una società di uno stato laico. Mentre credo che sia giusto che il crocifisso vada tolto dai locali pubblici, non ritengo corretta la legge francese che non permette ai singoli e alle soggettività sociali di manifestare la propria identità. Credo in una società plurale, in cui ci sia spazio per tutte le diversità culturali sia soggettive sia collettive, in cui quindi si riconoscano i diritti delle culture.
Quanto detto esige l'assunzione di una prospettiva non più individualista, ma relazionale, una prospettiva personalista, che si estenda non solo al rapporto tra soggetti (relazione io-tu) ma anche al rapporto con le strutture. Per Ricoeur il vero personalismo si sviluppa a tre livelli: l'io, la relazione io-tu, la relazione io-altro. L'altro viene definito da Ricoeur "il terzo" tra virgolette, che è colui con cui io non entrerò mai in contatto diretto, non lo conoscerò mai, ma che non è l'anonimo, perché ha un nome preciso, ha un'identità precisa, ha un volto preciso, e verso il quale io devo esercitare la mia responsabilità attraverso la creazione di strutture giuste, attraverso l'impegno politico.

atteggiamenti soggettivi: il riconoscimento

Gli atteggiamenti soggettivi che solitamente vengono richiamati quando si parla di un'etica della convivenza sono l'ascolto, l'accoglienza, l'ospitalità, la gratuità, e così via. Mi limito a porre l'accento sul riconoscimento, come atteggiamento riassuntivo di tutti gli altri. Il riconoscimento dell'altro, del suo volto, come dice giustamente Lévinas, fonda una società riconoscente. Il tema del riconoscimento, nella più recente cultura, ha avuto un notevole sviluppo sul piano filosofico (Taylor, Habermas...). Il riconoscimento diventa il fattore regolativo dei rapporti: riconoscersi e riconoscere l'altro e riconoscersi nell'altro e con l'altro e per l'altro, significa regolare i rapporti sulla base di un'autentica relazionalità. Siamo nel tema della reciprocità.

riconoscere l'altro come dono per noi

Per Lévinas il riconoscimento del volto dell'altro è il fondamento dell'imperatività morale, come imperatività assoluta. Lévinas si muove nell'ottica della reciprocità ma va oltre. Infatti l'altro mi interpella in maniera incondizionata, a prescindere da quello che lui farà verso di me. La logica della reciprocità è superata con la logica del dono. La logica della reciprocità non è totalmente negata, dato che rimane come base di costruzione dei rapporti, ma la logica vera diventa poi la logica del dono, del dono fino a riconoscere l'altro come dono per noi, come colui che si offre in dono a noi, come espressione di qualcosa di assolutamente unico e irripetibile in cui confrontandoci ci arricchiamo.
Ci si apre qui alla logica cristiana della carità, che è dono, gratuità, oltre la logica della reciprocità, o anche del dono reciproco. Derrida sostiene che l'espressione scambio di doni è un ossimoro, perché dove c'è scambio non ci può essere dono, ma solo logica economica. Il dono è per definizione espressione di gratuità. Il dono non reclama risposta, nel senso che se io dono con l'intenzione di ricevere fuoriesco dalla logica del dono, per questo Derrida dice che il dono è un paradosso perché c'è sempre sostanzialmente in noi anche l'attesa della risposta, della contropartita...
L'assunzione dell'atteggiamento di riconoscimento dell'altro ha come condizioni la capacità di ascolto e la relativizzazione della propria verità.

ascolto

Anzitutto l'ascolto va inteso in senso forte. Ascoltare vuol dire essere ricettivi in profondità, vuol dire ricevere il messaggio come qualcosa di nuovo appartenente all'altro, rielaborarlo a partire dalla mia identità e rinviarlo all'altro. L'ascolto implica in altri termini un processo di forte interiorizzazione, implica una capacità di attivazione di alcuni atteggiamenti di fondo che sono per esempio la povertà, intesa come limite che riconosco a me stesso e possibilità che l'altro in qualche modo mi aiuti a superare il limite, implica l'umiltà, implica il silenzio come capacità di elaborazione, di interpretazione, ecc.

relativizzazione della propria verità

Una seconda condizione per il riconoscimento è la relativizzazione della propria verità cioè l'essere consapevoli che le verità, da cui siamo posseduti, sono sempre verità parziali, limitate, relative. Questo vale per tutte le culture ma vale anche per tutte le religioni. Il confronto reciproco diventa arricchente quando io so che l'altro ha qualcosa da darmi, quando non presumo di avere già tutto. Se ritengo di sapere già tutto non mi metto in ascolto e tanto meno ritengo arricchente quello che l'altro mi offre. Se assolutizzo la mia verità, se concepisco la verità come possesso, non come essere posseduto, in maniera sempre parziale, da una verità che è sempre più grande di me e quindi mi trascende, evidentemente non mi metto al confronto con l'altro in termini costruttivi, positivi.
Un vero atteggiamento ecumenico non consiste nel chiedere o nell'invitare gli altri ad aderire alla propria visione della verità, ma nel ritenersi tutti in cammino verso una verità più grande. Nel camminare insieme verso una verità più grande probabilmente ci si potrà incontrare lungo la strada, sia perché quella verità è sempre più grande e ci sta sempre davanti, sia perché segna una direzione.
Sono alcune condizioni, tra le molte, che rendono possibile l'avvio e la crescita di un dialogo tra culture diverse, dando luogo a quello che con un termine un po' abusato si chiama l'etica della condivisione o anche l'etica della convivialità tra le culture, grazie alla quale le diversità culturali anziché essere solo oggetto di conflitto, sono soprattutto oggetto di reciproco arricchimento.

un breve riassunto

La presenza di culture e di religioni diverse non è un fenomeno inedito per il nostro paese, ma oggi la multiculturalità si presenta con caratteristiche nuove dovute anzitutto alla globalizzazione, al processo di unificazione del mondo non solo sul piano economico, ma anche su quello dell'informazione, che ci permette in tempo reale di avere informazioni e di metterci in contatto con chiunque. Inoltre l'attuale fenomeno migratorio, che non riguarda singoli individui ma intere collettività, avviene con crescente rapidità ed è destinato a durare nel tempo.
Questa presenza massiccia di culture ed etnie diverse sul nostro territorio pone problemi di vario genere e provoca istintivi atteggiamenti di rifiuto dell'altro che hanno però radici profonde.
Anzitutto persiste una mentalità etnocentrica che ci fa ritenere la nostra cultura, il nostro modo di pensare e di vivere, superiore a quella degli altri. E' un modo di pensare fortemente radicato in Occidente che risale alla tradizione greco-romana ma che poi coinvolge anche il cristianesimo quando si identifica con la civiltà occidentale, ritenuta la vera civiltà. Questa visione etnocentrica è ancora oggi fortemente presente, ad esempio nel ritenere il modello culturale americano come il modello vero di civiltà. Il presentarsi, anche con la forza, quali "portatori di democrazia" rinvia a questa mentalità.
Le difficoltà alla convivenza nascono anche da disagi sociali, come il sovraffollamento di alcune aree, i problemi di ordine pubblico e di criminalità, la presenza di persone e gruppi appartenenti a tradizioni che non sono liberali, che non distinguono tra appartenenza religiosa e appartenenza civile e politica.
Ci sono ragioni poi più profonde alla radice dei disagi attuali e sono di ordine pscicoantropologico, legate ad atteggiamenti di sospetto e di paura, spesso indotti. Anzitutto c'è la paura di perdere la propria identità, evidentemente debole, di fronte a soggetti che si presentano con identità forti. Persistono inoltre pregiudizi e stereotipi del passato, in particolare nei confronti dei musulmani.
Di fronte al processo di unificazione del mondo, di universalismo, di maggiore interdipendenza, c'è una crescita del particolarismo sul piano delle culture, delle tradizioni religiose, del fondamentalismo.
Cosa fare perché la convivenza tra persone e gruppi appartenenti a culture diverse sia positiva e costituisca una possibilità di arricchimento reciproco? Come elaborare un'etica della convivenza? La necessaria premessa perché questo avvenga è l'acquisizione di una nuova concezione di alterità: l'altro cioè non più visto come estraneo o addirittura nemico, ma come ciò con cui sono necessariamente in relazione e che costituisce la mia identità.
1. L'etica della convivenza è anzitutto una questione di giustizia. Si deve tener conto della disuguaglianza esistente a livello mondiale, al grosso squilibrio tra popoli ricchi e popoli poveri. La giustizia e il bene comune non vanno circoscritti alla propria nazione o al mondo occidentale ma vanno valutati in una prospettiva universalistica. L'uguaglianza tra gli uomini non va affermata solo astrattamente ma creando le condizioni perché questa uguaglianza possa essere esercitata. In questa prospettiva i migranti non sono persone che vengono a portarci via qualcosa: la terra e i suoi beni sono destinati a tutti.
2. La costruzione di un'etica della convivenza, con la possibilità di interscambio tra diverse culture (andando oltre il concetto di integrazione, quasi sinonimo di assorbimento), presuppone il riconoscimento di qualcosa di comune tra le varie culture, al di là delle differenze culturali. Il rinvenimento di questo nucleo comune può avvenire attraverso il dialogo, il confronto, il discorso, con un processo dal basso e non deduttivamente dall'alto (Habermas). Altri (Küng) ricercano un'etica universale muovendo dall'apporto delle religioni e i cui contenuti sono quattro precetti del decalogo (la vita, la dignità personale, i beni essenziali per ciascuno, la verità).
3. Oltre i diritti politici, che sono universali, occorre sempre più riconoscere i diritti culturali, propri di un gruppo particolare. La cittadinanza si realizza creando spazi sempre più ampi alle differenze. La vera società del futuro è quella che riesce a combinare i diritti politici universali e il pluralismo delle culture.
4. La costruzione di un'etica comune comporta anche l'assunzione di alcuni atteggiamenti soggettivi, riassumibili nel riconoscimento dell'altro, del suo volto. Il riconoscimento del volto dell'altro, il riconoscersi nell'altro, per l'altro e con l'altro, fonda una società riconoscente (Lévinas), una autentica relazionalità. Si va oltre la pura reciprocità, e ci si muove nella logica del dono. L'altro è riconosciuto come dono per noi, come espressione di qualcosa di assolutamente unico e irripetibile e nel confronto con il quale ci arricchiamo. E' la logica cristiana della carità e della gratuità.
La possibilità di attuare il riconoscimento risiede nella capacità di ascolto e di relativizzazione della propria verità. Essere consapevole che le verità da cui siamo posseduti sono sempre parziali mi apre all'accoglienza della verità dell'altro. E' anche il cammino del vero ecumenismo, l'essere tutti in cammino verso una verità più grande.

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