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Trasmettere la fede: lavanda dei piedi e frazione del pane

Per un cristianesimo vitale e liberante

sintesi della relazione di Ernesto Borghi
Verbania Pallanza, 28 febbraio 2009

1. premessa

La Bibbia in genere e il Nuovo Testamento propongono, da sempre, la fondamentale interdipendenza tra culto e vita extraliturgica come un aspetto essenziale dell'esistenza di chi tenti di essere credente nel Dio di Gesù Cristo.
Questo articolo intende esaminare tale argomento, secondo una prospettiva anzitutto esegetica ed ermeneutica, dalla Bibbia alla vita e cultura attuali, avendo quale oggetto privilegiato i testi relativi all'Ultima Cena.

  • In primo luogo considererò da vicino i brani neo-testamentari più direttamente riferibili al tema, allo scopo di offrire alcuni elementi che facciano comprendere il valore del rapporto tra rito e vita e, in particolare, della dimensione cultuale-eucaristica per l'esistenza dei cristiani del I secolo d.C.
  • In secondo luogo cercherò di evidenziare almeno quelli che mi paiono i principali aspetti teologici e antropologici di tali testi ancora significativi per la vita di esseri umani contemporanei, al di là di distinzioni e separazioni tra il culto e la vita quotidiana che hanno avuto una grande fortuna nei secoli, ma necessitano di essere superate, se si vuole realmente tentare di pensare e vivere il cristianesimo a partire dalle Scritture bibliche.

2. Le basi neo-testamentarie del discorso

Per poter cogliere profondamente il valore teologico ed antropologico radicale dell'Ultima Cena e della dimensione eucaristico-sacramentale che ne discende, mi pare indispensabile partire dai fondamenti biblici del discorso eucaristico.

2.1. I testi biblici: dati introduttivi

I passi neo-testamentari relativi sono suddivisibili in tre categorie, in relazione alla loro diretta relazione con l'evento dell'Ultima Cena di Gesù insieme ai suoi discepoli:

  • le rievocazioni dei momenti reputati fondamentali di questo avvenimento, quindi i racconti evangelici (cfr. Mc 14,22-25 - Mt 26,26-29 - Lc 22,14-20) e la narrazione paolina in 1Cor 11,23b-26;
  • a stretto contatto, anzitutto di sostanza esistenziale, sia teologica che antropologica, occorre considerare Lc 24,13-35 (in particolare i vv. 31-32) e Gv 6,35-59 (in particolare i vv. 51-58);
  • di interesse eucaristico risultano anche, sia pure in forma "complementare", altri passi neo-testamentari, e segnatamente, 1Cor 10,1-4.14-22 e At 2,42.46-47 e, in forma diversa, Gv 13,1-20.31-35.

Nell'economia di questo saggio potrò occuparmi, come ho già detto, soltanto di cinque passi, quattro dei quali più direttamente fondativi circa il tema in esame.

2.2. Un testo "propedeutico": la lavanda dei piedi (Gv 13,1-20)

(a) Il contesto

L'ultima Pasqua trascorsa da Gesù tra gli esseri umani (Gv 11,55-12,50) delinea la fine della fase istruttoria del conflitto con i giudei: l'irrigidimento delle autorità appare in termini definitivi, ancorché non vi sia l'unanimità in proposito (vv. 41-43), come anche ultimativamente chiaro appare il senso della presenza gesuana nel mondo: essere l'interprete unico e decisivo di Dio che intende salvare l'umanità dalla morte eterna.
Così si spiega il senso di 12,44-50: «44Gesù allora gridò a gran voce: "Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; 45chi vede me, vede colui che mi ha mandato. 46Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. 47Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. 48Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho annunziato lo condannerà nell'ultimo giorno. 49Perché io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare. 50E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me"».
Ecco un brevissimo discorso di Gesù, che è, sotto il profilo spazio-temporale, al di fuori del contesto testuale in cui è inserito, ma è dotato della concisione sintetica delle cose definitive, riproponendo il mistero che salva il mondo: «un ultimo pressante invito - personale di Gesù - alla fede in Lui».
Le parole di Gesù assumono un importanza ancora crescente nei capitoli 13-17, che vengono aperti dalla pericope che ci accingiamo a leggere. Questa sezione, insieme a quella successiva costituita dai racconti della passione, morte e risurrezione di Gesù, è denominata anche il libro dell'ora di Gesù: infatti questo tema, già annunciato (cfr. 2,4; 12,23) «costituisce il passaggio di Gesù da questo mondo al Padre, una attestazione di amore senza limiti che sfocia nell'entrata di Cristo nella Gloria».
E quello che Gesù afferma a partire dal cap. 13 non è letterariamente atipico: sia la Bibbia (cfr. Gen 49; Dt 33,1-29; At 20,17-38) che la letteratura apocrifa veterotestamentaria (cfr. i Testamenti dei Dodici Patriarchi) annoverano esempi significativi del cosiddetto discorso testamentario, il quale seguiva sovente questo andamento: colui che sta per morire riunisce intorno a sé i figli e le persone che gli stanno più a cuore e propone loro il suo insegnamento definitivo, riassumendo l'essenziale di quello che egli desidera lasciare loro: «egli presenta la propria vita e la propria persona come un esempio e predice il destino futuro del suo popolo. Questa parte è la più originale in Giovanni, quella relativamente alla quale non vi sono paralleli sinottici».
Questa considerazione di ordine letterario comparatistico non va disgiunta da un altro livello di riflessione, di carattere compositivo e pastorale, quello dell'evangelista. Egli propone questo discorso come un'affermazione del «Cristo esaltato alla gloria che consola la comunità oppressa, attraverso il suo Spirito».
Tutto ciò non fa altro che dar conto della complessa ricchezza con cui si deve misurare il lettore di oggi, che, valutando e discernendo la contemporaneità di Gesù e la contemporaneità della comunità cristiana giovannea, deve trovare, con passione ed acume, la propria collocazione ermeneutica più rispettosa ed adeguata.

(b) Sviluppo narrativo di Gv 13,1-20

L'articolazione del brano che pare più congrua in base allo svolgimento del testo è la seguente: v. 1; 2-11; 12-20.

L'affermazione programmatica (v. 1)

1Prima della festa di Pasqua Gesù, essendo consapevole che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.

Il vangelo secondo Giovanni comincia con l'affermazione che la presenza del Verbo divino sin dall'inizio di tutto è stata una condizione imprescindibile perché tutto potesse esistere (cfr. 1,2). Con un'analoga rilevanza programmatica l'avvio del c. 13 vede Gesù, il Verbo di Dio incarnato, associato alle due circostanze strutturali del suo essere: il rapporto con suo Padre e l'amore per gli esseri umani. Il testo precisa anzitutto i termini temporali del discorso in atto: da decenni, nel bacino del Mediterraneo, tanti esseri umani sanno che la storia dell'attenzione di Dio verso il Creato ha avuto il suo culmine negli eventi di passione, morte e risurrezione del Figlio di Dio: le versioni sinottiche e altri testi evangelici non canonici lo hanno variamente indicato. Gv lo registra partendo dalle radici:

  • la coscienza della sua ragion d'essere, cioè la pienezza della relazione con il Padre, di cui egli ha ripetutamente parlato nei dodici capitoli precedenti, sottolineando come sia proprio l'amore, variamente articolato e manifestato, la caratteristica dominante di questo legame che è un rapporto di identità;
  • ricongiungersi al Padre è successivo al fatto che l'amore esplicitamente dimostrato da Gesù per gli esseri umani che la storia ha messo in relazione stretta con lui giunga sino al suo compimento massimo: il pastore buono è definitivamente se stesso qualora ami sino all'ultimo persone che vivono nella normalità della condizione comune e che sono sue perché quella logica d'amore hanno sperimentato a loro favore e sono invitate a vivere verso gli altri: «i suoi non lo accolsero (1,11). Gesù tuttavia ora ha degli altri che chiama "i suoi": gli uomini che ha condotto fuori dal recinto dell'istituzione giudaica (10,3.4; cfr. 15,19; 17,6.14.16). "Suoi" saranno in ogni tempo coloro che faranno il passaggio che questi fecero», nella consapevolezza che «Gesù si consegna per tutti, ma non tutti vengono a lui: l'amore pienamente realizzato esiste solo tra esseri che si donano reciprocamente».

La dinamica di questo v. 1 è del tutto chiara: l'amore che non ha fine, non si smentisce e non ha misura costituisce l'aspetto qualificante del rapporto decisivo della vita, quello in Dio e con Dio.

La teoria si fa prassi (vv. 2-11)

2Mentre stavano cenando, poiché già il diavolo si era gettato nel cuore affinché Giuda, figlio di Simone Iscariota, lo tradisse, 3Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio si accinge a ritornare, 4si alza da tavola, depone le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinge attorno alla vita. 5Poi versa dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto. 6Arriva dunque da Simon Pietro. Questi gli dice: "Signore, tu lavi i miei piedi?". 7Rispose Gesù: "Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo questi eventi". 8Replica Pietro: "Non laverai mai i miei piedi!". Gli rispose Gesù: "Se non ti laverò, non avrai parte con me". 9Gli dice Simon Pietro: "Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e la testa!". 10Soggiunge Gesù: "Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto quanto puro; e voi siete puri, ma non tutti". 11Sapeva infatti chi lo stava tradendo; per questo disse: "Non tutti siete puri".
La realizzazione di questo sentimento-guida è immediata. Il testo presenta subito gli elementi circostanziali che fanno da sfondo/ragione alla scelta di Gesù:

  • la familiarità e distensione continuativa del pasto più importante della giornata giudaica;
  • l'agire del male, dal passato al presente, nel cuore dell'uomo responsabile del tradimento;
  • la coscienza che Gesù ha del rapporto intradivino, progressivamente storicizzato nel presente, fatto connesso a due condizioni avvenute - l'affidamento totale del Padre in Gesù e la provenienza di quest'ultimo dal Padre - e ad una destinata a verificarsi nel presente, ossia il ritorno gesuano a Dio.

In questo quadro, a tinte certamente non limpide, il testo dimostra quanto ogni altra disquisizione o teorizzazione sia evitata. Interviene un atteggiamento pratico assai parlante che dà ragione di quanto è stato detto. Gesù, infatti, compie un gesto - la lavanda dei piedi ai propri discepoli suoi commensali - non usuale a pasto iniziato, ma comunque abbastanza consueto nei confronti di propri ospiti.
La sequenza delle azioni preparatorie poste in essere ha tutta l'immediatezza e la continuità del tempo verbale prevalentemente usato, il presente, mentre puntuativo e storicamente determinato appare il punto d'arrivo: Gesù si mette a disposizione di coloro che lo circondano più da vicino in una necessità quotidiana e concreta, che non «lascia trasparire una volontà di umiliazione davanti ai discepoli», ma che manifesta la sua generosa disponibilità, quella dell'ospite, acuita notevolmente dal fatto che questo pasto è «il suo pasto, l'ultimo con i suoi».
Pietro non viene rappresentato come il discepolo più importante e neppure come il primo a cui siano state lavate le estremità degli arti inferiori. Certamente è considerato anche in Gv il più rappresentativo. Diversamente non si capirebbe il senso del suo colloquio con il Maestro, che occupa buona parte di questa sezione della pericope. La dinamica del dialogo è ternaria e dimostra la disparità di atteggiamento relazionale ed esistenziale tra i due interlocutori e la diversità di piani espressivi a cui essi si situano. Infatti

  • alla presa di distanza piena di sorpresa che Pietro esprime corrisponde una richiesta di fiducia da parte di Gesù che allude a quanto si appresta drammaticamente a vivere come elemento chiarificatore di quello che egli vuole fare ora (v. 7);
  • al deciso rifiuto di Pietro, che si oppone con assolutezza alla volontà di Gesù di lavargli i piedi, fa riscontro l'affermazione gesuana che condiziona il rapporto di Pietro con lui all'accettazione di questo beneficio. Gesù non parla più della parte del corpo lavata, ma dell'azione in sé, privandosi della quale il discepolo non avrà comunione di vita con lui (v. 8);
  • all'iperbolica domanda petrina, che, sia pure raggiungendo l'opposto dell'affermazione appena precedente, ragiona sempre in termini materiali, superficiali e rudemente ironici (v. 9), si contrappone la considerazione di Gesù, il quale parla in forma simbolica e sostanziale. Egli si riferisce alla condizione dei discepoli, sottolineando quanto significativo sia il rapporto che la maggior parte di loro ha stretto con lui, al punto che l'unica imperfezione rimasta pare quella che egli stesso sta eliminando (v. 10).

Pietro non è, comunque, in sintonia con colui che egli chiama Signore. Gesù, in tre modi diversi, fa sempre riferimento all'aspetto qualificante della vita degli uomini che egli ha delineato nel rapporto con il Padre e il discepolo non coglie, egli sì "mai" il senso del discorso. Non capisce che a lui e ai suoi compagni Gesù chiede, in questa forma ad un tempo immediata e suggestiva, «l'accoglienza del suo dono di amore, il riconoscimento della sua missione di inviato che ora arriva a compimento.
Si capisce allora che Giuda, il traditore, estraneo a questa logica di fede, resta escluso dall'efficacia purificatrice del dono di Gesù». Una purificazione che non ha alcun legame con ritualismi o formalismi di sorta. «Un discepolo ha bisogno soltanto che gli lavino i piedi, cioè che gli mostrino l'amore, dandogli dignità e libertà... Ormai non esistono impurità rituali o legali, eccetto la complicità con un ordinamento ingiusto».
Con il linguaggio del culto, comprensibile a molti, il Maestro parla di una "pulizia" esistenziale: quella che vive il rapporto con il Figlio, quindi, il Padre, nell'accettare in pratica la logica del donarsi concretamente ad ogni essere umano che ne abbia bisogno.

Il senso della prassi (vv. 12-20)

12Quando dunque ebbe lavato i loro piedi, ebbe ripreso le vesti e si fu seduto di nuovo, disse loro: «Sapete che cosa ho fatto a voi? 13Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. 15Vi ho dato infatti l'esempio, perché come io ho fatto a voi, facciate a vostra volta. 16In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. 17Se siete consapevoli di queste cose, sarete beati se le farete. 18Non parlo di tutti voi; io conosco chi ho scelto; ma affinché si adempia la Scrittura: Colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno... 19Ve lo dico fin d'ora, prima che capiti, perché, quando sarà avvenuto, crediate che Io Sono. 20In verità, in verità vi dico: Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me, ma chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato».

La sequenza narrativa si è conclusa: Gesù, per ora, ha terminato di agire e torna alle parole. Egli ha ripreso i vestiti senza che il testo dica che egli si sia tolto l'asciugatoio: «questo si trasforma, pertanto, in attributo permanente di Gesù: il suo amore-servizio non finirà con la morte; per questo il suo costato, da cui sgorga lo Spirito, rimarrà aperto (20,25-27)».
Egli è cosciente delle caratteristiche essenziali del suo ruolo: magistero e signoria gli vengono riconosciuti dai discepoli ed egli sancisce la veridicità delle loro asserzioni. Questi due titoli designano condizioni non anzitutto assolute ma relative: si tratta di una superiorità qualitativa e quantitativa in relazione a persone che si dicono e/o sono inferiori sotto quei punti di vista. Gesù, in quanto loro guida divina e umana, ha messo se stesso a disposizione delle loro necessità, dunque di chi gli è inferiore: «Gesù è maestro perché col suo gesto, che preludeva alla sua morte (15,13), fa far loro l'esperienza di essere amati, e così insegna ad amare con un amore che risponde al suo (1,16)... Così si esercita la signoria di Dio, che è quella di Gesù, come una forza che, dall'interno, porta l'uomo all'espansione. Non accaparra, ma sviluppa... è punto d'arrivo di una somiglianza, che apre un orizzonte sempre più vasto».
Egli ha fatto tutto ciò in piena libertà, solo per altruismo. A maggior ragione gli esseri umani sono chiamati a comportarsi vicendevolmente nello stesso modo, se sono effettivamente suoi discepoli. Essi hanno un debito di amore verso i propri compagni: si tratta dell'amore che hanno ricevuto da Dio in Gesù Cristo. Essi possono mettersi nell'atteggiamento del debitore che salda soltanto se si mettono al servizio degli altri. Quale che sia la lettura esterna di questi gesti, questa è l'unica interpretazione e opzione pratica legittima: lo stesso v. 15 lo afferma senza equivoci, reiterando e spiegando ulteriormente il senso dell'agire di Gesù, modello visivo del tutto chiaro e non semplicemente «esempio morale (da seguire o no)».
Egli nel pieno rispetto delle "gerarchie" sostanziali e cronologiche, rafforza la sua argomentazione con parole del tutto comprensibili ai suoi ascoltatori e che non devono suscitare altri commenti se non quelli strettamente inerenti alla sequenza testuale. Il dovere costituzionale di un servo, così come di un apostolo, è di essere fedeli alle indicazioni e alla volontà di coloro dai quali dipendono.
E quando chi è "padrone" o "mittente" si distingue essenzialmente per l'amore che nutre in concreto per chi gli è sottoposto, la grandezza dei "subordinati" consiste esattamente nell'amare nel modo più analogo possibile. La consapevolezza in atto di questa prospettiva, - dunque contestualmente la coscienza intellettual-interiore e l'eventuale pratica di questo modo di vivere - hanno un punto di arrivo esaltante e chiaro: la beatitudine. Gesù sa che il male è in azione e il testo giovanneo, alludendo chiaramente al prossimo tradimento umano del Maestro, fa notare che tale evento non è da attribuirsi ad un deficit da parte di Gesù, ma alle necessità del piano divino, che supera l'umanità di Gesù e la sua eventuale volontà di autoconservazione terrena (v. 18).
L'ombra della tragedia si staglia sempre più sensibilmente nella narrazione. Il compimento della Rivelazione divina a favore dell'umanità deve realizzarsi e ciò avverrà in un modo che potrebbe essere scandaloso per gli stessi suoi discepoli: la divinità di Gesù non deve essere in discussione e neppure la loro fiducia in essa. Infatti gli apostoli gesuani e Gesù stesso, sia pure a diversi livelli di successione, condividono la medesima condizione di inviati dello stesso mandatario: Dio Padre.
Questo riferimento conclusivo rinvia circolarmente all'inizio del brano. La dinamica del rapporto tra gli esseri umani e Dio passa attraverso l'unico tramite decisivo e definitivo e l'apertura accogliente all'inviato del Padre determina l'esistenza effettiva o meno di questa relazione di vita.

c) Linee di sintesi

L'inizio della fine di Gesù uomo è l'inizio del dispiegamento del fine della sua esistenza. Gv non racconta l'ultima cena, ma attraverso qualche gesto e molte parole di Gesù offre, in forma diversa e "complementare", la chiave di lettura di passione, morte e risurrezione. Un'azione di servizio dai connotati precisi e non mutabili in un contesto di commensalità fraterna: ecco la via interpretativa in questione.
L'acqua, l'asciugatoio e le energie impiegate per lavare i piedi dei discepoli qualificano in modo essenziale la fisionomia del Dio di Gesù Cristo, che agisce per l'uomo e spiega le ragioni dell'azione perché il bene compiuto si estenda il più possibile.
Essere alla scuola di questo Dio non richiede doni intellettuali superiori: il discepolato e l'apostolato si estrinsecano anzitutto nel servizio quotidiano e concreto, a cominciare dalle esigenze più immediate e modeste, verso i propri simili.
Gli esseri umani presenti in questo brano sembrano, per varie, ragioni, piuttosto lontani da questa prospettiva:

  • Pietro è incerto e comunque manca le proporzioni dei suoi interventi: la fiducia è parziale e l'incomprensione palese;
  • il discepolo traditore rifiuta l'amore infrangendo la relazione di amicizia instauratasi in un lungo periodo di frequentazione quotidiana.

Entrambi, nella diversità dei ruoli e delle scelte che hanno fatto, fanno e faranno nel corso degli eventi decisivi della rivelazione di Dio, evidenziano di non aver capito che essere in rapporto con Gesù Cristo non significa altro che rispondere al suo amore comportandosi il più possibile come lui con i propri simili.
Tutto quello che potesse essere utile per favorire una consapevolezza maggiore in proposito da parte degli esseri umani è stato messo in opera da Dio. Egli ha accettato anche di subire l'azione demoniaca per eccellenza, la morte innocente. A quale scopo? Perché donne e uomini potessero, sin dalla dimensione terrena della loro vita, sperimentare la beatitudine. Essa è la felicità piena fatta, come dice Gv, inestricabilmente di comprensione intellettuale del bene altruistico e di pratica del medesimo. La sua raggiungibilità non è incondizionata. Dipende

  • dall'intensità del rapporto con Gesù, ossia dalla sua somiglianza a quello esistente tra il Figlio e il Padre;
  • dalla capacità di vivere uno stile sociale che realizza convivialità;
  • dalla consapevolezza di dover e poter vivere il servizio agli altri con tenacia, dignità e trasparenza.

La felicità del cristiano è tutta qui. Risiede nella purezza dell'amore senza fine che non ha nulla di volontaristico e di generico, ma si misura costantemente sulle necessità degli altri. Non per divenirne schiavo, ma servo, così da ricercare la propria autentica identità che è quella donatagli da Dio sin dalla creazione e che Gesù gli ha consentito di ritrovare. Ogni evangelizzazione non può che passare attraverso la testimonianza vitale di questa riscoperta, che parla, da sempre, con un'efficacia ineguagliabile.

2.3. I testi "fondamentali" dei racconti dell'Ultima Cena

Marco 14,22-25

«[22] Mentre mangiavano, (Gesù), preso il pane e pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro e disse: "Prendete, questo è il mio corpo". [23] E, dopo aver preso un calice e aver reso grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. [24] E disse: "Questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per la moltitudine. [25] In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio"».

Matteo 26,26-29

«[26] Ora, mentre essi mangiavano, Gesù preso il pane e pronunziata la benedizione, lo spezzò e, datolo ai discepoli, disse: "Prendete,mangiate; questo è il mio corpo". [27] E dopo aver preso un calice e aver reso grazie, (lo) diede loro dicendo: "Bevetene tutti. [28] Infatti questo è il mio sangue dell'alleanza, versato riguardo alla moltitudine, in remissione di peccati. [29] E io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio

Luca 22,14-20

«[14] Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, [15] e disse: "Ho desiderato ardentemente mangiare questa Pasqua con voi, prima del mio patire. [16] Infatti vi dico: non la mangerò più, finché essa non sia compiuta nel regno di Dio". [17] E dopo aver preso un calice e aver reso grazie e disse: "Prendetelo e distribuitelo tra voi stessi, [18] poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non sia giunto il regno di Dio". [19] Poi, dopo aver preso un pane e aver reso grazie, (lo) spezzò e (lo) diede loro dicendo: "Questo è il mio corpo, dato per voi; fate questo in memoria di me". [20] Allo stesso modo dopo aver cenato, (prese) il calice dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, versato per voi"».

1Cor 11,23b-26

«[23] Io ricevetti da parte del Signore quello che trasmisi anche a voi: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese un pane [24] e, dopo aver reso grazie, (lo) spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me". [25] Allo stesso modo, dopo aver cenato, (prese anche) il calice, dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogniqualvolta ne beviate, in memoria di me". [26] Ogniqualvolta infatti mangiate di questo pane e beviate il calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli sia giunto».

Prima di iniziare la ricerca dettagliata degli elementi testuali qualificanti dell'Ultima Cena occorre precisare quattro dati di fatto.
• Il primo: i quattro brani della sinossi iniziale e, in particolare i racconti evangelici non vanno considerati diversamente rispetto a qualsiasi altro testo biblico e, specificamente, evangelico: si tratta di mediazioni ermeneutiche dell'evento "Ultima Cena" che non è più possibile cogliere nella sua totale effettualità storica così come non è più possibile cogliere "positivisticamente" il Gesù effettivo di cui anche le versioni evangeliche canoniche sono nulla di più e nulla di meno che interpretazioni.
Che la sacramentalità eucaristica cristiana in questi passi abbia trovato sino ad oggi il suo fondamento storico è altrettanto sicuro. Ciononostante il campo delle «ipsissima verba della cena ci sfugge quasi completamente. Anche se è storicamente lecito immaginarlo in buona parte, non saremmo in grado di comprenderlo nella sua completezza e di riprodurlo nella sua singolarità iniziale. Non possiamo fare altro che immaginarlo, oggettivamente, a partire dalle diverse mediazioni comunitarie che ne sono i diversi echi», cioè considerando proprio le narrazioni specifiche contenute nelle versioni evangeliche e in altri testi neo-testamentari, a cominciare dai passi che sto per analizzare.
• Secondo dato: nel giudaismo rabbinico il pasto ha potuto essere concepito, dalla vita del Tempio di Gerusalemme alla sfera domestica, dall'altare alla tavola, come il luogo privilegiato di un rapporto di comunione con Dio. E, dal I secolo a.C. in poi, tale "domesticizzazione" fu sempre più favorita dalla difficile raggiungibilità per molti del Tempio, dall'aumento progressivo d'importanza di culti misterici o di culti spiritualizzati e dalla presa di distanza, sotto il profilo ideologico (si pensi, per esempio, alla comunità di Qumran) dal santuario gerosolimitano.
• Terzo dato: durante la sua vita pubblica Gesù prese parte sovente a dei conviti dove confluivano persone religiosamente, socialmente e culturalmente eterogenee, in cui gli esclusivismi erano assenti o banditi (cfr., per es., Lc 7,36-50; 14,12-24; Mt 9,11; 11,19): «chi è in comunione con Gesù, chiunque egli sia, entra nel regno di Dio e dispone di una nuova possibilità di vita. La solidarietà di cui si fa esperienza sedendo insieme alla mensa è un segno che prefigura il banchetto eterno (Mt 22,1-14; 25,1-13; 8,11)».
• Quarto dato: per leggere in modo letterariamente e storicamente corretto questi brani, occorre tener presente quel genere letterario, ripetutamente riscontrabile, per esempio, nei testi profetici primo-testamentari e in vari luoghi neo-testamentari, che è il mimo, cioè il racconto di gesti simbolici che incarnano la Parola di Dio nella sua effettualità concreta.
Una prima lettura dei quattro testi mostra chiaramente delle significative differenze e degli "apparentamenti" tra loro. Vediamo, però, anzitutto gli elementi più comuni ai quattro brani, cercando di coglierne i dati qualificanti.

(a) Aspetti intertestuali ricorrenti

Vediamo da vicino, sia pure per cenni fondamentali, tanto i contesti precedenti quanto i brani specifici. Punto di riferimento per l'analisi è il testo di Mc 14,12ss.
In Mc 14,22 e nei paralleli di Mt 26 e Lc 22 la serata, iniziata in termini di familiarità serena, procede: si è oltrepassato l'antipasto, si è entrati nel vivo della cena della memoria. Mentre la fase preparatoria, avviata dai discepoli, è ampiamente sovrapponibile nei tre racconti (cfr. Mc 14,12-16; Mt 26,17-19; Lc 22,7-13), il testo di Luca 22,15-16 risulta del tutto peculiare. In linea con molti altri suoi passaggi, emotivamente assai connotati, il testo manifesta, in modo rilevante, il trasporto emotivo di Gesù in un quadro di estrema elevatezza teologica e culturale, dalla dimensione terrena immediata a quella escatologica. Si vedano, infatti,

  • la ripetizione retorica epithumia/epethumesa, che esprime un intensissimo e subitaneo desiderio;
  • l'oggetto di questo sentimento nella sua concretezza più ritualmente chiara (= la consumazione della Pasqua);
  • il raccordo tra la celebrazione imminente (= il momento centrale dell'Ultima Cena), la sofferenza incombente (= la Passione e Morte) e la pienezza dell'evento evocato (= Risurrezione) raggiungibile soltanto nel luogo della completa realizzazione della sovranità divina.

Si considerino sinotticamente i versetti successivi nelle tre versioni (su Lc 22,17 tornerò dopo) e in 1Cor 11 anzitutto dal punto di vista morfologico-semantico: si riscontrerà che tutte le azioni di ordine tradizionale (benedizione, rendimento di grazie e condivisione delle vivande tra i commensali) sono temporalmente puntuative, dunque istantanee. Esse appaiono del tutto concrete, la loro portata è d'indubbio rilievo culturale, ma non tratteggerebbero che un importante momento di riflessione e ridefinizione dell'identità dei presenti.
Gesù, che ha messo a disposizione la sua esistenza sin dall'inizio della sua attività pubblica, proclamando l'evangelo della vita attraverso parole efficaci, non si limita a fare il capofamiglia della situazione, il portavoce degli uomini verso e presso il Padre. Proietta tutti, avvalendosi delle categorie culturali del passato, dal presente al futuro. Nell'estrema semplicità strutturale di due brevi enunciazioni (questo è il mio corpo...questo è il mio sangue), presenti ambedue e in modo congruente in Mc e Mt, solo in parte in Lc e 1Cor, Gesù riassume tutto il significato essenziale del suo esistere.
Questo è il mio corpo: è l'intera persona del Maestro ad essere chiamata in causa (soma ha un evidente valore complessivo). Prendere dalle mani del capotavola il pane spezzato è abituale per un giudeo. Ricevere il pane in questione come simbolo della persona del Figlio di Dio, del Messia è sconvolgente. Soprattutto quando si coglie che cosa significhi il verbo essere di questa frase: per Gesù e per i suoi interlocutori, un ebreo di fronte ad altri ebrei, il pane acquisiva un nuovo valore obiettivo, legato alla sua funzione nuova, ossia rendere presente la persona di Gesù stesso in mezzo a quanti credono in lui.
La spartizione del pane della misera schiavitù e della partenza liberante (cfr. Es 12,15-20) diviene la condivisione del massimo nutrimento di liberazione possibile all'essere umano: la persona stessa di Gesù che si dona.
Questo è il mio sangue: lo sconvolgimento non può che aumentare. Infatti i presenti, dopo aver bevuto secondo il rito loro consueto, si sentono dire qualcosa che per un ebreo era del tutto sacrilego: bere il sangue di un essere vivente (la Torà era inequivocabile in proposito: cfr. Gen 9,4-6; Lv 17,10-14).
Non è quindi pensabile che Gesù intendesse operare in proprio o far agire i suoi in un senso così chiaramente censurabile. Egli cambia quindi completamente la prospettiva esistenzial-culturale vigente sino a quel momento. Egli parla del proprio sangue.
Questo fatto pone in evidenza contemporaneamente due aspetti:

  • solo Dio può disporre dell'esistenza dei viventi e Gesù dispone di quanto rappresenta la sua vita;
  • gli esseri umani non possono sacrificare a Dio sangue di viventi: Gesù è quindi al di fuori dell'ambito degli umani.

La portata straordinaria del tutto non finisce qui. Infatti questo sangue è quello dell'alleanza, quindi è, secondo le categorie bibliche ben note a tutti i presenti, lo strumento della relazione fondativa tra Dio e il popolo d'Israele (cfr. Es 24,6).
Inoltre questo sangue è versato per molti(1), dunque è consapevolmente finalizzato alla donazione volontaria di colui cui appartiene a vantaggio non solo dei presenti, ma dell'insieme degli esseri umani. E anche quando, in Lc si parla in modo verbalmente meno esplicito di esso, è palese l'idea che il contenuto di quel calice sia destinato al bene dei discepoli («Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, versato per voi»).
È quindi certamente anche una sostituzione, ma senza nessun connotato di restituzione o compensazione penale, bensì con il valore della massima solidarietà di Dio nei confronti e a vantaggio dell'essere umano.
Mc 14,25 e i paralleli evangelici variamente accostabili rafforza ulteriormente la prospettiva di "rivoluzione" nella continuità culturale che Gesù realizza. Infatti egli, non pronuncia termini equivoci e giudaicamente inaccettabili sul sangue, ma, nel contesto solenne della locuzione dell'amen, utilizza la formula tipica della benedizione giudaica, sempre obbligatoria prima di bere una coppa di vino, per annunciare che da quel momento cesserà di partecipare ai banchetti terreni. E l'offerta del calice sottolinea il dinamismo del gesto eucaristico: nella formula di consacrazione (cfr. Mc 14,23-24; Mt 26,27-28; Lc 22,20; 1Cor 11,25) si parla sempre di calice, e non di vino: «il calice è la vita di Gesù regalata ai discepoli e a tutti gli uomini: e tutti a loro volta sono chiamati a fare della propria esistenza un dono gratuito agli altri».
Gesù proietta tutti verso i tempi ultimi connotandoli con il senso della gioia festiva che il banchetto ed il vino simboleggiano. Essa è realizzata dalla concretizzazione del quadro di valore da lui presentato sin dall'inizio del suo ministero, quadro definitivamente nuovo rispetto alle condizioni di vita unicamente terrene: il regno di Dio, a quel punto non solo divenuto vicino (Mc 1,15), ma pienamente attuato. A questo proposito la versione lucana presenta il testo più inequivocabilmente esplicito (22,18). E, come ribadisce anche 1Cor 11,26, «l'economia divina trova il suo senso soltanto alla fine dei tempi. La celebrazione cristiana della frazione del pane che si ripete come liturgia terrestre diventa, quindi, un'azione cultuale valida soltanto nel tempo intermedio, mentre i discepoli sulla terra seguono ancora con fatica l'itinerario del Maestro».
Comunque l'affinità con i convivii comunitari di varie confraternite ellenistiche a fini commemorativi è soltanto esteriore, in quanto qui si tratta di una cena che è la memoria di Gesù, il Signore risorto e vivo.
Proprio quest'ultimo riferimento al regno divino, collocato al termine del racconto dell'Ultima Cena, ha un grande valore riassuntivo. In Mc 1-13 / Mt 3-25 / Lc 3-21 il concetto di regno resta aperto a varie interpretazioni. L'enfasi è data, di volta in volta, alla sua vicinanza (Mc 1,15), al suo sviluppo (Mc 4,26-29; 4,30-32) e alla sua improvvisa irruzione (9,1). Mc 14 / Mt 26 / Lc 22 collegano tutte queste immagini del regno ad un centrale tema cristologico. Il regno del Figlio dell'Uomo nel regno di Dio è preceduto dal tradimento e dalla morte del Figlio dell'Uomo a Gerusalemme. Di conseguenza le varie immagini del regno apparse nei capitoli precedenti delle versioni sinottiche assumono una nuova, decisiva interpretazione attraverso l'angolo visuale della passione nei capitoli indicati, e, anzitutto, nei vv. in esame.

(b) Differenziazioni parallele

I quattro brani considerati sinora sono evidentemente apparentabili soprattutto a due a due: quelli marciano e matteano da un lato e quelli lucano e paolino dall'altro.

I testi marciano e matteano

Una tradizione gerosolimitana pare alla base dei testi tratti dalle versioni marciana e matteana. La sovrapponibilità lessicale tra i passi di Mc e Mt è certo notevole (49 parole marciane su 69, ossia oltre il 71%, sono identiche a oltre il 62% di quelle matteane, che, complessivamente sono 79). Nei casi di vocaboli o di strutture non congruenti, vi sono fattispecie semanticamente non rilevanti (cfr., per es., la fine del v. 23c di Mc 14 e del v. 27 di Mt 26) oppure discendenti in misura notevole da una più marcata attenzione matteana alla regolarità sintattica della lingua greca.
La presenza del tema della benedizione appare in tutta la sua connotazione giudaica. E l'insistenza duplice dei due testi sul binomio di azioni costituito dal donare storico di Gesù (= diede) e dagli imperativi rivolti ai discepoli (prendete... mangiate... bevete) esprime con particolare rilievo il carattere relazionale e conviviale della cena in corso: «Gesù non mira tanto agli elementi che lui distribuisce, ma cerca piuttosto il rapporto con i commensali chiamati a condividere il dono che egli fa di se stesso».
E se si considera la precedenza cronologica di Marco su Matteo e si reputa il secondo testo dipendente dal primo, si noti ancora come il passo matteano presenta alcune importanti peculiarità.
Infatti, anzitutto, circa il sangue dell'alleanza versato (v. 28), fermo restando l'oggetto di tale destinazione (i molti) al complemento di vantaggio upèr pollon marciano si sostituisce un complemento di argomento (perì pollon) e la finalizzazione riconciliatoria del perdono degli errori nelle relazioni fondamentali della vita (eis afaseis amartion). Quale significato hanno questi due elementi? «La cena eucaristica celebrata dalla comunità diventa, nel tempo, il mezzo perenne del perdono dei peccati. L'alleanza che commemora la cena del Signore è l'impegno che Dio assume di perdonare i peccati e di acquistarsi a tutti i costi un nuovo popolo».
D'altra parte questo riferimento matteano è in linea con una sensibilità già riscontrabile in precedenza in questa versione evangelica. Infatti in Mt 1,21 l'etimologia del nome di Gesù è indicata secondo la seguente formulazione: «egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». E in Mt 4,3 - differentemente da quanto avviene in Mc 1,4 e Lc 3,3 - viene escluso che possa essere Giovanni il Battezzatore a perdonare i peccati: il perdono può essere ottenuto soltanto tramite Cristo.
In secondo luogo si riprenda Mt 26,29: «Ma vi dico, d'ora innanzi non berrò più di questo frutto della vita, fino a quel giorno, quando lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio». Due sono le differenze rispetto al testo marciano:

  • con voi: «il pasto escatologico è necessariamente un pasto comunitario. Dopo aver annunciato ai Dodici la provvisoria interruzione della comunità di tavola, Gesù annuncia contemporaneamente la sua ripresa nel regno di Dio». In Mc invece la profezia concerne per il momento solo la sorte di Gesù, la sorte del Figlio dell'Uomo, che affronta la morte e verrà innalzato da Dio;
  • del Padre mio: la marcata attenzione alla paternità di Dio attraversa l'intera versione matteana. Si consideri, anzitutto, l'intero discorso della montagna (capp. 5-7) e il suo culminare nella preghiera del "Padrenostro". Il Gesù matteano invita i discepoli a guardare a Dio in particolare nella sua caratteristica di padre.
I testi lucano e paolino

Una tradizione di matrice antiochena sembra alla base di questi altri due testi. Certamente il passo lucano presenta, come si è detto in precedenza, vari aspetti di stretta somiglianza con i brani corrispondenti delle due altre versioni sinottiche. La sua tradizione manoscritta, tra l'altro, è tormentata. Infatti vi sono almeno quattro altre lezioni di questo passo oltre a quella che ho proposto: una lettura del Codice Beza e di alcune versioni latine antiche che riportano soltanto i vv. 17-19a; due altre che mostrano il solo v. 19 seguito dai vv. 17-18; la versione siriaca antica che, nel manoscritto curetoniano, trasmette il v. 19 e i vv. 17-18 e, in quello sinaitico, la sequenza 19-20a.17.20b.18.
I due punti sovrapponibili tra Lc 22 e 1Cor 11 sono di notevole rilievo.
• Anzitutto l'identità simbolica del calice condiviso tra i presenti. Non si tratta, come nelle due altre versioni sinottiche, del sangue dell'alleanza versato... ma della nuova alleanza nel mio sangue. Quello che i presenti si sono passati è il segno di un patto nettamente diverso da quello storico tra Dio e il popolo d'Israele e il sangue di Gesù ne è il contesto e lo strumento sanzionatorio.
• In secondo luogo la proposizione fate questo in memoria di me, in cui sia la valenza durativa del verbo all'imperativo, la fisionomia semantica generale del sostantivo e il valore del complemento di fine sottolineano l'intensità dell'invito che i discepoli ricevono da Gesù a rivivere successivamente questi gesti secondo due prospettive:

  • come collegamento effettivo con lui;
  • come opportunità di testimoniare la sua persona nella sua globalità, dunque vivere cercando di realizzare con gli altri e per gli altri l'amore testimoniato dall'intera vita gesuana.

La chiusa del brano paolino («Ogniqualvolta infatti mangiate di questo pane e beviate il calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli sia giunto») appare una vera e propria vetta ermeneutica nella sua grande capacità di sintesi tra parola e azione di Gesù: «il pasto comunitario, in cui è espressa una parola risuscitata, è designato come il luogo della presenza reale del Signore, a condizione di restare il luogo di un vivo richiamo alla croce e di essere anche il luogo di una continua attesa della sua venuta».

(c) Linee di sintesi

I quattro testi esaminati testimoniano, nelle loro differenze, comprese le varianti proprie del passo lucano, come la comprensione dell'Ultima Cena sia stata contemporaneamente unitaria e diversificata.
Assai probabile è il fatto che questo pasto d'addio di Gesù sia stata una cena pasquale: tanti elementi di questi racconti lo fanno pensare e il fatto che non vi sia traccia né dell'agnello né delle erbe amare né di altri ingredienti propri del pasto della Pasqua ebraica, non è incomprensibile: i momenti conviviali di Gesù, ampiamente riportati nelle versioni evangeliche, sono, nella loro assenza di esclusivismi di qualsiasi genere, il punto di partenza che trova nella cena d'addio, intrisa di elementi pasquali, il culmine dal punto di vista teologico e antropologico.
E l'eucaristia delle comunità cristiane primitive, che è certamente la prassi riassunta in questi racconti, si rifaceva anzitutto, come lo stesso contesto di 1Cor 11,23b-26 testimonia, alle cene consumate da Gesù con i discepoli e la gente, non esclusi i peccatori pubblici e i pubblicani.
Si è insistito molto sul carattere pasquale dell'Ultima Cena, perché si tratta di un contesto cultuale in cui il sorprendente comportamento di Cristo assume la sua piena rilevanza, un comportamento di donazione piena agli esseri umani, a cominciare dai suoi discepoli, che costituisce lo sviluppo definitivo coerente con la sua esperienza esistenziale:
«alla vigilia della morte Gesù si dona ai suoi amici che, mangiando il pane da lui spezzato e offerto, partecipano effettivamente alla realtà salvifica del suo gesto oblativo... Se la pasqua ebraica costituiva la viva e vivificante memoria dell'evento salvifico dell'esodo, la cena pasquale di Gesù è il vivo e vivificante preannuncio dell'evento salvifico della croce... Certo, in croce Gesù è finito per la nequizia degli uomini, ma egli ne ha fatto un atto personalissimo di donazione della sua vita»(2).
È probabile che, intorno all'anno 70, il redattore marciano abbia unito due elementi distinti ricevuti dalla tradizione: il gesto della cena e i motivi del banchetto messianico (Mc 14,23-25).
L'azione simbolica di Gesù, che annunciava la sua morte, s'illumina allora di un'immensa speranza nella novità del Regno. L'incontro tra queste due tradizioni - il motivo del sangue dell'alleanza e quello del vino del Regno - ha probabilmente chiarito il racconto in modo positivo, proprio alla luce del pasto messianico.
In questo quadro di probabile ricostruzione storico-testuale, in cui le diverse sequenze di parole restano non sovrapponibili, si riesce a capire adeguatamente il valore basilare dell'Ultima Cena per la fede cristiana, dalle origini in poi. Infatti, nella prospettiva della morte che si profila imminente, Gesù di Nazareth ha vissuto l'ultimo momento di vita direttamente per e con i suoi discepoli in un convito che da momento pre-festivo/festivo tradizionale, memoria dell'evento storico fondamentale per gli ebrei, assume una configurazione sostanzialmente nuova. E questo a tre livelli:

  • l'eucaristia diviene superamento delle conseguenze del distacco rattristante tra Gesù e i suoi discepoli: «facendo esistere l'eucaristia Gesù rompe quel muro di tristezza e stabilisce un nuovo modo con cui egli continua ad essere presente; grazie all'eucaristia i suoi discepoli ricevono la possibilità di attingere a uno specialissimo banchetto dove il cibo del pane e del vino è costituito veicolo della carne e del sangue del loro maestro il quale, così, prolunga la sua presenza a vantaggio dei suoi».
  • L'eucaristia è, ad un tempo, simbolo della generosità gesuana, della violenza umana su Gesù, che divide il corpo dal sangue, e del valore sacrificale della morte gesuana quale via e strumento di riconciliazione tra Dio e gli esseri umani(3): «davanti ai suoi discepoli Gesù fa un mimo della sua morte, rappresentandola davanti a loro; è l'atteggiamento di un profeta e di un martire che porta la missione fino al suo compimento, dando alla sua propria morte un significato di amore e di servizio... Il primo significato è quindi l'invito al dono totale agli altri, sull'esempio del Maestro».
  • L'eucaristia appare un invito indirizzato ai discepoli affinché portino a compimento il loro discepolato assumendo in proprio la scelta di condivisione di sé per gli altri che il loro Maestro si prepara a vivere sino in fondo (cfr., per esempio, i tre annunci di passione, morte e risurrezione in Mc 8.9.10).

A questo quadro complessivo, che si fonda anzitutto su testi giunti alla nostra contemporaneità attraverso versioni evangeliche pervenute a redazione finale tra il 68 e l'83/85 d.C., che già 1Cor 11,23b-26 ha "codificato" una quindicina di anni prima, questo testo paolino offre il contesto esplicito di una comunità dove il celebrare l'eucaristia è occasione per contrasti e divisioni.
La celebrazione non si limita all'evocazione rituale di un evento importante: i corinzi devono ricordare costantemente che ogni eucaristia è un gesto impegnativo, in cui essi prendono posizione nei confronti della morte stessa di Gesù. In altre parole «Paolo sottolinea che l'eucaristia, non opzionale né eterna, è tipica della situazione cristiana presente: da quando Gesù risorto è tornato accanto a Dio Padre..., sino al giorno in cui egli verrà di nuovo fra noi».
Perché, quindi, è legittimo utilizzare l'espressione metonimica eucaristia quando si vuole indicare in compendio quanto discende anche sacramentalmente dai testi che ho appena presentato? Anzitutto perché si prende le mosse dal verbo eucaristein (= ringraziare) che ricorre nei passi in oggetto: «ringraziando per il pasto effettuato Gesù precisa che non si tratta di un pasto ordinario, bensì di quello in cui si porta a compimento il progetto di Dio, cioè l'alleanza definitiva. Questa sarà realizzata dalla fedeltà di Gesù, che affronta una morte violenta. Ecco perché la tradizione ha chiamato la cena del Signore "eucaristia"».

3. cenni di riepilogo esegetico e storico

La lettura dei testi biblici presentata e le osservazioni esegetico-ermeneutiche relative spingono a fare alcune considerazioni, che devono sempre discendere da un dato di fatto a questo punto evidentissimo: oggi a noi sono disponibili racconti che sono scaturiti dalle testimonianze sull'Ultima Cena passate attraverso il vaglio della pratica celebrativa eucaristica delle comunità dei primi decenni successivi alla fine dell'esperienza storica di Gesù di Nazareth. La stessa impossibilità di sovrapporre i primi quattro testi che abbiamo analizzato indica quanto sia indebita ogni meccanica equazione tra l'Ultima Cena di Gesù con i discepoli e questi racconti.
I passi biblici di argomento eucaristico, tanto quelli neo-testamentari che ho esaminato quanto quelli che ho soltanto citato, avevano l'obiettivo di essere testimonianze degne di fede di fatti che avevano cambiato radicalmente la vita di coloro che vi avevano preso parte o che ne avevano avuto narrazione dai testimoni oculari. Comunque «la celebrazione ecclesiale della cena del Signore condensa in se stessa un'esperienza religiosa complessa, rievocatrice del passato, cioè della cena e della morte di Cristo, partecipativa al presente dell'efficacia salvifica della croce e fiduciosamente protesa al compimento ultimo del progetto di Dio»(4).
Prima di qualsiasi ragionamento occorre considerare il dato di fatto essenziale in proposito; dall'inizio della sua presenza storica Gesù Cristo offre se stesso come parola efficace che dà la vita. Le versioni evangeliche canoniche, ciascuna a suo modo, lo mostrano inequivocabilmente e il momento dell'Ultima Cena con i discepoli più stretti appare come l'affermazione culminante di tale donazione. Lo stesso Paolo di Tarso si esprime a partire da questa evidente consapevolezza. In quella serata dell'aprile del 30 d.C. Gesù accetta di sacrificarsi per gli altri per essere fedele al proprio essere. Egli ha deciso di rendere sacra, cioè importante quant'altre mai per la vita di tutti, la strada dell'amore vissuto fino al massimo altruismo.
Dio che si fa uomo non reputa di avere alternative: il segno distintivo del rapporto tra Lui e l'umanità deve essere un esodo collettivo dalla sicurezza della propria fisionomia e ricchezza culturale sino all'incontro fraternamente solidale con qualsiasi compagno di umanità, condizione essenziale per vivere una vita capace di andare al di là del dolore, della sofferenza, della morte.
E il momento decisivo in cui rivelare la logica del proprio vivere associa il clou della ritualità religiosa liberante con la familiarità e la quotidianità più esplicite e gioiose: la cena d'impianto pasquale, centrata sulla condivisione di pane e vino, in cui Gesù identifica se stesso e il suo amore disposto ad andare incontro alla morte. «Mediante questi doni egli rende i discepoli partecipi della sua vita votata alla morte e lascia loro in eredità una vita di comunione che continua anche dopo questa sua vita in terra». I discepoli sono invitati a prendervi parte integralmente, perché da lì, per tanti versi, tutto quanto è vita vera comincia.
Gesù ha evocato il banchetto paradisiaco della fine dei tempi in vista di una lotta incessante contro il male che i suoi discepoli sono chiamati ad ingaggiare con rinnovata determinazione: sta per iniziare il tempo della Chiesa, contraddistinto dal combattimento contro le forze dell'egoismo distruttivo e diabolico, rispetto al quale le possibilità di vittoria dipendono dalla presenza nuova «di colui che se ne va e che affronta la morte, affidando la sua causa a Dio suo Padre».
Questa straordinaria ricchezza, che dal rito religioso dovrebbe trasfondersi in tutta la vita precedente e successiva alla celebrazione quotidiana e/o domenicale, è, come si è appena detto, quella di un sacramento nel senso più ricco e intenso del termine («segno di una cosa sacra, in quanto è in grado di rendere santi gli esseri umani» come diceva Tommaso d'Aquino).
E questo perché, come si è visto chiaramente anche nell'esame dei testi biblici condotto, l'eucaristia discende dalla tradizione liberatoria propria della Pasqua giudaica allargata e universalizzata dallo spirito di apertura transculturale propria dei conviti a cui il Nazareno partecipò durante il suo ministero terreno. In proposito si consideri attentamente questa suggestive e lucida ipotesi di ricostruzione storico-sacramentale:

«Gesù è morto, i discepoli sono fuggiti, sconfitti, spaventati, probabilmente non del tutto disperati. L'attesa escatologica si è di nuovo ravvivata dopo che alcuni hanno avuto l'esperienza che il crocifisso viveva (At 1,6; ndr: anche Lc 24,13-53). Nell'attesa della parusia, i discepoli e poi i convertiti hanno continuato a radunarsi per i pranzi fraterni, ricordando la comunità di mensa con il Maestro durante la sua vita terrena. Non avevano dimenticato le parole: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono anch'io". Il Signore era invisibile, ma sentito come un commensale dell'agape fraterna. Poi si è aggiunto il ricordo anche dell'Ultima Cena e l'attesa escatologica collegata con essa. Il pasto fraterno in memoria della cena comporta anche la memoria della morte e della risurrezione del Signore. Il ritardo della Parusia richiede una nuova interpretazione dell'esperienza dei pasti fraterni di Gesù con i discepoli. da memoriale dei pasti quotidiani e di quello dell'Ultima Cena, l'agape comunitaria diventa una celebrazione cultuale in cui il Signore glorioso è presente e i commensali perseverano nella preghiera: "Vieni, Signore Gesù": parole che esprimono l'attesa ardente della parusia. La presenza misteriosa del Signore nei pasti comunitari si rende sempre più concreta e alla fine si precisa e si identifica nella realtà degli elementi: il pane e il vino, probabilmente in un senso simbolico. In contatto con le comunità ellenistiche, l'agape si è convertita in una celebrazione sacramentale, in un'azione cultuale che ha interpretato il corpo e il sangue di Cristo, presenti, misteriosamente, nel pane e nel vino della celebrazione eucaristica. Così lo intendono il quarto vangelo alla fine del primo secolo, per ragioni cristologiche (Gv 6,51-58) e le lettere del martire Ignazio d'Antiochia nel secolo II. Non possiamo pensare che queste grandi linee (...) abbiano seguito un percorso omogeneo in tutte le Chiese. Si dovrebbe pensare piuttosto che una sinfonia di significati abbia preceduto l'unità sacramentale attestata, a partire dal II secolo d.C., dai Padri Apostolici e dai grandi dottori della Chiesa d'oriente e d'occidente fino alla riforma protestante»

Proprio perché Gesù Cristo è l'ospite che invita e l'offerta fatta ai commensali perché essi accettino l'invito e facciano altrettanto della loro vita, l'eucaristia è il "sacramento dei sacramenti".
Essa riafferma, al di fuori di ogni cedimento verso interpretazioni dell'eucaristia di carattere "magico" che deresponsabilizzino l'esistenza degli individui, che la santità in questione dipende dall'apertura consapevole dell'essere umano, nelle scelte e nei comportamenti della propria vita, all'amore divino. D'altra parte gli autori del Nuovo Testamento non si interessarono al "come" della conversione delle sostanze eucaristiche. Tutto il loro interesse si è basato «sul realismo di questa presenza del Risorto al centro stesso di un pasto comune da cui sorge la loro comunità, a sua volta risorta».
E, comunque, alla luce dei testi neo-testamentari presi in esame, il cuore della logica eucaristica appare questo:

«Non basta affermare che nel pane e nel vino è presente il Cristo: occorre scorgervi la presenza di una vita in dono, e occorre prendervi parte. Si noti allora come il testo parli di sangue bevuto, condiviso. Dalla prima comunione (quella di Dio con noi) scaturisce la seconda (quella fra noi): la via del Cristo (una vita in dono) definisce la sequela».

Quello che è importante è, dunque, poter continuare a camminare insieme perché dentro le Chiese cristiane e nei rapporti tra di loro e con le altre componenti della società umana, si diffonda sempre di più una logica di vita davvero eucaristica, fatta cioè di amore solidale ed effettivo che diventi la coordinata essenziale della propria quotidianità. I riti sacri sono assai importanti per rafforzare questa prospettiva, primo fra tutti la celebrazione dell'Eucaristia/Santa Cena.
E i rischi più gravi, che minano alla base questo discorso sono i due che Giovanni Calvino ricorda: «uno è che indebolendo la portata dei segni, li si allontani dai misteri ai quali essi sono in qualche modo legati, e di conseguenza non si indebolisca l'efficacia. L'altro, che magnificandoli oltre misura, non si oscuri la virtù interiore».
Stare alla larga da svuotamenti depauperanti ed esaltazioni emotivistiche ed irragionevoli, che la storia del cristianesimo ha variamente registrato, appare il modo migliore per crescere nella comprensione tra i cristiani ed offrire al mondo un'interpretazione del mistero eucaristico sempre più rispettosa dei dati biblici, dunque delle radici autentiche della fede cristiana.

«La cena ha perso il suo valore perché è stata rivestita di effetti automatici e relegata in un ambito sacro dove solo i "giusti" possono entrare, ma sono quei giusti dei quali Gesù ha detto che in cielo si fa poca o nessuna festa (cfr. Lc 15,7). Bisogna imbandire frequentemente la cena del Signore e offrire ad un sempre maggior numero di uomini l'occasione di conoscere e di capire ciò che Gesù ha fatto per il bene di tutti e ciò che a tutti spetta ancora compiere per portare avanti l'opera da lui iniziata. Si può continuare a ripetere che Gesù è presente sotto i segni del pane (spezzato) e del vino (versato), ma sapendo che il segno non è qualcosa di più di una forma di linguaggio. Può modificare le menti e i cuori di quelli che lo osservano ma non la realtà. I segni ricordano come questa è stata cambiata e suggeriscono come poterla cambiare... Non una virtù magica, ma un potere mnemonico (anamnesis) nei confronti della morte di Gesù e delle ragioni per cui l'aveva subita»(5).

È allora del tutto fondato affermare che non si devono prendere i racconti neo-testamentari eucaristicamente fondativi subito come dei modelli che implicano un atteggiamento di vita comune e di condivisione. Essi sono narrazioni interpretative che istituiscono e propongono una logica di azione che può essere attiva nella pratica della condivisione, se chi le ascolta, le assume come eticamente impegnative. È un invito all'interpretazione esistenziale personale e comunitaria delle interpretazioni che le prime due generazioni dei discepoli di Gesù Cristo hanno dato dell'Ultima Cena e dei valori etico-religiosi da essa espressi.

4. Questioni ecumeniche attuali

Sono esistite ed esistono, come è noto, in alcune Chiese sorte dalle radici della Riforma protestante, atteggiamenti che tolgono importanza e rilievo all'inestimabile ricchezza del sacrificio eucaristico e della sua celebrazione. Queste deprivazioni non vanno certamente incoraggiate, perché non sono radicabili nell'originalità cristiana che i testi biblici ci trasmettono.
D'altra parte talune affermazioni della recente enciclica papale "Ecclesia de Eucharistia" (cfr., per esempio, n. 30) denunciano - non si può negarlo - una concezione dell'unità tra i cristiani piuttosto unilaterale(6). L'elemento che impedisce il riconoscimento da parte della Chiesa cattolica della concezione della Cena presente in molte Chiese protestanti è ovviamente la diversa accezione di "sacramento", assai estesa per i cattolici, variamente ristretta per gli eredi di Lutero e Calvino.
Il dialogo ecumenico deve procedere in modo che l'intercomunione possa essere il punto d'arrivo di un processo in cui ciascuno cerca di capire le ragioni storiche delle concezioni altrui. Certamente il documento pubblicato a Lima nel 1982 e universalmente noto come BEM (= Battesimo, ecuaristia, ministero) ha costituito una tappa tanto importante, quanto non pienamente realizzato in ordine ad una comprensione davvero cristiana anche del tema eucaristico. In campo protestante e riformato, dopo l'affermazione della comunione ecclesiale tra le Chiese europee di tradizioni luterane, riformate e unite tedesche (Concordia di Leuenberg, marzo 1973, accettata dal 1996 anche da valdesi e metodisti) si è registrato un ulteriore notevole passo "riaggregativo" - la Dichiarazione di Reilly del 1999 - che ha visto concordare le Chiese luterane e riformate francesi e le Chiese anglicane britanniche anche nel campo in esame:
«Noi crediamo che la celebrazione della cena del Signore - l'Eucarestia - è la festa della nuova alleanza istituita da Gesù Cristo, nella quale la parola di Dio è proclamata e nella quale Cristo crocifisso e risorto dona alla comunità il suo corpo e il suo sangue sotto i segni visibili del pane e del vino. Nell'avvenimento eucaristico, Cristo è veramente presente per condividere con noi la sua vita risorta e per unirci a lui nel dono che fa di se stesso al Padre nel sacrificio unico, pieno, perfetto e sufficiente che lui solo può offrire e ha offerto una volta per tutte. In questa celebrazione sperimentiamo l'amore di Dio e il perdono dei peccati in Gesù Cristo e proclamiamo la sua morte e la sua risurrezione fino al suo ritorno e al compimento del suo Regno».
La questione della presenza reale di Gesù Cristo nel pane e nel vino consacrati resta un elemento di divaricazione tra cattolici e molti cristiani protestanti e riformati, soprattutto se si insiste da parte cattolica sulla nozione non biblicamente fondabile di transustanziazione e da parte protestante-riformata su un valore simbolico estremamente etereo e minimalisticamente memorativo del sacramento. Calvino, a questo proposito, nell'Institutio Christiana, faceva alcune affermazioni molto interessanti, forse non a tutti note:

  • «Coloro che dicono che consacrando il pane si opera una conversione segreta, al punto che vi sia altro che pane e vino, non è, come ho già mostrato, per significare che il pane e il vino svaniscano, ma che bisogna considerarli diversamente rispetto ai nutrimenti comuni, utili soltanto a nutrire il ventre, dato che siamo in possesso in questa circostanza della bevanda e dell'alimento spirituali, atti a nutrire le nostre anime. Confessiamo dunque che ciò che dicono gli antichi Dottori è vero»;
  • «Io non accetto affatto questo cavillo, cioè il dire che riceviamo Gesù Cristo soltanto tramite l'intelligenza e il pensiero, allorché è detto che lo riceviamo tramite la fede. Perché le promesse ce lo offrono, non per farcelo soltanto intravedere con una semplice e pura contemplazione, ma per farci godere veramente della sua comunione»;
  • «Io dico dunque che nella Cena Gesù Cristo ci è veramente dato sotto i segni del pane e del vino, cioè il suo corpo e il suo sangue, nei quali ha adempiuto ogni giustizia per farci ottenere la salvezza; ciò avviene dapprima affinché noi siamo uniti in un corpo, poi affinché, essendosi resi partecipi della sua sostanza, noi sentiamo anche la sua virtù, comunicando a tutti i suoi benefici».

In termini non certo divergenti Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Ecclesia De Eucharistia (n. 15), dopo aver ripreso la definizione di transustanziazione del Concilio di Trento, asseriva:
«Davvero l'Eucarestia è mysterium fidei, mistero che sovrasta i nostri pensieri, e può essere accolto solo nella fede, come spesso ricordano le catechesi patristiche su questo divin Sacramento. "Non vedere - esorta san Cirillo di Gerusalemme - nel pane e nel vino dei semplici naturali elementi, perché il Signore ha detto espressamente che sono il suo corpo e il suo sangue: la fede te lo assicura, benché i sensi ti suggeriscano altro"» (Catechesi mistagogiche IV,6).
E più avanti:
«L'efficacia salvifica del sacrificio si realizza in pienezza quando ci si comunica ricevendo il corpo e il sangue del Signore. Il Sacrificio eucaristico è di per sé orientato all'unione intima di noi fedeli con Cristo; attraverso la comunione riceviamo Lui stesso che si è offerto per noi, il suo corpo che Egli ha consegnato per noi, il suo sangue che ha "versato per molti, in remissione dei peccati"» (n.16).
Sul tema della presenza reale di Gesù Cristo nel pane e nel vino e della convergenza sostanziale su questo tema tra i cristiani di diverse denominazioni, mi pare assai proficua la pista indicata da un noto teologo contemporaneo, dalla storia personale evidentemente ecumenica:
«L'Eucarestia comporta la presenza di Cristo in un modo unico che non può essere paragonato con nessun altro modo di presenza da parte di Dio (...). Gesù ha detto sul pane e sul vino dell'Eucarestia: 'Questo è il mio corpo... questo è il mio sangue'. Quanto Cristo ha detto è la verità, e si compie ogni volta che viene celebrata l'Eucarestia. La Chiesa confessa la presenza reale, vivente e operante di Cristo nell'Eucarestia. La presenza di Cristo nell'Eucarestia è una presenza personale che entra in relazione personale con i credenti e con i comunicanti. La presenza eucaristica non è una cosa o un oggetto, è una relazione da persona a persona. Un mobile non è presente in una stanza; esso è semplicemente là. Delle persone possono trovarsi molto vicine o perfino chiuse in un luogo, per esempio in un mezzo di trasporto collettivo senza essere presenti le une alle altre; come gli oggetti, possono addirittura essere soltanto le une in riferimento alle altre. Se per esempio sopraggiunge un incidente, se qualcuno viene ferito e gli altri si occupano di lui, lo curano e lo aiutano, allora quegli esseri che erano semplicemente là, diventano presenti gli uni agli altri, perché le loro persone entrano in relazione le une con le altre: l'essere presente di ognuna di loro coincide con l'essere presente dell'altra; da oggetti giustapposti che erano diventano presenti le une alle altre secondo una relazione veramente personale. Tuttavia questa relazione personale tra gli esseri, questa presenza degli uni agli altri, questa coincidenza del loro essere presente, non possono attuarsi che attraverso la mediazione dei corpi che si danno gli uni agi altri segni personali di presenza. La presenza di Cristo nell'Eucarestia è la presenza personale del Risorto, che entra in relazione con la persona di ogni cristiano, che fa coincidere il suo presente con il presente di ognuno. Il mezzo o la mediazione di questa relazione personale di Cristo con i comunicanti è il suo corpo di Risorto, che è presente e si manifesta sotto i segni del pane e del vino: il corpo del Risorto diventa corpo eucaristico per stabilire la relazione personale di Cristo con la persona dei credenti, attraverso il loro corpo, del quale diventa il nutrimento soprannaturale»(7).
Questa angolatura dovrebbe permettere di riconoscere gli eccessi fondamentalistici opposti: certe insistenze datate sulla transustanziazione da un lato, talune comprensioni riduttivamente commemorative dell'Ultima Cena dall'altro - nella prospettiva che essi siano abbandonati. Nell'Eucarestia, «la finalità primaria della presenza di Cristo è quella della comunione o della manducazione. Risulta quindi inesatto e aliena dall'interpretazione ecclesiale l'affermazione che Cristo si rende presente per stare in mezzo a noi, magari per essere adorato»(8)

5. Questioni cattoliche di ieri e di oggi

La celebrazione eucaristica domenicale è ancora, anzitutto in buona parte dei Paesi europei, il momento di massima aggregazione a livello ecclesiale. Milioni di persone si ritrovano settimanalmente nelle chiese e questa costituirebbe una formidabile occasione informativa e formativa con un grande impatto sulla dimensione interiore e sociale della vita
Spesso, e soprattutto tra le giovani generazioni nate in territori dove la presenza cattolica è, storicamente quasi totalizzante o nettamente maggioritaria, la celebrazione dell'Eucarestia risulta poco e per nulla significativa in quanto non sa interpellare la vita di tutti i giorni. Per varie ragioni.

5.1. Ripetitività, noia e "patologie" dell'appartenenza

In molte celebrazioni, la ripetitività si profila nei suoi lati di monotonia avvilente, rigidamente protocollare, non nel senso della confortante continuità di una ricca tradizione umanizzante. Chi prende parte al rito spesso non vede l'ora che esso si concluda, in quanto la mentalità che egli condivide è anzitutto quella dell'assolvimento di una precetto, non delle ricerca di stimoli per vivere effettivamente meglio con se stesso e con gli altri.
Il senso di fraternità effettiva, che nell'Eucarestia dovrebbe essere vissuto e da essa promanare nella vita di tutti, sovente appare carente se non assente. Si passa, non di rado, da una serie di individui "anonimi" gli uni agli altri (anche se si vedono da anni tutte le domeniche..., magari nello stesso posto in chiesa), che stentano molto a vivere, anche in quei momenti, la continuità tra rito e vita.
La comunitarietà "non autoreferenziale" risulta spesso assente, certe forme di "settarismo" sono fin troppo riscontrabili al punto tale che celebrare la cena del Signore sembra un modo anzitutto per rinsaldare l'appartenenza a questo o a quel gruppo o movimento quasi in prospettiva esclusiva rispetto all'apertura solidale di cui l'Eucarestia è il sacramento per eccellenza.

5.2. L'omelia e la sua formatività interiore e sociale

Troppe sono, mi sembra, le omelie prolisse, o moralistiche o generiche o, anche, improvvisate. Il comune denominatore di tutte queste "performances" è almeno il seguente: sono poco o per nulla attente a proporre il commento, ad un tempo, serio ed esistenziale di una parte - non necessariamente di tutte - le letture bibliche proposte.
Certamente il momento omiletico è uno dei più ardui nella formazione cristiana sia nella preparazione che nell'esecuzione.
Il singolo presbitero "protagonista" deve, in pochi minuti, aiutare ascoltatrici ed ascoltatori - che concelebrano con lui un rito che culmina con la memoria attiva dell'Ultima Cena del Signore - a leggere la Parola di Dio per lasciar interpellare la propria e altrui vita da essa. È senz'altro un compito assai difficile, in primo luogo per quanto attiene alla capacità di tradurre nozioni esegetiche ed ermeneutiche in comunicazione comprensibile che orienti alla meditazione esistenziale.
In questa prospettiva vi sono, tuttavia, alcuni interrogativi che vengono immediati.
• Quanti sono i presbiteri che dedicano un tempo congruo, nel corso della loro settimana, ad approfondire perlomeno i testi biblici della celebrazione eucaristica domenicale? Quanti di loro hanno il tempo, la sensibilità interiore, la curiosità intellettuale e le risorse economiche per aggiornarsi in modo significativo circa una capacità di leggere la Bibbia dall'esegesi alla cultura quotidiana contemporanea che tenga conto della necessità di "annunciare il Vangelo in un mondo che cambia"?
• Quanti sono i cosiddetti "fedeli medi" che sollecitano e interpellano il prete su molti altri aspetti, di ordine spirituale, sociale, caritativo, spesso di grande importanza per la vita loro o di altri, ma che non riguardano la formazione biblica in genere o la qualità delle omelie in specifico?
Le ragioni sono varie. Indubbiamente giocano un ruolo assai importante l'ignoranza biblica, più o meno ampia, di molti che frequentano le assemblee eucaristiche e la loro scarsa consapevolezza circa la possibilità e la necessità di interagire con chi presiede il rito anche sotto questi punti di vista.
• L'apporto di religiose, laiche e laici solidamente formati sotto il profilo biblico e teologico (e oggi vi sono tante persone che hanno una formazione ben superiore a quella di non pochi presbiteri) non potrebbe contribuire positivamente a questo momento della celebrazione eucaristica? Esso non pare proprio tangenziale rispetto al sacerdozio battesimale comune dei fedeli ed è propedeutico alla liturgia eucaristica tout court...
Comunque, in tutte le circostanze nelle quali - e sono moltissime, perlomeno in Italia - gli stessi presbiteri, per anni, presiedono le stesse Messe domenicali di fronte, in larga misura, sempre alle stesse persone, sarebbe possibile realizzare un vero e proprio progetto formativo, tanto semplice quanto immediatamente attuabile. La ciclicità dell'anno liturgico nella Chiesa cattolica, sia pure con le differenze che esistono, per esempio, tra rito romano e rito ambrosiano, permette, per limitarsi anche solo all'Occidente europeo, di strutturare un vero e proprio percorso di "catechesi domenicale".
In esso, certamente non sul breve periodo, ma a medio e lungo termine, si può contribuire ad accrescere notevolmente la sensibilità di chi ascolta ad una lettura biblica più matura e capace di orientare la propria esistenza, in evidente, stretta continuità con i valori affermati, giorno dopo giorno, domenica dopo domenica, dalla memoria eticamente dinamicizzante dell'Ultima Cena.
Gli strumenti bibliografici esistono copiosamente, la possibilità di congegnare quale strumento ad hoc per parrocchie, vicariati e zone pastorali che suggerisca anche altri testi e sussidi per continuare la riflessione, è alla portata di qualsiasi ufficio catechistico o per il culto divino anche delle diocesi più piccole e meno dotate di risorse culturali in proposito. Se gli stessi foglietti per le Messe domenicali proponessero sempre qualche titolo commentato di saggi utili per l'approfondimento del tema guida della singola domenica o festività, vi sarebbe un ulteriore aiuto nella direzione formativa indicata.

5.3. Il linguaggio della celebrazione

Frequenti sono le formule rituali dal linguaggio o difficilmente comprensibile, o legato a categorie teologiche superate (persino "moralistico-terroristiche", magari in riferimento a concetti, quali, per esempio, il sacrificio di Gesù Cristo come sostituzione penale). Mi riferisco sia ad alcuni testi dei prefazi domenicali sia a talune invocazioni - al termine dei riti d'introduzione, oppure all'inizio dei riti conclusivi, prima della benedizione finale: il lessico della maggior parte della popolazione non contempla più, se mai l'ha contemplata, una serie di termini propri del linguaggio teologico-salvifico tradizionale.
E se si vuole evitare che un numero sempre più ridotto di persone ascolti effettivamente queste parti significative della celebrazione eucaristica, occorre studiare cambiamenti che non facciano perdere la ricchezza semantica di vocaboli e perifrasi, ma non ne escludano dalla comprensione tantissime.

6. La ritualità eucaristica nella vita di sempre

Quando si considera il tema dell'Eucaristia cristiana e le molteplici opacità dalle quali la pratica cultuale odierna si trova oscurata, sia a causa di uno spazio ancora grande lasciato al devozionismo sia in ragione dell'insignificanza esistenziale e ripetitività protocollare da cui è contraddistinta, non si dimentichi che questo sacramento è una pedagogia attiva dell'amore vissuto dal Dio di Gesù Cristo, che consiste nel donare la propria vita per coloro che si amino, cioè «nel rinnovare, in ogni circostanza, il processo di morte e di risurrezione significato nello scambio di alimenti, nell'attesa del ritorno del Signore. La vigilanza cristiana è una vigilanza nell'alleanza, quindi nella carità, che resta l'anima di ogni comportamento cristiano».
Tutte le lettrici e tutti i lettori di queste pagine sono d'accordo, in proposito? Il dibattito è aperto, e deve poter restare tale, nella costante ricerca di formulazioni dottrinali nuove e condivise, che possano consentire a tutti gli interlocutori di abbandonare le posizioni divaricanti per riesprimere, con maggiore efficacia e fedeltà del passato ed insieme, il comune "tesoro" costituito dal depositum fidei.
A condizione che si abbia almeno una consapevolezza, senza la quale qualsiasi riflessione teologica rimane astratta e e ogni frequentazione sacramentale risulta sostanzialmente inutile:
««La cena ha perso il suo valore perché è stata rivestita di effetti automatici e relegata in un ambito sacro dove solo i "giusti" possono entrare, ma sono quei giusti dei quali Gesù ha detto che in cielo si fa posa o nessuna festa (cfr. Lc 15,7). Bisogna imbandire frequentemente la cena del Signore e offrire ad un sempre maggior numero dei uomini l'occasione di conoscere e di capire ciò che Gesù ha fatto per il bene di tutti e ciò che a tutti spetta ancora compiere per portare avanti l'opera da lui iniziata. Si può continuare a ripetere che Gesù è presente sotto i segni del pane (spezzato) e del vino (versato), ma sapendo che il segno non è qualcosa di più di una forma di linguaggio. Può modificare le menti e i cuori di quelli che lo osservano ma non la realtà. I segni ricordano come questa è stata cambiata e suggeriscono come poterla cambiare... Non una virtù magica, ma un potere mnemonico (anamnesis) nei confronti della morte di Gesù e delle ragioni per cui l'aveva subita».
Segni sacramentali, preghiere formalizzate, momenti di culto fissati nei secoli a cominciare dalla ritualità eucaristica: ecco una serie di forme, variamente significative, che sostengono il processo di avvicinamento della vita di ciascuno al sacrificio e culto neo-testamentari integrali (cfr. anzitutto Rm 12,1-2), se sono vissute come fedeli interpreti dell'amore di Cristo crocifisso e risorto.
Questo processo di santificazione di sé e della personale vita di relazione è certamente senza fine. Sarebbe del tutto velleitario, se non avesse modo di svolgersi secondo itinerari in cui le soste - i momenti di celebrazione cultuale, liturgici insomma - risultano rilevanti almeno quanto il percorso feriale.
Infatti la celebrazione eucaristica cristiana non è la vita quotidiana, ma essa è sempre il riconoscimento della presenza e dell'azione del Risorto nella vita quotidiana. La liturgia e la vita sono intimamente unite, se il Risorto, con il quale si comunica nella celebrazione, è ben presente nella vita durante gli altri momenti e attività dell'esistenza. Tutti coloro che cercano di essergli discepoli non possono seguirlo a lungo, se essi non si fermano, di tanto in tanto, per ascoltarlo e festeggiarlo.
Dal I secolo d.C. a oggi, la dimensione liturgica è e deve essere, a un tempo, radice e frutto dell'esperienza cristiana di fede: per un cristiano o, meglio ancora, per una comunità cristiana che fa una scelta per l'impegno, è logico che tutta l'attenzione venga proiettata in avanti, verso un progetto concreto da realizzare in un futuro più o meno immediato ma che cominci già a agire sul presente.
Questa proiezione in avanti è cristianamente valida nella misura in cui resta fedelmente ancorata all'evento fontale costituito dall'attuazione radicalmente completa in Cristo del progetto escatologico di Dio.
Due tipi di memoria sono richiesti al discepolo di Gesù: una con l'azione liturgica, l'altra con un comportamento di servizio.
La Chiesa è invitata a due azioni diverse, una nella vita del culto, l'altra nell'esistenza extra-cultuale «ma l'una e l'altra sono ugualmente orientate verso l'amore dei fratelli: ambedue perseguono il fine di animare la Chiesa. Una è simbolo per mezzo del cibo, l'altra esprime, per mezzo del gesto di un servizio idoneo, la vita nuova dei cristiani. L'una e l'altra manifestano nell'azione liturgica o nel gesto di carità la presenza attraverso l'assenza del Signore vivente», nella necessità che alla sua capacità di amore ogni discepolo guardi per essere fedele alla propria dignità di credente, ossia di figlio credibile del Padre di tutti.

7. Per un cristianesimo liberante e vitale, ossia davvero eucaristico

Per secoli la partecipazione fisica ai riti cristiani è stata ritenuta il criterio fondamentale per stabilire chi, nella società, anzitutto occidentale, fosse cristiano e chi non lo fosse. Da qualche decennio questo discorso appare sempre più inadeguato e non rispondente alla realtà dei fatti. Resta, per altro, legittima una domanda: partecipare ai sacramenti e in particolare all'Eucaristia/Santa Cena è condizione necessaria per essere credenti nel Dio di Gesù Cristo?
Necessaria sì, ma per nulla sufficiente: lo dicono i testi biblici che abbiamo esaminato nel corso di queste pagine.
Infatti, se nelle relazioni con gli altri, che si intrattengono durante e dopo ogni celebrazione, non si sperimenta la bellezza impegnativa dell'amore di Dio per l'umanità e non si riesce a crescere in questa logica di donazione, ciò vuol dire che tra il rito e la vita c'è una separazione che occorre cercare tenacemente di ridurre il più possibile. Diversamente il cuore dell'essere discepoli del Nazareno crocifisso e risorto sfugge e il rischio di essere cristiani esteriori è vivissimo.
Superare stabilmente la separazione appena citata vorrebbe dire essere di fronte alla realizzazione piena del Regno di Dio: è questione, quindi, della fine della Storia.
D'altra parte chiedersi quale senso abbia una partecipazione ai riti che dica poco o nulla alla quotidianità normale della vita, è segno della volontà di prendere sul serio quello che la Bibbia propone da millenni: l'importanza fondamentale del rito liturgico per accentuare la responsabilità di chi lo vive verso la ricerca della felicità nella propria vita e verso il rispetto di tale ricerca nella vita degli altri.
Allora è certamente insostenibile una pratica sacramentale smentita fortemente dai comportamenti etici quotidiani, ma è altrettanto implausibile, perlomeno parlando in termini cristiani, una scelta di vita che si dica "credente non praticante".
Ovviamente la libertà degli individui deve essere sovrana in questo campo: ciascuno può credere e proporsi come vuole. Cionostante gran parte di coloro che parlano della celebrazione dei sacramenti come "pratica cristiana", non hanno potuto sperimentare, probabilmente, quanto è felicemente inscindibile, anzitutto per la gioia di ogni persona, il legame tra la quotidianità interiore e sociale di una vita buona e solidale e le occasioni di riflessione, stimolo e riorientamento esistenziale che anzitutto l'Eucaristia/Santa Cena ha per l'esistenza.
In definitiva, i credenti a rischio di "incombente fariseismo" (chi è senza peccato in proposito, scagli la famosa "prima pietra"!) e la folla di persone del "credere senza praticare" hanno dinanzi a sé, sia pure da angolature diverse, un'analoga "separazione" da oltrepassare, un comune "fossato" da riempire: la dicotomia tra rito e vita. Si tratta, comunque, di passare, giorno per giorno, ad una dimensione della vita più calorosamente umanizzante di quella precedente.
«L'eucaristia non è un toccasana, non può modificare automaticamente lo stato d'animo di chi la riceve. Addita solo la via che Gesù ha percorso, fino a morire in croce, per realizzare il volere del Padre. Chi si comunica, va cioè a prendere il pane spezzato, dichiara pubblicamente che è disposto a fare altrettanto; in altre parole si dichiara pronto ad attuare gli impegni della propria vocazione cristiana. Il pane eucaristico non fortifica per sua natura la volontà; non nutre le potenze psichiche e spirituali dell'uomo, ma solo quelle fisiche come qualsiasi altro alimento; sta però a ricordare (per questo è un memoriale) quello che uno ha fatto per tutti e quanto quelli che credono in lui, che accettano cioè come normativa la sua testimonianza, hanno deciso di fare. Il "fare" è ciò che conta perché possa cambiare qualcosa nelle situazioni erronee o false esistenti nella società e nella convivenza umana»(9).
Le sacre Scritture ebraiche e cristiane lo evidenziano, le occasioni formative per ricordarlo non mancano e nelle relazioni interpersonali, a cominciare da quelle brevi, da persona a persona, focalizzare questa barriera e attivare vie di "superamento" è certamente possibile. Dipende quasi tutto, ancora una volta, da quanto e come si crede alla positività del processo per la vita propria e altrui.
Le assemblee eucaristiche, anzitutto domenicali, riuniscono ancora, complessivamente, svariati milioni di persone in tutto il mondo e del valore di cui i sacramenti sono segni - l'amore di Gesù Cristo da vivere in se stessi, con e per gli altri - vi è un bisogno eccezionale ancora oggi, come e più di sempre, a tutti i livelli possibili, nella Chiesa e nella società.
Non per creare consessi tranquillizzanti, che anestetizzino le coscienze e consegnino tutti al devozionismo dolciastro o all'apnea etico-sociale, perpetuando solo la distanza del rito dalla vita vissuta prima e dopo l'ingresso in chiesa per quel momento specifico di culto. «L'assemblea eucaristica è un aiuto comunitario per avere la forza di resistere alle prove di qualsiasi genere: corruzione, tortura, violenza e miseria, come noi le conosciamo ancora oggi nell'universo... Non è certamente il momento di preparare la rivoluzione armata, ma è la mensa ove si alimentano e si sostengono i testimoni dell'amore di Dio e della giustizia».
Tantissime celebrazioni eucaristiche, soprattutto nel Nord del mondo, non paiono più avere rapporti con i valori di fondo che il Nuovo Testamento esprime. Perché le cose cambino, cioè possano essere biblicamente vitali, al di fuori di sentimentalismi religiosi e devozionismi paganeggianti, non c'è tempo da perdere...

Note

(1)Nell'espressione uper pollon (lett. = per molti) il pronome indefinito polloi non va inteso secondo una lettura comune nel greco extra-biblico, ma appare, nella koiné neo-testamentaria, un semitismo per indicare la moltitudine, dunque tutti, proprio perché ebraico ed aramaico non possiedono il termine che corrisponda alla totalità (cfr., per es., F. Blass - A. Debrunner, Grammatica del greco del Nuovo Testamento, tr. it., Paideia, Brescia 1982, § 2451). Tra gli ascendenti primo-testamentari di quest'espressione, cfr. assai utilmente Is 52,13 - 53,12 e, titolo rafforzativo dell'interpretazione universale in questione, si vedano testi neo-testamentari quali, per es., Rm 5,18-19. Per avere un'idea precisa di come si possa interpretare letteralisticamente questa locuzione si veda, per esempio, il recentissimo saggio di M. Hauke, Versato per molti, Cantagalli, Siena 2008. Lo studioso tedesco sottolinea (cfr. in particolare pp. 22-32) la possibilità di una traduzione per molti e cita, con innegabile acribia, tutta una serie di riferimenti neo-testamentari letti a vantaggio di tale interpretazione "restrittiva". Egli, però, sembra non considerare la progressività di estensione della missione gesuana, per esempio proprio nella versione matteana, tra l'inizio del testo e il suo sviluppo (cfr. per es. Mt 8,10-12; 15,21-28; 28,16-20) secondo un'universalità sempre più marcata e al di fuori di esclusivismi e limitazioni etniche o religiose.

(2)G. Barbaglio, L'istituzione dell'eucaristia [Mc 14,22-25; 1Cor 11,23-24 e par.], pp.132-133.

(3)«Nessuna redenzione viene dal sangue versato dalla violenza per compensare la violenza. Nessuna riconciliazione con Dio scaturisce dalla distruzione della vita che placa il Faraone. È nel gesto che attira su di sé la violenza che c'è riscatto. Il gesto che la fa esplodere al proprio interno e nelle proprie membra, per evitare che l'altro ne venga ferito e contaminato: questo è il gesto che sigilla la rivelazione di Dio... Se proprio la stupidità degli uomini si dirige senza scampo verso l'obiettivo di versare il sangue dell'altro per onorare Dio, Dio verserà il proprio sangue per risparmiare quello dell'altro... Perché l'onore di Dio sta nella determinazione con la quale il Figlio si dispone a deviare su di sé, in nome di Dio, la violenza che nasce dall'opposizione all'evangelo» (P. Sequeri, Il timore di Dio, Vita e Pensiero, Milano 1993, pp. 133-134).

(4)G. Barbaglio, L'istituzione dell'eucaristia, p. 135.

(5)O. Da Spinetoli, Bibbia e Catechismo, Paideia, Brescia 1999, pp. 287-289; cfr. anche X. Léon-Dufour, Il pane della vita, pp. 45-46.

(6)D'altra parte la presa di posizione della Congregazione della Dottrina della Fede (29 giugno 2007) sull'unicità della Chiesa cattolica romana come vera Chiesa non è certo da meno

(7)M. Thurian, Il mistero dell'Eucaristia, Edizioni Paoline, Roma 1982, pp. 76-84. «Gesù non ha dichiarato semplicemente "questo è il mio corpo", egli ha fatto precedere la sua affermazione da "prendete" o l'ha fatta seguire da "per voi", invitando i suoi discepoli a riconoscere attivamente il valore della sua affermazione generale e» la presenza eucaristica «non è quella di un oggetto, di una "cosa": io no ricevo passivamente il corpo di Cristo; io m'impegno dicendo "Amen", io non creo affatto la presenza, ma la riconosco in nome della mia fede in Gesù» (X. Léon-Dufour, Il pane della vita, p. 57).

(8)R. Falsini, La presenza eucaristica, in "Rivista della diocesi di Lugano" CVIII (4/2004), 104 (queste affermazioni di padre Falsini sono comparse anzitutto nel n. 21 del 28 maggio 2000 del periodico "Settimana"). Un'altra questione di notevole rilievo, molteplicemente collegata al tema eucaristico, è il confronto tra la concezione cattolica del ruolo del presbitero come presidente della celebrazione eucaristica e "attore unico" della consacrazione del pane e del vino, valida ex opere operato, e il valore che nelle Chiese protestanti e riformate si ascrive a tutti questi aspetti. Anche su questo argomento si veda utilmente W. Kasper, Sacramento dell'unità. Eucaristia e Chiesa, Queriniana, Brescia 2004.

(9) O. Da Spinetoli, Bibbia e Catechismo, p. 289.

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